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I teorici del movimento No Global

"Qualcuno
annunciò che opporsi alla globalizzazione era come opporsi alla legge di gravità. E
quindi io dico: abbasso la legge di gravità!
Subcomandante Marcos
Naomi Klein
No logo
Economia globale e nuova contestazione
Baldini & Castoldi, Milano, 2001, pagg 454, 32.000 lire
E' raro, almeno in Italia, che il rappresentante della pubblica accusa richiami
l'attenzione della giuria su circostanze che potrebbero discolpare un imputato, o quanto
meno far apparire meno gravi i suoi reati. Deprecabile altrove, la tendenziosità viene
considerata del tutto legittima in un dibattito processuale, che non obbliga nessuna parte
in causa a farsi interprete delle ragioni e degli interessi altrui. Questo, con
l'attenuante di una esplicita scelta di campo, è l'atteggiamento di Noemi Klein nei
confronti delle transnazionali che sfruttano le opportunità della globalizzazione per
diffondere i propri etichettati prodotti e moltiplicare i propri profitti.
L'autrice di No logo descrive questo fenomeno assumendo il punto di vista di chi ne
vede soltanto le conseguenze negative (lo sfruttamento del lavoro a basso costo,
l'omologazione dei costumi, la creazione di consumi futili, la sostituzione del valore
intrinseco dei beni con quello fittizio dei marchi, l'abdicazione della politica nelle
mani del potere economico, ecc) e ne mette in ombra, minimizzandola, la capacità di
produrre nel Terzo o Quarto mondo, sia pure con gravi squilibri, sviluppo e ricchezza in
misura fino a pochi anni fa impensabile.
E' vero che il libro non si propone un'analisi oggettiva dei pro e dei contro, bensì il
racconto di come, dove e perché è nato, ed è diventato trascinante, il movimento
"no global". Ma lo scarso rilievo dato alle voci di contrasto e la
sottovalutazione di alcuni indubitabili effetti positivi (per esempio l'aumento del
prodotto lordo nei paesi dove le transnazionali hanno decentrato la propria produzione,
l'accelerazione dovunque dei processi di modernizzazione industriale, la promozione della
competitività, una maggiore razionalizzazione dei flussi migratori) attenua la
persuasività della denuncia.
Che tuttavia colpisce nel segno perché è fondata su un'inchiesta seria, frutto di
indagini prolungate. La Klein ha visitato i luoghi e intervistato i protagonisti,
soprattutto le vittime e i beneficiari passivi, della colonizzazione economica e culturale
con cui le grandi marche (Nike, Microsoft, MacDonald's, Motorola, CocaCola, ecc) sono
riuscite a creare un mercato planetario nel quale lo scambio dei beni è sempre più
estraneo a quella che per millenni era stata la sua funzione essenziale: la soddisfazione
di bisogni.
Questi gruppi, finanziariamente pesanti e industrialmente leggerissimi (le loro aziende
sono decentrate, flessibili, senza radicamenti territoriali e merceologici, con il minimo
possibile di sindacalizzazione e molto spesso totalmente appaltate a terzi, sono riusciti
a imporre, questa è la tesi dell'autrice, più che scarpe sportive, software, hamburger,
telefonini o bevande frizzanti, uno stile di vita, una concezione della realtà, una
"domanda indotta", che non corrispondono minimamente alle esigenze essenziali di
chi li esprime. Però gli fanno apparire indispensabile obbedire, appunto, alle
sollecitazioni pubblicitarie e al marketing di venditori che hanno l'unico obiettivo di
allargare la propria quota di mercato.
