Biografie della Resistenza Italiana          

A B C D E F GI J K L M N O P Q R S T U V Z

 

   

pallanimred.gif (323 byte) Alessandro Vaia

Nato a Milano nel 1907. Diplomato in ragioneria, aderì nel 1925 al movimento giovanile comunista. Giovanissimo, divenne allievo ufficiale dell’esercito italiano. Irriducibile antifascista, pagò con cinque anni di duro carcere militare la sua avversione al regime fascista. Uscito dal carcere, da clandestino lascia l’Italia e da allora è un rivoluzionario di professione. In quegli anni lo troviamo prima a Parigi tra gli antifascisti italiani e poi a Mosca alla scuola leninista prima e a quella militare poi, dalla quale ricava preziosi insegnamenti  che saranno per lui utilissimi per le lotte che è chiamato a organizzare e dirigere prima in Spagna e poi in Italia nel corso della guerra di Liberazione. In Spagna è comandante delle Brigate Garibaldi e dà un inestimabile contributo a quella gloriosa lotta. Successivamente viene rinchiuso nel campo di concentramento di Fernet e da qui trasferito in un carcere francese; nel corso della prigionia organizza la fuga con altri compagni. Negli anni 1941-'43 organizzò i FTP nella regione marsigliese. Rientrato in Italia nel settembre 1943, nell'inverno successivo dirige il movimento partigiano comunista nelle Marche. Durante la guerra di Liberazione lo troviamo comandante delle Brigate Gap e delle Brigate Garibaldine che operano nelle Marche. Per il contributo dato, è stato decorato medaglia d’argento al valor militare. Dopo la Liberazione lavora presso la Direzione del partito in Alta Italia, insieme a Longo e Secchia e, come ispettore della direzione, dà un notevole contributo alla costruzione del partito. Diventa segretario della federazione di Cremona, poi di Brescia e infine vice-segretario a Milano. Consigliere provinciale di Milano dal 1951 al 1956, fu contrario all’estromissione di Alberganti da segretario della Federazione di Milano, nel 1958, a favore del giovane Armando Cossutta, considerato tra i “rinnovatori”. Nel 1977 pubblica, per la Teti editore, un libro autobiografico dal titolo "Da galeotto a generale”. Fondò poi la casa editrice “Aurora”, che tentò di porre argine al dilagante revisionismo storico e politico del partito negli anni ’80.  Per molti anni è mebro del Comitato Centrale del Pci. Contrario alla svolta di Occhetto e al Pds, fu tra gli artefici fondamentali della nascita di Rifondazione Comunista. E' morto a Milano il 12 febbraio del 1991.

 

pallanimred.gif (323 byte) Leo Valiani

Nacque il 9 febbraio del 1909 a Fiume. Terra di frontiera, bollente incontro di popoli e nazionalità. Dalla sua città assistette all'inarrestabile ascesa del regime di Benito Mussolini. Fino al 1926, quando il varo delle leggi speciali, lo portò alla grande scelta: quella della clandestinità. Scelse di militare nel Partito comunista, l'unico che a lui, poco più che ragazzo, sembrava
incarnare con maggiore forza gli ideali egualitari e antiautoritari di cui la sua famiglia lo aveva imbevuto. Fu arrestato nel 1928, condannato e confinato a Ponza. Poi il Tribunale speciale gli comminò una pena ancora più grave. Scontata anche quella riparò in Francia e da lì passò in Spagna dove partecipò alla guerra nella doppia veste di giornalista e militante. Una
esperienza che a lungo segnò la sua esistenza. Tanto che, quando nei mesi passati, il commentatore Sergio Romano ha aperto la polemica sulla Repubblica spagnola come "un prolungamento delle purghe staliniane", Valiani è tornato con forza a difendere le ragioni di quella vicenda. "Il ruolo dell'Unione sovietica fu certo cospicuo, ma assai meno determinante di quanto qualcuno oggi creda. È noto che, alle elezioni del febbraio 1936, vinte in Spagna dal Fronte popolare, i comunisti raccolsero appena sedici deputati su circa trecento che formavano la maggioranza di sinistra: gli altri erano equamente divisi fra socialisti e democratici laici".
Ma la rottura con il partito comunista e l'Unione sovietica sarebbe arrivata, per Valiani, poco dopo. Nel 1939 quando, poco prima dello scoppio della guerra mondiale, i russi sottoscrissero con i tedeschi il patto Molotov-Ribbentrop. "Quel patto - scrisse Valiani tempo dopo in una lettera a Paolo Spriano - mise termine ai miei dubbi. Esso provava l'innocenza dei trotskisti e dei buchariniani che Stalin aveva accusato di essere agenti della Germania nazista".
Poi venne il rientro in Italia, l'invasione dei tedeschi dopo l'8 settembre del '43, la guerra partigiana. Valiani fu protagonista di primissimo piano sul fronte milanese, a fianco di Pertini, di Longo e di Sereni. Tra i vari polmoni delle Resistenza, scelse quello del Partito d'Azione, il più prolifico sotto il profilo culturale, ma anche il meno radicato nelle masse operaie.
Nell'Assemblea costituente eletta nel 1946, il piccolo gruppo "azionista" perse quasi tutte le sue battaglie: per il sistema uninominale e per la repubblica presidenziale, per il decentramento amministrativo e regionale, per lo stato laico. Quando gli esponenti di spicco del partito decisero poi di confluire nel Partito repubblicano di Ugo La Malfa o nei socialisti di Pietro Nenni, Valiani rimase a guardare. La sua militanza politica continuò soprattutto nella forma di una feconda attività giornalistica. Fino all'1 dicembre 1980, quando il suo compagno di mille battaglie Sandro Pertini (insieme, la mattina del 26 aprile 1945, a Milano, ordinarono l'insurrezione
generale), lo chiamò a Palazzo Madama conferendogli la carica di senatore a vita. E' morto a Milano il 17 settembre del 1999.

