La commemorazione di Turati
Il 27 giugno del 1924 Filippo Turati
pronunciò un commosso discorso in ricordo dell'amico assassinato durante la riunione
delle opposizioni parlamentari. Queste le parole dell'anziano leader socialista:
"Vorrei che a questa riunione non si desse il nome logoro, consunto -
specialmente qui dentro - di "commemorazione". Noi non "commemoriamo".
Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito religioso, che è il rito stesso della
Patria. Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare, perché il Suo nome è
evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore, al di qua e al di là
dell'Alpe e dei mari, non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato.
Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un accusatore; Egli è un
giudicatore; Egli è un vindice. Non il nostro vindice, o colleghi. Sarebbe troppo misera
e futile cosa. Egli è qui il vindice della terra nativa; il vindice della Nazione che fu
depressa e soppressa; il vindice di tutte le cose grandi, che Egli amò, che noi amammo,
per le quali vivemmo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e
sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere. E il dovere di vivere è anche, e
soprattutto, il dovere di morire quando l'ora lo comanda. Di morire per rivivere; di
morire perché tutto un popolo morto riviva; di morire perché il nostro sangue purifichi
le zolle, le sacre zolle della Patria, che alla Patria - se le fecondi sudore di servi -
procacciano messi avvelenate. E questo vivo, che è qui accanto a me, alla mia destra,
ritto nella sua svelta figura di giovane arciere, di cui voi vedete il sorriso, di cui voi
scorgete il cipiglio - perché non è un'allucinazione, perché li vedete, perché non vi
inganno - questo vivo, questo superstite, questo ormai immortale e invulnerabile, fatto
tale dai nemici nostri e d'Italia; questo vivo, nell'odierno rito, è trasfigurato. È Lui
ed è tutti. È uno ed è l'universale. È un individuo ed è una gente. Invano gli
avranno tagliato le membra, invano (come si narra) lo avranno assoggettato allo scempio
più atroce, invano il suo viso, dolce e severo, sarà stato sfigurato. Le membra si sono
ricomposte. Il miracolo di Galilea si è rinnovato. A che le vane ricerche, o farisei
d'ogni stirpe? A che gli idrovolanti sul lago, a che il perlustrare la macchia, il frugare
nei forni? L'avello ci ha reso la salma. Il morto si leva. E parla. E ridice le parole
sante, strozzategli nella gola, che furono da uno dei sicari tramandate alle genti, che
son Sue quand'anche non le avesse pronunciate, che son vere se anche non fossero realtà,
perché sono l'anima Sua; le parole che si incideranno nel bronzo sulla targa che mureremo
qui o sul monumento che rizzeremo sulla piazza a monito dei futuri: "Uccidete me, ma
l'idea che è in me non la ucciderete mai... La mia idea non muore... I miei bambini si
glorieranno del loro padre... I lavoratori benediranno il mio cadavere... Viva il
Socialismo!". È qui trasfigurato, o colleghi. E di ciò il mio egoismo si duole, il
mio piccolo egoismo di individuo, di fratello maggiore, di anziano, di padre; ché Egli
non è più soltanto il mio figliolo prediletto. L'uomo di parte, l'assertore nobile ed
alto di un'idea nobilissima, quegli che fu, per noi socialisti, tutto in una volta, il
filosofo, il finanziere, l'oratore, l'organizzatore, il commesso viaggiatore, l'animatore
sovra tutto, il pensiero insomma e l'azione congiunti - anche l'azione più umile che
altri sdegnava - l'unico, l'insostituibile; colui che, come già Leonida Bissolati pel
Cremonese, travolto dalla sublime follia dell'amore dei suoi contadini, del suo
proletariato polesano, per esso aveva rinunziato indifferente agli agi e alla
tranquillità della vita, alla seduzione degli studi cari in cui più eccelleva, e di sé
e della sua giovinezza poteva dire, col poeta della Versilia "e tutto ciò che facile
allor promettono gli anni,/ io 'l diedi per un impeto lacrimoso di affanni,/ per un
amplesso aereo in faccia all'avvenir" e per questa sua passione divorante, gelosa,
era l'esule in patria, il bandito dalla sua terra, il maledetto dai parassiti della sua
