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Campagna di Russia

La storia del reduce Giovanni Riba

di Giovanna Giannini

Giovanni Riba nacque a Cuneo nel 1919. Fino allo scoppio della guerra era un contadino. Fu reclutato nel 1939 con la diciannovesima compagnia del Battaglione Dronero. Il 6 giugno 1940 nell’alta Valle Maira cominciò la sua terribile avventura. Dopo alcuni giorni si ammalò gravemente e dovette rimanere quasi un anno in convalescenza. Una volta guarito nell’aprile del 1941 fu inviato in congedo come tutti quei soldati che avevano avuto almeno 180 giorni di convalescenza. Ma il 1° aprile del 1942 fu richiamato nuovamente dal suo battaglione. Da subito cominciarono a circolare delle voci di un possibile trasferimento in Russia, voci che presto divennero realtà. Il 31 luglio 1942 alle sei di mattina con la sua compagnia lasciò Dronero. La partenza si svolse in un clima di festa, con la gente che per strada festeggiava il loro passaggio offrendo del vino. Come lo stesso Riba ricorda in treno quell’euforia svanì presto. Dopo alcuni giorni di viaggio arrivarono alla stazione di Stalino, dove sostarono un’intera giornata. Seguirono 33 giorni di marcia per raggiungere il < bosco dei topi> e finalmente 3 giorni di riposo, trascorsi però sotto la costante minaccia degli aerei russi che volavano a bassa quota. Ripartirono in camion e dopo 24 ore di viaggio proseguirono a piedi in una marcia notturna. Il 26 settembre 1942 giunsero sul Don. Riba era il telefonista del battaglione e il villaggio nel quale alloggiò era disabitato e in buona parte distrutto. Gran parte del tempo lo trascorse in un bunker sotto terra. Il 16 gennaio 1943 abbandonò con i suoi compagni quel villaggio e ricominciò a marciare, destinazione Rossosc. Qui il paesaggio era ancora più desolante. C’era un continuo movimento di cannoni e civili russi che scappavano su delle slitte. Era difficile per loro soldati capire quello che stava accadendo. Nel frattempo man mano che si procedeva nella marcia ci furono i primi morti per congelamento. Dopo 3 giorni di faticoso cammino arrivarono a Popovka dove sostarono dalle dieci di mattina fino a sera tardi e ne approfittarono per abbandonare altri soldati morti congelati. Era un’operazione penosa ma necessaria perché, come ricorda lo stesso Riba, sarebbe stato altrimenti difficile proseguire trascinando dei cadaveri. Nella notte ripresero a marciare e dovettero oltrepassare anche un fiume ghiacciato. I proiettili vi avevano aperto delle buche dove alcuni soldati caddero e morirono. Dopo alcuni giorni di stasi vennero informati che i russi erano nelle vicinanze e che presto avrebbero attaccato. Stesi sulla neve videro il nemico avanzare e cominciarono a sparare. Riba si trovava con il tenente Aldo Paschiero vicino ad un ponte. A 50 m da lui c’era un soldato ferito che gridava da ore sempre la stessa frase : " Dite ai miei che non torno a casa". Nel pieno della notte arrivò l’ordine di ritirata. Il mattino seguente le autoblinde russe bloccarono nuovamente la loro colonna. Ci fu un breve scontro ma alla fine poterono riprendere il cammino, ma nella notte subirono un altro attacco. Tentarono per tre volte di rifugiarsi in un villaggio, ma i russi sparavano anche dalle case. Finalmente all’alba riuscirono a raggiungere un altro paese vicino. Riba entrò in un’isba e si stese vicino ad un forno per avere un po’ di calore. Alle otto di mattina assieme ai suoi compagni venne catturato. Fu incolonnato e messo in marcia sotto la neve. Camminò fino alle due del mattino finché non raggiunsero il campo di concentramento di Valujki dove c’erano 12.000 prigionieri. Fu perquisito e rinchiuso in una baracca di legno. Data la scarsità di cibo mangiava muli morti e scambiava con i soldati russi quel poco che aveva in cambio di pane. Dopo 27 giorni di prigionia di quei 12.000 restarono solo 4.000 prigionieri. Morivano dai 700 agli 800 soldati al giorno. Oltre al freddo molto dipendeva dalla scarsa alimentazione. IL cibo in quei 27 giorni venne distribuito 5 volte e solo a chi era sano, ma la popolazione locale li aiutava fornendo di nascosto barbabietole e patate. Quei 4.000 superstiti vennero poi trasferiti altrove. Condotti in stazione, prima di essere rinchiusi in un vagone, rimasero un’intera giornata fermi sotto la neve. Furono sistemati 70 prigionieri in ogni vagone. La razione giornaliera di cibo consisteva in una pagnotta di 4 kg da dividere tra otto persone. Rimasero chiusi in quei vagoni 7 giorni e siccome l’acqua spesso non veniva distribuita, leccavano le parti in ferro del treno. Si approfittava delle soste per vendere, attraverso i finestrini, i propri effetti personali per avere in cambio qualcosa da mangiare. Trascorsa una settimana vennero aperti i vagoni ma solo per gettare i morti. Riba ne approfittò per scendere di nascosto dal treno e riempire alcuni barattoli di acqua, ma mentre stava risalendo un soldato russo lo colpì alla testa e gli fece disperdere l’acqua. Il viaggio riprese e il nuovo rancio consisteva in 100 