(a cura di Giancarlo Mola)

 

pallanimred.gif (323 byte) Lorenzo Vanelli

Nato a Bologna nel 1902, ferroviere. Comunista, viene licenziato dopo scioperi, manifestazioni e lunghi scontri con gli squadristi. Emigra nel 1923 in Francia, poi in Belgio; al rientro clandestino in Francia viene arrestato. Il 28 settembre del 1936 si arruola nel Battaglione Garibaldi e partecipa a numerosi combattimenti. Tenente del 1° battaglione, 2a compagnia della brigata Garibaldi, alla fine della guerra civile spagnola viene internato a St. Cyprien, Gurs, Vernet. Rientrato in Italia viene confinato a Ventotene. Dopo l'8 settembre del '43, partecipa attivamente alla lotta partigiana nel Cumer (Comando unico militare Emilia Romagna) e come commissario della 36a, 62a e 66a brigata Garibaldi. Nel dopoguerra, collabora con Arrigo Boldrini, diventa segretario generale dell'associazione "Fratellanza ex garibaldini di Spagna" e per 25 anni scheda con passione ogni notizia utile per ricostruire la storia dei garibaldini di Spagna. La Fratellanza fa il primo ordinamento delle carte e la prima raccolta sistematica di informazioni su tutti i caduti antifascisti della guerra di Spagna.

 

pallanimred.gif (323 byte) Fabrizio Vassalli

Dottore in scienze economiche e commerciali, di 35 anni. Nato a Roma il 18 ottobre 1908 da Arturo e da Bice Ferrari. Sposato con Amelia Vittucci. Nel '30 si arruolò volontario nell'esercito. Intanto si era iscritto alla facoltà di scienze economiche e commerciali. Ottenne la laurea nel '33, e nel '39 fu richiamato in servizio in Sardegna, dove rimase fino al '41 come ufficiale di artiglieria. Promosso capitano, fu inviato in Albania. Alla firma dell'armistizio era al comando di una batteria contraerea nell'isola di Saseno (Dalmazia). Scampato agli eccidi tedeschi raggiunse l’Italia del Sud con mezzi di fortuna e si mise messo a disposizione del Governo legittimo, che aveva sede a Brindisi. Si offrì volontario per attraversare le linee nemiche e portare nella capitale occupata un cifrario necessario per il collegamento fra il Comando alleato di Brindisi ed il Fronte militare clandestino romano. Per oltre cinque mesi collaborò con il colonnello Montezemolo nel servizio informazioni o in azioni di sabotaggio e comandò, con il nome di battaglia di Franco Valenti, la formazione del Fronte Clandestino che da lui prese il nome di "Gruppo Vassalli". La sua banda si occupava di raccogliere informazioni sul traffico di truppe e sui mezzi di trasporto tedeschi, inviandole poi a Montezemolo che a sua volta le faceva pervenire al comando alleato. Le riunioni del gruppo avvenivano spesso nella sua dimora, in via di Villa Massimo 13. Fu catturato dalle SS il 13 marzo del '44 in via del Babuino, insieme alla moglie Amelia, a Giordano Bruno Ferrari, suo cugino per parte materna, Salvatore Grasso, Pietro Bergamini, Corrado Vinci, la moglie di questi, Jolanda Gatti, e Bice Bertini, tutti membri del gruppo. Fu rinchiuso nel carcere di Regina Coeli dove subì più volte la tortura. Fu condannato a morte il 27 aprile dal Tribunale militare di guerra tedesco, al termine di un processo sommario. Il 24 maggio fu fucilato a Forte Bravetta, insieme a Ferrari, Grasso, Vinci e Bergamini. Prima che la scarica lo abbattesse, gridò "Viva l’Italia". Medaglia d'oro al valor militare "sul campo".