terra, il profugo eterno, sempre presente soltanto dove l'ora del periglio battesse la
diana; quest'uomo, questa figura così staccata e viva su lo sfondo verde e bigio di
questo singolare paesaggio politico, non sparisce, no, non scolora, ma si riaffaccia oggi
in troppo più ampia cornice. Quello che era cosa nostra, è divenuto anche la cosa
vostra, l'uomo di tutti, l'uomo della storia. E, ingrandito così, quasi è tolto a noi,
come alla famiglia dolorante, perché è divenuto un simbolo. Il simbolo di un oltraggio
che riassume ed eterna cento e cento mila altri oltraggi, tutti gli oltraggi fatti ad un
popolo; la figura che compendia tutti gli altri trucidati e percossi per lo stesso fine,
da Di Vagno a Piccinini, agli infiniti altri oscuri; il simbolo di una stirpe che si
riscuote; il simbolo di un passato che si redime, di un presente che si ridesta, di un
avvenire che si annunzia; della immortale democrazia, della indefettibile giustizia
sociale, che si rimettono in cammino; dell'Italia che, dopo una parentesi di spaventoso
Medio Evo, risale nella luce dell'età moderna, rientra tra le genti civili. Il simbolo e
la Nemesi: la Nemesi augusta, o signori, che è della storia. Cerchi il Magistrato le
colpe e le ferocie secondarie e minori; incalzi gli esecutori codardi e i mandanti
immediati; compito anche questo, altamente rispettabile e necessario. Frughi e tenti di
sventare la congiura degli intrighi, di snodare il groviglio dei silenzi comprati o
ricattati, le mendicate omertà, e il tagliaborse che si annida nell'assassino. Tutta
questa è la cronaca. La Nemesi vola più alto. Essa addita il grande mandato; il mandato
che erompe da più anni di violenze volute, di violenze inanellate alla frode, di consenso
cercato ed irriso; dal sarcasmo di una pacificazione, proclamata a parole e impedita e
violentata nei fatti; dall'incitamento perenne alla soppressione del pensiero libero e di
chiunque lo incarni, la quale è soppressione della vita, della Patria, della civiltà.
Addita il mandato che scese dall'istrionismo bifronte, che adesca insieme e minaccia, che
offre il ramo d'olivo ed affila nell'ombra i pugnali. Addita il mandato che salì dalle
viltà incommensurabili, dalle fughe abbiette, dagli obliqui fiancheggiamenti, dai silenzi
complici, dalla corruzione demagogica esercitata su anime semplici, talvolta generose ed
eroiche, persino di combattenti insigni od oscuri, i quali in buona fede hanno creduto che
un regime di minaccia e di prepotenza potesse essere ricostruttore, che la più immonda
curée potesse germogliare la rigenerazione del Paese, che gli errori e le colpe fugaci di
una massa illusa (e non cerchiamo illusa da chi; e non domandiamoci se veramente esistano
le colpe di un popolo) dovessero espiarsi, non col richiamo severo alla ragione, ma con la
catena dei delitti, con la tregenda delle sopraffazioni esercitate su quel popolo; col
dileggio di ogni umana dignità; con la tragedia del terrore, accoppiata alla coreografia
di vetusti trionfi mal redivivi. Lo credettero in buona fede; alcuni - sempre più radi -
lo credono ancora. Ma per poco, ormai. L'oscena leggenda è sfatata. Giacomo Matteotti
l'ha dispersa; l'ha dispersa per sempre. L'edificio dell'iniquità e dell'ipocrisia crolla
da ogni parte. Ah! sì. I masnadieri avevano bene scelto, avevano mirato giusto,
sopprimendo il nostro migliore. Mirando al suo cuore, sapevano di mirare al nostro cuore.
Ma ignoravano la sanzione inesorabile che fu sempre nelle vicende del mondo. Ignoravano -
fu confessato - che il delitto era soprattutto un errore. Che la vittima sarebbe stata il
giustiziere. Che la coscienza di un popolo, che ha millenni di storia e di gloria, si
assopisce, si comprime, ma non si spegne. Che i morti non pesano soltanto, ma
sopravvivono. Giacomo Matteotti vince morendo e ci accompagna e ci guida. Se
commemorazione è questa, se questo è un lugubre rito, non è l'epicedio del suo tumulo
ignorato, non è la riconsacrazione di una salma che non può riapparire e che più è
presente quanto più è assente e celata. Altro è oggi il funerale. Altri sono i morti.