La descrizione di queste attività manipolatorie, legittime ma infide, è tanto accurata
quanto sconcertante. Altrettanto efficace è la ricostruzione degli eventi che hanno fatto
prendere coscienza di sé al movimento che oggi viene identificato nel "popolo di
Seattle". Il libro è stato scritto l'anno scorso e pubblicato in Italia, per
iniziativa e fiuto della Baldini & Castoldi (è diventato anche da noi un
best-seller), prima dei fatti di Genova, che probabilmente avrebbero indotto la Klein a
registrare con più preoccupata attenzione i problemi attinenti alla coesistenza, nel
movimento "no global", di richieste giuste e accuse irragionevoli, denunce
legittime e incitazioni alla violenza, vetero antiamericanismi e nuove contestazioni. E'
un impasto, di cui fino al luglio scorso era stata sottovalutata la potenzialità
esplosiva, con il quale dobbiamo imparare a fare i conti. Non è soltanto una questione di
griffe. Dietro le tute bianche e nere c'è una nuova realtà che impone analisi e
decisioni tempestive. Politiche.
(Ignazio Contu)
Toni Negri e Michael Hardt
Impero
Harvard University
Press, 2001
E'
proprio vero che nessuno è profeta in patria, come dicevano i latini. Pressoché ignorato
in Italia, Impero , l'ultimo libro di Toni Negri (scritto in collaborazione con lo
studioso americano Michael Hardt e subito pubblicato dalla Harvard University Press e
dalla francese Exil), ottiene una menzione di prestigio dal settimanale Time . Che nella
annuale classifica dei sette "innovatori" cita appunto, per il 2001, il
"cattivo maestro", leader dell'autonomia operaia anni Settanta. Negri e Hardt
sono stati scelti (con Jessica Stern della Kennedy School di Harvard, con il fisico
inglese Julian Barbour, con Dave Hickey dell'Università del Nevada, con il teologo John
Milbank dell'Università della Virginia e con la filosofa Martha Nussbaum dell'Università
di Chicago) come autori di quello che viene definito "il lavoro sociologico più
discusso degli ultimi anni". Un ponderoso trattato (oltre 500 pagine nell'edizione
inglese) divenuto in pochi mesi bestseller mondiale, manifesto dei nuovi ribelli
anglosassoni e francesi, oggetto di dibattito filosofico-politico. In Impero , secondo la
giuria del Time, gli autori "hanno sostenuto che il più grande agente di cambiamento
nel mondo di oggi non va cercato nella tecnologia o nella globalizzazione ma in una
mobilità senza precedenti, nel potere di alzarsi e partire". Ma che cos'è l'Impero
, secondo Negri? L' Impero è il risultato di un processo storico conseguente al
progressivo frantumarsi degli Stati nazione ("protagonisti nefasti" del XX
secolo), un'entità "senza centro né periferia" che presiede alla moneta e al
lavoro. Un ordine mondiale che, con un suggestivo richiamo all'Impero romano, si avvale
per il momento di tre Rome: Washington (la bomba), New York (la moneta), Los Angeles (lo
spettacolo).
Questa
nuova situazione, tuttora in fieri , non nasce, secondo Negri, come imposizione dei
governanti ma come risultato naturale della reazione alle lotte operaie, femministe e
civili dei decenni scorsi. Dunque, alla globalizzazione economica seguirà una simmetrica
globalizzazione dell'antagonismo politico che, come il Cristianesimo ha abbattuto l'Impero
romano, si tradurrà in un movimento universale di lotta "senza più mediazioni
ideologiche", perché "il conflitto tra le forze sociali, tra i desideri e le
forme di vita è ormai radicale". Così Negri interpreta i movimenti antiglobal.
Insomma,
Impero è tutt'altro che un trattato contro la globalizzazione. La quale, secondo Negri,
avrebbe il pregio di "liberarci dal capitale", lasciando alla moltitudine (il
concetto di "popolo" è bandito come figlio dell'"idea melmosa" di
patria) una rinnovata occasione di iniziativa e di movimento planetario. Dopo essere stato
tradotto anche in Brasile, in Turchia, in Giappone e in Cina, il libro uscirà in gennaio
da Rizzoli. Chissà se, alla luce dell'11 settembre, Negri avrà la tentazione di
aggiungere, alle numerose osservazioni sull'Impero "aristocratico" delle
multinazionali, un capitolo sul nuovo Impero militare.
