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Campagna di Russia
La guerra degli ignoranti
La campagna di Russia raccontata da Nuto Revelli
Il fronte russo è stata la mia prima esperienza di guerra. Ero uscito da
poco dall'Accademia militare di Modena, e i miei insegnanti per la maggior parte erano
ufficiali anziani con l'esperienza della guerra 1915-18 sulle spalle. E il nostro esercito
alla vigilia della seconda guerra mondiale era in gran parte l'esercito della prima, come
preparazione, o meglio impreparazione militare: era fuori dal tempo, superato, strutturato
per una guerra più di posizione che di movimento, concepito quando non si parlava ancora
di colonne corazzate, di aerei come elementi dominanti nella strategia. Quando sono uscito
dall'Accademia avevo tanta teoria in testa, ma superata.
Non voglio sminuire i miei insegnanti di allora, perché da loro qualcosa ho appreso,
però sul piano pratico erano cose vecchie.
Un solo esempio: in due anni di Accademia, io e tutti i miei compagni non abbiamo visto un
solo carro armato vero ma esclusivamente carri armati sulla carta, disegnati in sezione
verticale e traversale. Si può dire: tu volevi fare l'ufficiale negli alpini, per cui non
ti serviva vederne uno. Ma nel mio corso c'erano gli alpini e i bersaglieri ma anche i
carristi, quelli che finita l'Accademia sarebbero diventati ufficiali carristi. Eravamo
già in guerra, per me l'Accademia è iniziata nell'autunno del 39 ed è finita nella
primavera del 41. Mai visto un mitra, un Beretta. I primi due li ho visti nell'agosto del
42 sul fronte russo durante le marce verso il Don, imbracciati da due sottufficiali di
scorta al generale Gabriele Nasci, comandante del corpo d'armata alpino, delle divisioni
Cuneense, Tridentina e Julia. Noi della Tridentina stavamo compiendo le marce dalla
stazione di sbarco di Novo Gorlovka verso Voroscilovgrad: invece di andare nel Caucaso ci
avevano dirottati in quelle immense pianure, anche perché una divisione italiana che era
sul Don da poco tempo, la Sforzesca, era in ritirata, aveva ceduto. Marciavamo verso
Voroscilovgrad, poi avremmo proseguito per raggiungere la zona della Sforzesca.
Avevo visto Nasci, era lì che ci guardava sfilare, con questi due sottufficiali coi
mitra. Poi li ho rivisti qui a Cuneo, in dotazione ai "balordi" della Ettore
Muti di Borgo San Dalmazzo che erano delle bestie feroci, giovani e meno giovani.
Camminavamo su quelle pianure immense, in piena estate, un sole che bruciava, il vento. La
mia compagnia consisteva in 342 alpini, 8 ufficiali e 90 muli. Noi alpini procedevamo per
due in fila indiana. La colonna era lunga almeno un chilometro. Noi, con l'alpenstock, un
bastone alto due metri che serviva per andare in montagna. Era uno spettacolo fuori dal
tempo. Incrociavamo ogni tanto qualche camion tedesco su quella pista tracciata sui campi,
polverosa. Si sollevava la polvere per tramutarsi in una specie di nebbia. I tedeschi ci
guardavano con curiosità: "Ma chi sono questi?" C'era un mulo per ogni tre
alpini. Avevamo già abbandonato le piccozze e le corde da roccia alla stazione di sbarco.
Avevamo una dotazione importante di piccozze, corde da roccia e ramponi da ghiaccio,
eravamo truppe da montagna. Se non era follia, questa: truppe alpine mandate a combattere
in quegli scacchieri di guerra: Mussolini, il "grande statista", un disastro
anche come esperto di cose militari. Era già un delitto mandare della gente a morire, ma
farlo in quelle condizioni era un doppio delitto. Mussolini diceva di non sapere, ma lui
sapeva tutto, aveva informatori nello stato maggiore dell'esercito. Il nostro esercito
aveva già subito il collaudo nel giugno 40, qui sulle nostre montagne, in quella
brevissima guerra durata pochi giorni contro la Francia. Mussolini sapeva tutto: sapeva
che le scarpe in dotazione all'esercito facevano pietà. Erano scarpe, a mio giudizio,
prodotto di tangenti sistematiche, già allora c'era il sistema delle tangenti e un
ladrocinio generalizzato. Si pensi che nei 7-8 giorni di guerra guerreggiata qui in casa
nostra, nelle nostre valli lungo la displuviale alpina, abbiamo avuto qualcosa come 600
morti e altrettanti dispersi. E inoltre, era giugno del 1940, 2000 congelati. C'era di che
allarmarsi, no? I libri dell'ufficio storico dello stato maggiore usciti dopo la
Liberazione riportano questi dati.