L'edificio dell'iniquità e dell'ipocrisia crolla da ogni parte. Neppure la speculazione
ultima e più scaltra ed audace - quella sulla nostra speculazione - ha alito e ali per
reggersi. Lo sguardo vitreo della vittima illumina un panorama d'infamia che i più non
sospettavano ancora. Ove la sua ombra si leva, ivi si stende attorno la solennità del
deserto. Noi parliamo da quest'aula parlamentare, mentre non vi è più un Parlamento. I
soli eletti stanno sull'Aventino delle loro coscienze, donde nessun adescamento li rimove
sinché il sole della libertà non albeggi, l'imperio della legge non sia restituito e
cessi la rappresentanza del popolo di essere la beffa atroce a cui l'hanno ridotta. Le
futili contese tacciono fra essi, e una grande unità si costituisce fra essi tutti e fra
essi e l'anima della Nazione. Quella che fu la maggioranza, è ridotta a un reparto di
milizia, cui è intimato di obbedire in silenzio, perché ogni sua parola la
disgregherebbe. I due tronconi non si saldano. E i politici già si domandano se vi sia
più un Governo, se vi possa essere più un Governo. Se vi è per l'Italia; se vi è per
il resto del mondo. Ma un paese moderno non vive senza queste due cose che vennero meno:
un Parlamento rispettato e libero; un Governo legale e non sospettato. Signori,
dall'eccidio di Giacomo Matteotti la nuova storia d'Italia incomincia. A noi un solo
compito: esserne degni. Eppure, neppure questo ci consola. Perché, se un eccidio, e il
più brutale degli eccidii, era necessario, una cosa non era necessaria: che colpisse Lui.
E, se parve, come ho detto, ch'egli fosse il più designato perché era il più forte e il
più degno, dice l'effetto che non sempre è profetessa la malizia dei masnadieri. Lui
giovane, Lui forte, Lui armato di tutte le armi civili, Lui temerario nel coraggio, Lui
che si fece volontario della morte - questo fanciullo dagli occhi pieni di bontà, che
tutti ci rimbrottava ed a tutti indulgeva, perché tutti sapeva comprendere e sapeva la
inanità delle prediche contro la umana fralezza -; Lui, figlio di una madre antica, che
geme; Lui, sposo di una sposa giovane, che paventa di smarrire il senno; Lui, padre di tre
teneri bimbi, virgulti inconsci che un giorno metteranno le spine, verso i quali Egli
aveva tenerezze di madre, come, nell'intimità della casa felice, pareva un figlio alla
sposa. No! inferocire su questo idillio non era necessario! Altrove poteva la sorte cieca
e maligna eleggere il suo strumento di pace e di giustizia. E questa vecchia carcassa di
chi oggi vi parla, che la vita ha tutta ormai spesa e che il proprio inverno avrebbe
barattato con gioia per salvarvi la primavera superba del nostro eroe, è oggi dilaniata
dal rammarico, direi dal rimorso, di non averlo vigilato abbastanza, di non essersi
imposto, col peso della anzianità a cui forse Egli avrebbe obbedito, alle sue gagliarde
imprudenze... Lasciate, o colleghi, ch'io cessi queste parole, così ìmpari, e che il
singhiozzo minaccia di rompere; ch'io dimentichi dove siamo e donde parliamo; ch'io mi
inginocchi idealmente accanto alla salma del figliuolo prediletto, e gli carezzi la fronte
e gli chieda perdono della mia, della nostra indegnità e gli dica tutta la gratitudine
nostra, la gratitudine di tutto un popolo. E gli giuri, a nome di voi tutti, che la Sua
ombra, presto, sarà placata".
Voci di ferma opposizione e di sdegno si levarono in
tutti gli ambienti, investendo l'intera opinione pubblica. Importante una presa di
posizione di Francesco Luigi Ferrari, oppositore cattolico, che apparve
su Il Domani d'Italia il 29 giugno 1924:
"Riprendiamo la penna. In queste settimane di passione non abbiamo
voluto, non abbiamo dovuto scrivere. I fatti incalzavano in un vortice di orrore,
imponevano l'attento esame e la vigile attesa del loro sviluppo tragico. Oggi siamo qui
per una sintesi del nostro pensiero, che, raccolta in questo foglio, colla rievocazione
più viva degli ultimi avvenimenti, va pure premessa in un riassunto chiaro e preciso. 1)
Ciò che agitò e turbò, fin nelle più profonde sue fibre, l'anima italiana e la
coscienza mondiale, coll'assassinio fascista di Giacomo Matteotti, potrà essere da altri
staccato e valutato come il più efferato dei delitti politici; per noi, in esso culmina
l'inevitabile e l'inesorabile realtà di tutto il regime fascista, quale da vari anni
abbiamo previsto e giudicato. Pochi come noi possono avere la coscienza di affermare che
nulla mai del proprio spirito e della propria azione hanno concesso al fascismo fin dal
suo primo apparire nel torbido sommovimento della vita italiana. Non per settarietà, né
per reazione; ma per la convinzione chiara, sicura che il fascismo, idea e metodo, uomini
ed opere, nessun bene avrebbe prodotto e gradualmente o rapidamente avrebbe invece portato
se stesso ad ogni forma peggiore di degenerazione e di abominio. Rifiutammo la promessa
"normalizzazione", negammo l'ostentata "moralizzazione". La catena che
condusse al misfatto di Roma, di volta in volta, anello per anello, delitto per delitto,
derivammo dallo studio obiettivo e preciso di quello che fa il fascismo, che è, che
sarà, se il sibilo possente dell'indignazione nazionale ed universale non Io investirà e
non lo travolgerà, per sempre. 2) Il crimine consumato sul lago di Vico ha realizzata e
stretta l'unione di tutte le forze libere e democratiche del paese. Ciò che noi
auspicavamo come una necessità e tendevamo a dimostrare come un dovere, i fatti più
forti di ogni ragionamento hanno compiuto. Non è un'alleanza, nel termine usuale della
collaborazione politica fra vari partiti. Chi giudica con questo criterio, come fossimo
dinanzi ad una situazione normale, non ne capisce nulla. Difetta soprattutto di
sentimento. L'unione, prima che nei partiti e nei gruppi parlamentari, è nel popolo.