 

pallanimred.gif (323 byte) I fratelli Venegoni (Carlo, Mauro, Piero e Guido).

I quattro fratelli Venegoni, Carlo (1902), Mauro (1903), Piero (1908) e Guido (1919), nacquero a Legnano da genitori d’origine contadina che all’inizio del secolo avevano trovato lavoro nelle fabbriche tessili del Legnanese. La storia del movimento operaio della Valle Olona, negli anni del fascismo e della Resistenza, fu segnata dalla loro incessante attività. I quattro fratelli Venegoni, oltre che condividere la medesima passione politica, attraversarono comuni vicissitudini ed esperienze, tanto che le loro storie sono difficilmente separabili. Questa considerazione ha valore in modo particolare per la vita di Carlo e Mauro; attento e riflessivo il primo, temerario e inquieto il secondo, i loro caratteri si completavano l’uno con l’altro. Entrambi entrarono in fabbrica a soli dodici anni e assieme, con la partecipazione alla manifestazione del 1° maggio 1917, compirono il loro primo atto politico. Subito dopo s'impegnarono nella ricostruzione, a Legnano, del Circolo giovanile socialista, attività cui sommarono l’impegno sindacale svolto all’interno della Fiom. Nel settembre del 1920, durante l’occupazione delle fabbriche, Carlo diresse l’agitazione alla Franco Tosi dalla quale fu successivamente licenziato per rappresaglia. Dopo la scissione di Livorno entrambi aderirono alla frazione comunista e strinsero rapporti d’amicizia con Antonio Gramsci. La loro attività politica portò Mauro a pubblicare una serie di corrispondenze per "l’Unità", e Carlo ad entrare nella Direzione provinciale della gioventù comunista della quale diventò responsabile di zona per tutto l’Alto Milanese. Sempre Carlo, nel 1924, fu chiamato a far parte della delegazione italiana inviata a Mosca al V congresso dell’Internazionale; in tale circostanza appoggiò le richieste di Bordiga per una maggior partecipazione e autonomia dei singoli partiti comunisti all’interno dell’Internazionale e contribuì alla creazione di un Comitato d’intesa al fine di favorire il dibattito all’interno del Pci. Due anni dopo, in occasione del congresso di Lione, divenne membro del Comitato centrale del Partito e, dopo il varo da parte del regime delle leggi eccezionali, entrò in clandestinità con il compito di riorganizzare la Camera del lavoro di Torino e di ricostruire la Confederazione Generale del Lavoro. La sua attività ebbe però breve durata: arrestato nel 1927 fu condannato a dieci anni di reclusione. Nel frattempo il fratello Mauro aveva continuato a Legnano il suo impegno politico e sindacale che gli costò ripetute aggressioni squadriste e una condanna, nel 1927, a quindici mesi di reclusione. Scontata la pena emigrò in Francia e, trovato lavoro come operaio alla Citroen, ebbe modo di mettersi in luce nelle lotte del proletariato francese. All’arresto non sfuggì neppure il terzo Venegoni, Piero. Diviso fra l’impegno politico antifascista e il lavoro da operaio, fu incarcerato una prima volta nel 1927 e una seconda nel 1932. Mentre Carlo continuava a scontare la sua pena, non mancando di muovere una critica alla politica del fronte unico avviata dal Partito nel 1929, Mauro fu inviato dal Centro francese alla scuola leninista di Mosca e lì, entrato in contatto con la realtà del totalitarismo sovietico, maturò una posizione antistalinista. Tornato in Italia nel 1932 fu nuovamente arrestato