Il mio era un equipaggiamento da ufficiale, diversissimo da quello dei soldati. Prima di
partire per la Russia ero andato dal miglior calzolaio di Cuneo per farmi fare degli
scarponi da montagna a regola d'arte. Le scarpe in dotazione alla truppa, invece, erano le
stesse che usavano i soldati in Africa. I vertici del fascismo sapevano tutto. Io la
responsabilità la dò sempre a quell'uomo - Mussolini - ma anche al regime, ai vertici
militari, al potere economico, alla monarchia. Anche quel re piccolo piccolo sapeva tutto.
Costoro giocavano la carta dei tedeschi, puntavano tutto sui tedeschi che vincevano
dappertutto. Tanto i tedeschi fan tutto loro, noi diamo una mano e poi ci pensano loro.
Sapevano tutto, non erano nella condizione del nostro montanaro con la seconda elementare.
C'era stata la guerra contro la Francia, e quella del fronte greco-albanese che è stata
una esperienza drammatica: là i congelati non erano 2000, ma molte migliaia. La guerra è
durata dal 28 ottobre del 40 a maggio/aprile del 41, quando sono arrivati i tedeschi a
toglierci dalle difficoltà. Là la logistica era saltata per aria, era inadeguata perfino
a risolvere i problemi del rifornimento del pane ai soldati.
La guerra con la Francia: se ne sa poco ma merita di essere studiata perché è stata il
collaudo del nostro esercito che aveva stravinto in Etiopia, dove però si combatteva
contro i bastoni e le lance. Il vero collaudo è stato sul fronte occidentale. Per due
giorni è stato tutto un susseguirsi di ordini e contrordini: sparate, non sparate. Poi
iniziare la marcia verso Marsiglia. I francesi che erano barricati nei loro bunker con le
artiglierie efficienti, appena ci siam mossi hanno cominciato a picchiarci in testa.
Quando sono giunto a Cuneo dopo l'Accademia, ero curiosissimo, sapevo che sarei dovuto
andare in guerra. I miei alpini nel maggio del 41 erano appena tornati dal fronte
greco-albanese. Avevo una quarantina di uomini, li interrogavo, li ascoltavo. Li invitavo
a parlare e imparavo. Dicevano in coro che le loro artiglierie facevano pietà: i mortai
greci erano micidiali, sembravano dei giocattoli ma erano efficienti. Perdevano le scarpe
a pezzi, le tenevano legate con il fil di ferro. Avevano sofferto la fame, mancavano le
munizioni. I miei soldati avevano vissuto quasi tutti l'esperienza del fronte occidentale.
Mi parlavano i congelamenti, le nostre valli intasate, la confusione, storie incredibili.
Era gente di montagna che aveva vissuto male quella guerra: magari dall'altra parte, con i
francesi, c'erano i loro parenti, emigrati poco tempo prima.
Alla vigilia della partenza per il fronte russo ero alla Tridentina a Rivoli, avevo preso
coscienza della mia ignoranza: pian piano ero arrivato a dirmi "devo capire, devo
capire perché". Io parto, vado ad ammazzare o a farmi ammazzare, a migliaia di
chilometri da casa: per che cosa? Era un interrogativo drammatico. Tanti non se lo
ponevano, oppure davano una risposta semplicistica: "Vado per la patria". Ma
cos'è la patria per la quale vado ad ammazzare o a farmi ammazzare? E il fascismo? Io ero
stato un giovane fascista, ero nato e cresciuto come tutti i giovani della mia generazione
nella retorica, nel trionfalismo del Ventennio. L'Accademia mi aveva in parte
disintossicato. Arrivo a dire 50 anni dopo che la stessa scelta di andare all'Accademia
voleva dire lasciarmi alle spalle il mio fascismo infantile. Era già stata una scelta
matura, di vita, avevo vent'anni. In accademia avevo ascoltato le prime espressioni di
critica al fascismo, da cui l'esercito tendeva a differenziarsi. Quando sono entrato
nell'Accademia di Modena, confuso, nel giro di un mese ho imparato una nuova gerarchia.