Bianchi o rossi, i lavoratori, i martiri del fascismo, sentono l'uguaglianza e la
solidarietà del comune sacrificio. Nel medio ceto, nelle classi intellettuali, la rivolta
morale promana anche dalla constatazione del danno che loro minaccia, della vergogna d'un
regime che non risparmiò nessuno spirito onesto ed indipendente ed incalzò nella
distruzione di quei valori morali che, con cinica declamazione e con velleità
anacronistica, diceva di promuovere e rafforzare. Questa unione ha un segno ed un pegno
tangibile nella "opposizione" parlamentare costituitasi fra i gruppi di
minoranza usciti dalle elezioni della vergogna e della frode. Quest'unione che ha un
valore ben superiore allo scarso numero di uomini che vi partecipano, che non è solo un
fatto politico, ma è un simbolo di fede e di riscossa nazionale, deve restare e deve
resistere: resistere e lottare finché il popolo italiano non avrà riconquistato la sua
libertà ed alla nazione non sarà ritornato un regime conforme alla sua stessa
costituzione statutaria. Chi cede per qualsiasi vera o supposta seduzione è vile. Chi
infrange questa unità tradisce. 3) Il corso immediato degli eventi e il punto risolutivo
di questa crisi di Stato sono soggetto di studio appassionato e sincero in altra parte del
giornale. Si è pubblicato il "cartello" dei partiti e degli uomini schierati e
decisi per la battaglia suprema della liberazione dal fascismo. Chi, come un giornale di
Roma, la cui compostezza abituale non fu compagna in questa circostanza alla perspicacia
saggia dell'indagine, avanza il dubbio insidiatore: "E dopo? Travolto il regime
fascista e tolto il potere all'uomo che lo detiene, non si piomberà nel buio più
pericoloso?": chi insinua questa incertezza, mentisce alla coscienza della
grandissima maggioranza del paese e ne rinnega la tradizione, la educazione, la
preparazione civile. Il dopo fascismo è il cammino ripreso nella libertà. Nella libertà
cesserà il terrore, si soffocherà la guerra civile che da tre anni ne tormenta tutti,
riacquisterà la patria prestigio e libertà. Chiunque teme e chiede: "E dopo?"
lo ripeterà sempre, per incapacità o per calcolo; soprattutto per insensibilità
spirituale. Non dice dunque nulla l'assassinio di Matteotti, in cui si riflette il
martirio di migliaia di sofferenti che nulla implorano ancora se non la fine di questa
obbrobriosa tirannide?... 4) Qualunque sorpresa ci riserbi il domani vicino o lontano, noi
rimaniamo fermi e decisi alla battaglia senza tregua e senza fine. Mussolini simulò
propositi di conciliazione e di legalità. Ne è incapace, anche se sincero come non fu
mai. Ed è umiliante per un popolo onesto e degno di raccattare una offerta svergognata.
Il popolo italiano non è barattiere. L'Associazione per il controllo democratico, ente
apolitico dove confluiscono intelletti sereni e pensosi d'ogni parte politica ed anime
accese dall'idealità democratica, ieri, a Milano, esprimeva, in un telegramma alla
Opposizione parlamentare, il sentimento ed il voto che noi condividiamo. "Resistere
vuol dire vincere. Restar fermi e decisi e difendere la vittima simbolica di Matteotti,
vuol dire sotterrare il fascismo, che ne è artefice e responsabile". Qualunque sia
la sorte che ci attende, noi resisteremo. Ad ogni prova".
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