e condannato ad altri cinque anni di reclusione. Nel 1940, con l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, i due fratelli furono nuovamente fermati per essere internati il primo a Colfiorito, in provincia di Perugia, il secondo alle isole Tremiti. Mentre Carlo, a causa delle difficili condizioni di salute fece ritorno a Legnano dove fu ricoverato in un sanatorio, Mauro conobbe un profondo isolamento intellettuale a causa delle sue posizioni antistaliniste per le quali fu espulso dal Partito. Lasciato il confino nell’agosto del 1943 si riunì presto ai fratelli trovando anche Guido, il più giovane dei fratelli, da poco iscrittosi al Partito comunista. Attorno a loro ruotò l’organizzazione comunista dell’intera zona che, pur mantenendo i contatti con la Federazione milanese, assunse uno spiccato carattere autonomo e classista. In tutte le fabbriche della zona furono organizzate le Commissioni interne e il gruppo, dal 1° novembre, cominciò a pubblicare anche un proprio giornale, "Il Lavoratore", che, dato il suo orientamento intransigentemente rivoluzionario, entrò in una dura polemica con il Partito criticato per la sua tattica d’unità nazionale che lo portava a cercare accordi con i partiti borghesi. La querelle ebbe termine solo nel luglio dell’anno successivo quando il gruppo dei fratelli Venegoni, in nome della lotta contro il nazifascismo, lasciò cadere ogni riserva per accettare completamente la linea del Partito. All’azione politica e sindacale si giustappose quella militare con la creazione di una struttura partigiana fra le più agguerrite dell’intero Milanese. La lotta partigiana divise però molto presto i quattro fratelli. Nell’agosto del 1944 Piero fu arrestato e deportato in Germania, nel campo di Jekderf, dal quale fece ritorno solo ai primi di maggio del 1945. Pochi giorni più tardi fu la volta di Carlo, arrestato il 28 agosto, e deportato a Bolzano. Riuscito a fuggire dal campo di concentramento nel mese d’ottobre, fece ritorno in Italia e fu incaricato dal Partito comunista di organizzare la lotta sappista nella zona centro di Genova. Peggior sorte toccò invece a Mauro che aveva lasciato la Valle Olona per organizzare le squadre partigiane nel Vimercatese. Il crescente ostracismo cui il Partito lo sottopose lo spinse a fare ritorno nell’Alto Milanese dove però fu arrestato, torturato e fucilato il 31 ottobre del 1944. A causa della brutalità di tale gesto, che suscitò l’indignazione dell’intera popolazione di Legnano, il fratello Guido, responsabile politico della 181^ brigata Garibaldi arrestato l’11 novembre e condannato alla fucilazione, fu risparmiato da morte sicura. Tornato in libertà continuò alla guida della sua brigata la lotta fino alla liberazione. A guerra conclusa i fratelli Venegoni proseguirono nel loro impegno politico e sindacale. Carlo è stato deputato dal 1948 al 1963 ed è morto a Milano il 21 febbraio del 1983. Piero è morto a Legnano nel 1965 e per vent’anni è stato il Presidente della locale sezione dell’Anpi. Guido è invece scomparso in provincia di Sondrio il 7 gennaio 1987 dopo aver guidato diverse Camere del lavoro (Legnano, Vicenza, Bergamo e Milano) ed essere stato, fra il 1972 e il 1980, deputato in Parlamento. Mauro ha ricevuto, a guerra conclusa, il riconoscimento della Medaglia d’Oro al Valor militare. (a cura di Massimiliano Tenconi)

www.fratellivenegoni.it

 