Sua maestà, il re imperatore Vittorio Emanuele III, era il numero uno nel paese. Ricordo
che mi ero detto: "il numero due sarà Mussolini, obbligatoriamente". No, il
numero due è Sua Altezza reale il principe di Piemonte. E' giovane ma è l'ispettore
dell'arma di fanteria. E Mussolini? Era il numero tre il duce del fascismo, capo del
governo, ministro della guerra. Avevo ascoltato critiche aperte: "La guerra sul
fronte greco-albanese è iniziata il 28 ottobre: un disastro. Avanzate, ritirate, la
macchina militare è sull'orlo del collasso".
Badoglio venne esautorato, era capo di stato maggiore. Al suo posto subentrò Cavallero
che andava bene a Mussolini. Badoglio capro espiatorio del disastro. Il giorno dopo questa
operazione in 180 allievi del mio corso siamo alla lezione di storia. Entra il colonnello
Reggiani, bravissimo insegnante di storia militare, che rispettavamo molto. Come entrava
nell'aula tutti scattavamo sull'attenti, si sentiva come un rumore di tamburi perché il
pavimento era di legno. Si aspettava che l'insegnante dicesse "Comodi".
Scattiamo tutti sull'attenti e il colonnello con voce commossa e le lacrime agli occhi
pronuncia una frase più o meno come questa: "Delle squadracce dei fascisti, gente
che vale niente, hanno osato esautorare il maresciallo Pietro Badoglio che è
l'esercito". Erano pugni nello stomaco per dei giovani sui 20 anni che avevano sempre
sentito osannare il duce. E arriviamo all'ultimo messaggio. Il giorno in cui abbiamo
finito l'accademia. Il nostro generale, Giacomo Carboni, ci ha riuniti e ci ha detto:
"La guerra va male, le responsabilità non sono dell'esercito, sono del
fascismo". Un altro pugno nello stomaco, come se chiudendo un seminario il professore
avesse tirato una bestemmia.
Avevo già socchiuso gli occhi quando arrivai qui a Cuneo, e i miei soldati mi fecero un
corso accelerato. Poi mi hanno trasferito a Rivoli, dove i miei soldati erano montanari e
contadini valtellinesi. Anche lì continuavo ad ascoltare nuove verità.
Non capivo niente, ero ignorante, ero cosciente di esserlo però partivo sperando di
vincerla comunque, quella guerra. Andiamo là, siamo con i tedeschi, i tedeschi vincono
sempre. Vinceremo. Non voglio parlare di onore, c'è il rischio di cadere nella retorica,
50 anni dopo. Ti sentivi parte dell'esercito, se eri un ufficiale serio conoscevi un
pochino questi uomini, i loro problemi familiari, dialogavi con loro. Poi ti attaccavi a
questa gente e ti veniva voglia di dire: "Facciamo di tutto per avere meno perdite
possibili". Pensavo fosse meglio vincere che perdere. La patria per me erano questi
soldati che avevano già due campagne di guerra sulle spalle e che non avevano voglia di
andare sul fronte russo, però partivano. Provavo un po' di vergogna: questi erano già in
guerra mentre io facevo l'accademista. Eppure ho scelto di fare il militare nella vita.
Tutte queste cose si intrecciavano, sovrapponendosi. Io intuivo che i miei soldati non ne
volevano sapere di andare in guerra.
Guardavo questi poveri cristi e mi sembrava che il minimo che avrei potuto fare era di
condividere con loro. Uno dei miei soldati a Rivoli, tutte le sere allestiva un bamboccio
sul letto e scappava. Eravamo abbastanza comprensivi, non fiscali, c'era poco da essere
fiscali. Questi soldati avevano già altre esperienze di guerra sulle spalle ed erano dei
ribelli. Un giorno lo affrontai e gli dissi "Ma dove vai a finire tutte le notti?
Guarda che se ne sono già accorti i miei colleghi". E questo: "Mia moglie e il
mio bambino vivono a Torino. Io finchè non si parte scapperò tutte le notti. Però le
prometto una cosa: quando saremo in Russia, al fronte, ci saranno delle posizioni a
rischio e io mi presenterò da lei e le dirò: Mi mandi nella posizione più
pericolosa'". A settembre, mi sembra l'11, arriviamo in una posizione difficile,
rischiosa. Ci affanniamo per prepararci alla difesa quando arriva questo soldato e mi
dice: "Tenente, si ricorda quel giorno a Rivoli? Mi ha richiamato perché scappavo
sempre. So che c'è quella posizione lì, molto rischiosa, voglio andarci". Ecco,
c'era anche gente così. Tre anni fa, dopo cinquant'anni mi ha telefonato: "Si
ricorda? Sono quello che scappava sempre. Sono a Cuneo e vorrei tanto incontrarla".