g. di pane secco, 20g di burro e un pezzo di aringa da dividere tra 4 persone. Dopo 4 giorni di viaggio arrivarono a Tambov. Qui furono messi di fronte alla scelta se proseguire il viaggio in treno o fermarsi. Riba e altri 300 soldati italiani scelsero di non proseguire il viaggio. Dopo 4 km di marcia giunse al nuovo campo di concentramento dove fece amicizia con una cuoca italiana di Cuneo. Questa amicizia gli permise di avere sempre qualcosa da mangiare e soprattutto di avere informazioni dall’Italia. A Tambov erano in 32.000 e ogni nazione aveva la sua baracca. Nel campo il pericolo numero uno erano le malattie, infatti a causa del tifo morivano circa 700 persone al giorno. I morti venivano trascinati nudi su slitte, condotti nei boschi e gettati in enormi buche scavate dagli stessi prigionieri nella terra dura e gelata. Giovanni Riba era tra quei prigionieri addetti al seppellimento dei morti e raccontò che spesso dovevano accendere dei fuochi per scaldare la terra e scavare meglio. Solo il giorno di Pasqua del 1943 ne sotterrò 170. I cadaveri venivano mischiati tra loro nelle fosse perdendo così ogni nazionalità, ecco perché ancora oggi non si può sapere con certezza chi è morto in Russia. Dopo l’8 settembre i russi promisero agli italiani che presto sarebbero tornati a casa, invece rimasero in quel campo altri due mesi. Il viaggio di ritorno in Italia non fu facile. Nel suo treno c’erano 1800 italiani e giunti in Mordovia vennero nuovamente smistati in vari campi. Riba fu rinchiuso nel campo 56/3. Il suo lavoro consisteva questa volta nell’abbattere degli alberi e nel fare delle scarpe con la corteccia di alcune piante. Gli alloggi erano dei baracconi lunghi 25m e alti 2 piani. Ogni baracca conteneva dai 1300 ai 1500 prigionieri. Le giornate trascorrevano al lavoro nei boschi, e spesso gli alberi da trasportare erano talmente grandi da richiedere per il trasporto anche 90 uomini. Ogni sera sul piazzale del campo veniva effettuato il controllo dei prigionieri che durava in media 15 minuti. Molte volte l’appello avveniva con temperature che scendevano anche sotto i 40°. Il 7 agosto 1945 cominciarono a partire i primi soldati italiani e Giovanni Riba fu tra questi. Partirono in 300 e dopo circa 6 km di marcia giunsero alla stazione. Ogni 25 prigionieri c’era una sentinella. Dopo un’intera notte passata sotto la pioggia ad aspettare l’apertura dei vagoni , il viaggio cominciò. Arrivati in Romania, a Bucarest, i prigionieri vennero condotti in un campo internazionale, dove solo per bere bisognava fare una coda di 200 metri. Dopo due settimane di permanenza, prima di ripartire, vennero fatti sfilare nudi dalla cintola in su con le braccia alzate. I russi esaminavano attentamente le ascelle di ognuno di loro per vedere se si nascondessero delle SS. I soldati tedeschi avevano infatti un marchio tatuato proprio in quel punto. Qualora venivano trovati venivano picchiati e rispediti in Russia. Alla stazione di Bucarest i prigionieri godettero di alcune ore di libertà. Girovagando per la città Riba incontrò una famiglia italiana che gli dette ospitalità e al ritorno in treno riuscì a barattare due sue camicie con una battaglia di grappa. La fermata successiva fu in Ungheria. Qui la sosta durò ben 5 giorni. Siccome l’attesa si era fatta insostenibile, Giovanni Riba si allontanò dalla stazione. Giunse in un villaggio dove venne ospitato da una donna che gli preparò un abbondante pranzo. Al ritorno in stazione però il suo treno era già partito. Recatosi dal capostazione per avere delle spiegazioni, scoprì che la sua tradotta avrebbe raggiunto un binario distante da lì 3 km. Ma giunto al binario si accorse che il treno era già passato. Dopo un’intera giornata riuscì finalmente a salire al volo su di un treno. Arrivato alla stazione di Budapest riconobbe la sua originaria tradotta e riuscì a salirvi sopra proprio mentre si stava avviando. Era ormai convinto che presto sarebbe ritornato a casa, invece dovettero passare ancora altri 100 giorni. A Berlino infatti successe un fatto inspiegabile: il suo treno cambiò binario e ritornò indietro a Francoforte. Riba vi restò 30 giorni chiuso in un campo di smistamento diretto dai russi prima di ripartire . A Innsbruck ci fu un’altra sosta dove venne denudato e spruzzato con un liquido disinfettante. Il 14 novembre 1945 arrivò a Bolzano e poi a Pescantina dove ricevette 2400 lire ed abiti nuovi. Da Torino giunse a Cuneo dove venne accolto in un convento di suore. Dopo alcuni giorni di permanenza finalmente tornò a casa sua dove venne accolto da una terribile notizia. Suo fratello Francesco, comandante partigiano delle formazioni GL della Valle Maira, era stato ucciso dalle Brigate nere. Molta gente volle sapere della sua esperienza in Russia, ma preferì tacere. Lui stesso in un’intervista dirà di aver vissuto un’avventura talmente inverosimile al punto da non sembrare vera neanche a lui. Lo Stato gli riconoscerà una pensione di guerra di quinta categoria.

 

 


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