pallanimred.gif (323 byte) Franco Venturi

Nato a Roma nel 1914 da Ada Scaccioni e Lionello Venturi. La famiglia era originaria di Modena. L’ambiente familiare, colto e antifascista, non poteva non incidere sulla formazione del giovane Franco. Al liceo D’Azeglio entrò in contatto con i gruppi clandestini antifascisti e in particolare con quello di “Giustizia e Libertà”. Gli esponenti più importanti del gruppo erano Aldo Garosci, Mario Andreis e Luigi Scola. L’attività di questo nucleo giellista si svolse nelle scuole e all’Università, con la diffusione di volantini e l’affissione di manifestini. Tra il novembre 1931 e il gennaio del 1932 il gruppo cadde nella rete repressiva dell’Ovra e lo stesso Venturi fu fermato e poi rilasciato. Anche a seguito dell’arresto del figlio, oltre che per il suo rifiuto di prestare giuramento di fedeltà al fascismo (uno dei soli 13 su circa 1200 professori universitari), Lionello decise di emigrare in Francia con la famiglia, trasferendosi a Parigi nella primavera del 1932. Qui Franco, diciottenne, si iscrisse alla Facoltà di Arte della Sorbona e iniziò la sua attività antifascista. A casa del padre entrò in contatto con l’antifascismo italiano in esilio: Salvemini, Nitti, Garosci. All’Università con intellettuali radicali come David e Elie Halévy. Ma l’incontro più importante fu certamente quello con Carlo Rosselli, il fondatore del movimento “Giustizia e Libertà” a cui Franco aderì. Gli studi sull’Illuminismo proseguirono parallelamente alla sua attività politica, che divenne più intensa dopo l’uccisione di Rosselli del 9 giugno 1937. Il 14 maggio 1940 le truppe tedesche entravano a Parigi. L’emigrazione italiana antifascista si disperde. La famiglia di Venturi è già partita per gli Stati Uniti, Franco invece è rimasto a Parigi. Vuole assistere all’ingresso dei nazisti e solo dopo pensa di raggiungerla. Ma sfortunatamente non riesce ad arrivare in Portogallo, da cui doveva imbarcarsi : riconosciuto in Spagna viene denunciato da una spia. Arrestato viene gettato per circa un anno e mezzo in un carcere franchista. I reclusi mancavano di tutto, nada era il vocabolo con cui si indicava l’assenza drammatica del cibo, e Nada sarà uno dei nomi di copertura che Venturi adotterà nella clandestinità italiana. Ai primi di marzo del 1941 fu consegnato al console italiano a Barcellona, trasportato a Genova e di lì a Torino, dove fu interrogato il 17 marzo. Dopo altri due mesi di carcere a Torino fu infine assegnato al campo di concentramento di Monforte Irpino, dove giunse nei primi giorni di maggio. Con la famiglia lontana il suo punto di riferimento divenne Luigi Salvatorelli, che viveva a Torino. Salvatorelli, negli anni difficili dopo l’espulsione dalla carica di vicedirettore de “La Stampa” era stato aiutato, anche economicamente, da Lionello Venturi. E proprio a casa di Salvatorelli, nel 1942, Venturi venne a trascorrere una licenza dal confino, mettendosi in contatto col gruppo clandestino del Partito d’Azione piemontese, di cui facevano parte, fra gli altri, Giorgio Agosti, Alessandro e Carlo Galante Garrone, Livio Bianco, Giorgio Vaccarino. Dopo la caduta di Mussolini egli tornò a Torino, assumendo la direzione di tutta la stampa clandestina del Partito d’Azione. La prima iniziativa fu quella di dare l’avvio alla pubblicazione del supplemento regionale dell’ “Italia Libera”.   In collaborazione col centro di Milano del Partito d’Azione venne creato nel febbraio del 1944, un organo di stampa diretto agli operai, “Voci d’Officina”, che seguì attentamente gli sviluppi della Resistenza nelle fabbriche torinesi e le esperienze compiute dagli operai di altri paesi, nell’Europa centrale, in Francia, in Spagna.  “L’Italia Libera” e “Voci d’Officina” furono accompagnati perciò da una serie di opuscoli, “I quaderni dell’Italia Libera”, “Che intendevano rispondere alle domande fondamentali e far sentire una propria voce sui problemi della guerra, dello stato, del socialismo, della libertà, di quel domani insomma che la resistenza stava creando giorno per giorno”.  Ma nessuna delle questioni poste da Venturi in questi testi trovò all’interno del Partito d’Azione una rispondenza effettiva: l’intenso dibattito politico sino a tutto il 1945 documenta piuttosto l’isolamento di Venturi e del gruppo torinese, non solo nei confronti degli altri partiti presenti nel Cln, su questioni essenziali: dalla partecipazione al governo Bonomi alla pregiudiziale antimonarchica, dalla discussione sulla forma-partito al rapporto tra l’iniziativa militare e identità politica per legittimare un sistema democratico dopo la conclusione del conflitto. La militanza partigiana di Venturi non si limitò soltanto alla cura della stampa: per incarico della direzione politica e del comando di “Giustizia e Libertà” girò tutto il Piemonte a risolvere le situazioni militarmente e politicamente più delicate, come durante l’assedio repubblicano di Alba dell’ottobre 1944. La fine della guerra segnò anche per Venturi l’inizio del disimpegno politico e della travagliata ricerca di una carriera professionale. L’abbandono della politica non fu però immediato. Prima di accettare la proposta di Manlio Brosio di recarsi a Mosca come addetto culturale dell’Ambasciata italiana, dal 24 agosto 1945 al 28 aprile 1946 diresse il quotidiano torinese “GL”. Tornato dalla Russia nel 1950, dopo aver vinto il concorso, insegnò Storia Medioevale e Moderna a Cagliari, dal 1951 al 1954. Nel 1955 ebbe il passaggio all’Università di Genova, dove rimase sino al 1958, quando ottenne il trasferimento a Torino, alla cattedra di Storia Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia, dove restò sino al 1984. Nel 1989 è stato nominato professore emerito dell’Ateneo torinese. Venturi, dal 1959, dopo la scomparsa di Federico Chabod, è stato direttore responsabile della “Rivista storica italiana”, incarico che ha mantenuto sino al giorno della morte, a Torino, avvenuta il 14 dicembre 1994.