50 anni dopo! La notte del 21 luglio 42 era il mio compleanno. Dopo tutto un giorno di
preparativi, a mezzanotte eravamo pronti a partire. La stazione di Collegno era deserta
perché i nostri soldati erano valtellinesi e quindi non c'era nessuno a salutarli. A
mezzanotte la tradotta si muove ed arriva dai vagoni un coro lamentoso, quasi un pianto.
Cantavano una canzone proibita, Bandiera nera, che recita in una strofa "bandiera
nera/ è il lutto degli alpini che vanno alla guerra. La migliore gioventù va
sottoterra". Una canzone di protesta, non guerriera. Quel canto mi è arrivato come
un messaggio, una conferma dello stato d'animo dei miei soldati, che della guerra non
avevano proprio alcuna voglia. Abbiamo sostato a Milano. Le donne fasciste, in sahariana,
portavano ai soldati acqua e ghiaccio. Soldati che avevano bisogno di intontirsi con
vinaccio, grappa, non certo con dell'acqua fresca. Al Brennero è successo qualcosa e
abbiamo sostato a lungo. Ferma sul binario parallelo al nostro c'era una tradotta tedesca
che entrava in Italia. La loro tradotta consisteva soprattutto di carri armati. Era caldo.
I tedeschi stavano sdraiati a torso nudo al sole, e noi tutti infagottati nelle nostre
divise fuori dal tempo. Con le fasce mollettiere intorno alle gambe. E il cappello da
alpini. I tedeschi ci guardavano sbalorditi. Dai vagoni di coda dove stavano rinchiusi i
90 muli arrivò un rumore incredibile: quelle povere bestie, cotte dal caldo, avevano
cominciato a scalciare. I tedeschi spalancavano gli occhi: "Ma cos'hanno dentro
questi vagoni?". Ricordo quel confronto al Brennero: noi eravamo i vecchi, loro
quelli della guerra moderna. Poi arrivammo in Austria: ma che belle stazioni. E il
paesaggio, tutto ordinato, intatto. Poi la Germania, ancora tutto bello e ordinato. Poi la
Polonia: grandi distese di terra incolta o con il grano non raccolto, un paesaggio
monotono. Gli alpini contadini guardavano e dicevano: "Se ci fossimo noi a
coltivare".
Ignoravano che la Polonia era occupata dal settembre del 1939.
Poi i primi segni dei bombardamenti, qualche piccola stazione ferroviaria distrutta dalle
bombe. E Varsavia con i segni di bombardamenti. E' lì che ho visto il primo gruppetto di
ebrei, uomini ancora in forze, non ancora dei relitti. Li ho visti da lontano, qualcuno ha
cominciato a dire "Hanno quel segno giallo, quella stella. Ma chi sono?".
Nessuno sapeva dei campi di sterminio, mentre attraversavamo la Polonia sfiorandoli. Dopo
Varsavia, Terespol, dove vedemmo delle donne ebree che lavoravano, appena fuori la
stazione. Dov'è successo il fatto che mi ha segnato per tutta la vita è a Stolbzce, una
piccola stazione tra Brest-Litovsky e Minsk, in Bielorussia. Viaggiavamo almeno da otto
giorni con soste brevissime, giorno e notte. Non è che durante quei giorni e quelle notti
avessimo imparato la geografia dell'Europa, però ci rendevamo conto che la Russia era
proprio lontana: i soldati nei carri bestiame, e noi otto ufficiali in un vagone di terza
classe. Arrivammo a Stolbzce in pieno giorno e stranamente ci dissero che la sosta sarebbe
stata lunga. Quindi bisognava scendere dalla tradotta. Scendemmo e ci venne incontro un
gruppo, un branco, forse 60/70 persone ridotte in condizioni indescrivibili, coperte di
stracci, scalze. Relitti, in piedi per miracolo.