(Paolo
Di Stefano, Corriere della Sera, 12 dicembre 2001)
Lorenzo Jovanotti
Vista da qui la
globalizzazione sembrerebbe una cosa sacrosanta e nessuno si spiega come mai tutto questo
rumore e queste proteste verso una cosa che, vista da qui, non farebbe altro che aiutare i
paesi poveri a diventare meno poveri. In pochi riescono ad essere d'accordo con questi
ragazzi che dai paesi dell'Occidente partono per andare a fare casino a Praga, con i loro
comodi treni e le loro strampalate idee che raccolgono il consenso di gente che fai fatica
a mettere insieme, apparentemente: estrema sinistra, preti, fricchettoni, ecologisti,
anarchici, boy-scouts, fans di Bob Marley e di John Lennon, frequentatori di rave, centri
sociali, i fans di San Francesco e quelli di Che Guevara, studenti di economia e di
sistemi informatici, hackers telematici e coltivatori di cibi biologici. Eppure quei
manifestanti così diversi tra loro hanno ragione, la loro ragione spesso è difesa
talmente male che ti verrebbe voglia di dargli torto, ma hanno ragione. La globalizzazione
è la faccia moderna della colonizzazione, la colonizzazione è quel capitolo della storia
che si pensava chiuso con tutte le sue terribili conseguenze davanti agli occhi di tutti.
La globalizzazione è la forma moderna di sfruttamento delluomo sulluomo,
seppure la parola abbia un aspetto così perbene,detta da qui.La parola globalizzazione ha
questo suono neutro che la rende più simile alle parole come soluzione,
inondazione, eruzione, stagione,
disinfestazione, apparizione ma invece nella sostanza noi siamo i
globalizzatori e i paesi del sud del mondo sono i globalizzati, così come cerano i
colonizzatori ed i colonizzati. La questione è che la globalizzazione è uno sporco
affare che rischia di renderci tutti complici di delitti che si potevano evitare. La
globalizzazione è quella cosa per cui io domani comprerò una automobile costruita con
pezzi assemblati in una fabbrica e provenienti da altre cento fabbriche sparse per il
globo. La pelle dei sedili sarà conciata in una fabbrica indiana che non dovrà
rispettare le regole ecologiche che ci sono in Europa e che quindi in cambio di un prezzo
più basso avvelenerà il suo territorio e di conseguenza i suoi abitanti che avranno come
unico vantaggio la possibilità di andarsi a comprare un hamburger da McDonalds dopo
la loro quattordici ore di lavoro, dai dodici anni in su. Alcune parti meccaniche saranno
costruite in una fabbrica dellEst che costruisce anche mine anti-uomo, le gomme
saranno modellate con derivati del petrolio estratto nel golfo di Guinea inquinando intere
regioni nelle quali da secoli vivono popolazioni che non conoscono il traffico delle
nostre tangenziali e ciò avverrà nel silenzio sottobanco retribuito degli amministratori
e dei governatori locali. Questo dellautomobile è solo un esempio. Il problema è
che noi in un mondo dove la deregulation globale e i liberismi planetari
vincono, mangeremo merendine dolcificate con zucchero coltivato da gente che non riesce a
nutrirsi come si deve, aromatizzate con cacao raccolto da bimbi che non andranno mai a
scuola, impastate con farina di grano geneticamente modificato, anche se nella nostra
bella Europa quel tipo di coltivazione sarà bandito da qualche referendum, dormiremo con
la guance su cuscini di lattice raccolto da campesinos brasiliani che la sera appoggeranno
la loro testa sulle pietre. Proviamo a guardarci intorno, ad aprire la dispensa, a girare
per i nostri negozi, la globalizzazione da noi si presenta nel suo aspetto più
presentabile, ma dietro ogni etichetta, ogni marchio di multinazionale ormai familiare
come i nomi dei nostri parenti più stretti ci possono essere storie di diritti negati, di
commistioni malavitose. La globalizzazione a noi non ci tocca perché siamo quelli che
globalizzano, non i globalizzati. Resta solo una cosa da decidere, ovvero se la sofferenza
dei lavoratori e la morte dei bambini a cinquemila chilometri di distanza è più
accettabile di quando avviene intorno a noi. Io credo di no, assolutamente no.
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