(di Leonardo Casalino)

 

pallanimred.gif (323 byte) Guglielmo Giuseppe Vittorio (comandante Vittò)

Nasce a Sanremo il 2 febbraio del 1916 nel pieno della Prima guerra mondiale. Emigra giovanissimo in Francia per lavoro e al momento di svolgere il servizio militare, avendo già una radicata coscienza antifascista, diserta e decide di arruolarsi nelle Brigate internazionali al fine di combattere l'insurrezione fascista avvenuta in Spagna. Animato dalla volontà di difendere la Repubblica democratica spagnola Vittò organizza l'espatrio di una trentina di antifascisti sanremesi.

Insieme ad altri sei compagni viene fermato a Breil e, nonostante il fatto che al governo della Francia ci fosse il Fronte popolare, viene fatto rimpatriare. Durante il rimpatrio salta giù dal treno e, una volta raggiunto Mentone, viene prima nascosto e poi, giunto a Nizza, viene messo in condizione di arrivare, nel febbraio del 1937, a Figueres dove si arruola nel Battaglione Garibaldi.

Vittò in Spagna partecipa a numerose battaglie tra le quali quella del Guadarrama, di Estremadura e quella, molto famosa, combattuta sul fiume Ebro. Una volta sconfitta la Repubblica spagnola, passa i Pirenei nel febbraio del 1939 nel tentativo di cercare rifugio in Francia. Catturato dalla polizia francese viene rinchiuso, riesce a fuggire, per poi essere nuovamente catturato.

Tornerà in Italia soltanto due anni dopo la firma dell'armistizio con la Francia. Arrestato come renitente alla leva in occasione della visita a Sanremo di Vittorio Emanuele III viene assegnato alla Divisione Siena sul fronte greco-albanese. Successivamente viene mandato sull'isola di Creta dove viene condannato per insubordinazione a 4 anni e 7 mesi.

Rientrato a Sanremo in licenza nell'agosto del 1943 non tornerà più a Creta e salirà in montagna all'indomani dell'8 settembre dove assumendo il nome di battaglia di Ivano organizzerà i primi resistenti. Da partigiano partecipa a numerosi scontri e sarà ferito da una pallottola che gli resterà in corpo per tutta la vita. Nel dicembre del 1944, forte di una grande esperienza militare maturata in seguito a otto anni di guerra, assume il comando della II Divisione d'assalto Garibaldi Felice Cascione, nella I zona Liguria. Tra i partigiani che hanno combattuto al suo fianco c'era anche Italo Calvino, il quale prese spunto da Vittò per un personaggio di uno dei suoi romanzi più famosi, il comandante Ferriera de "Il sentiero dei nidi di ragno".

La medaglia d'argento riconosciutagli dopo la Liberazione non lo ha fatto sedere sugli allori e, dal dopo guerra ai giorni nostri, ha sempre dato un importante contributo a quella che è stata la vita politica e sociale di tutto il ponente ligure.

(a cura di Romano Lupi, da "Liberazione", 25 aprile 2002)

 

 

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