Donne, vecchi, bambini. Era una stazione il cui immobile era modestissimo. Ho visto questa
folla venire verso di noi e poi ho visto i bambini che saltellavano, gli unici ancora
vitali - facevano tenerezza nei loro giacconi da adulti. Sullo sfondo era comparso uno
strano personaggio, indossava una specie di smoking tutto nero, cravattina a farfalla,
camicia bianca, e brandiva un bastone. Sembrava uno spaventapasseri e rincorreva i bambini
per evitare che ci raggiungessero. Ma lo faceva senza convinzione, rientrava forse nel suo
ruolo di kapò improvvisato. A 20 metri da questo branco di relitti, tre SS: erano
ragazzi, spilungoni eleganti nelle divise. Sorvegliavano con le gambe divaricate in
posizione di riposo ma anche del "chi va là", con le mitragliette puntate.
Sembravano indifferenti, assenti, lasciavano che questa gente si mescolasse a noi. Odiosi,
sembravano finti con le facce lisce, sbarbate, da bambini cresciuti troppo in fretta.
Guardavo questa gente, avrei voluto scambiare qualche parola, capire. Elemosinavano un
pezzo di pane, un rifiuto. Ci guardavano, mormoravano, non si capiva niente. Parlavo con i
miei colleghi. Volevo capire: "Ma questi qui sono pazzi a farci vedere uno spettacolo
del genere, terrificante. E' uno spettacolo che fiacca il morale. Che senso ha?". Il
meccanismo dello spettacolo faceva capire che esibivano la cosa, quei 3 tedeschi rigidi
come manichini permettevano a questa gente di avvicinarsi a noi. Era voluto. Mi chiedevo
se fosse un caso isolato, questo spettacolo. "Santa Madonna, se questa è la guerra
dei tedeschi io non ci sto, non è la mia". Io che ero partito per andare a capire,
cominciavo a capire. Eravamo talmente spaventati di fronte a quella visione che in quella
sosta durata 3 ore abbiamo avuto il tempo di preparare un rancio caldo, il primo dopo
tanti giorni. Abbiamo distribuito il rancio a questa gente che era stata attratta dal
profumo del minestrone. Non avevano niente dove metterlo e così si industriavano
rimediando tra i binari scatolette di latta arrugginite, buttate dalle tradotte. E' qui
che i miei interrogativi hanno cominciato a trovare una risposta. Poi è successo quello
che succede sempre in guerra: ripartimmo, voltammo pagina. Siamo arrivati a Novo Gorlovca
convinti di andare sul Caucaso, il che ci dava una certa tranquillità perché era
montagna. E invece...
Arrivammo al fronte l'11 settembre, io il 24 settembre sono rimasto ferito: una raffica mi
ha portato via il bicipite del braccio sinistro. E lì è cominciata la trafila degli
ospedali, delle retrovie. Mi sono reso conto della disorganizzazione delle nostre
retrovie, della corruzione. Ed è lì che sono diventato un ribelle: vedevo i tedeschi
nelle retrovie, motorizzati, con camion, automobili, motociclette e noi poveracci a piedi
dappertutto. Retrovie false, scombinate. I tedeschi li ho odiati a Voroscilovgrad, circa
200 km dal fronte, dove ero arrivato dopo una lunga trafila in altri ospedali. C'era un
ospedale enorme, da dove era vietato uscire, e io uscivo perché era l'unico modo per
ribellarmi. Un giorno vidi passare una colonna di civili, solo uomini, non ebrei, guardati
dai tedeschi con le mitragliette. Erano in fila per due intramezzati ogni tanto da un
tedesco. Mi colpiva la loro dignità, camminavano a testa alta. Ho provato una vergogna
profonda, di chi prende coscienza di essere un aggressore.
Perché poi questo spettacolo lo mettevi a confronto con la corruzione, gli ospedali
scombinati. E ogni tanto incrociavi un ufficialetto con gli stivali, la divisa da figli di
papà, con a braccetto uno straccio di ragazza, disposta a tutto per un pezzo di pane. E'
lì che sono diventato quello che sono. Una sera, eravamo in 7/8, uno con le stampelle, io
col braccio al collo.
Gli italiani ci portarono al binario e ci dissero che sarebbe arrivato il treno ospedale.
Ci caricano su un treno tedesco, pieno di soldati, in parte arrivavano da Stalingrado. E
noi 7/8 italiani finimmo tra questi nevrotici di tedeschi che ci trattavano da cani. Io
avevo occupato un posto con uno zainetto: arrivò un tedesco e me lo buttò via. La
tradotta ogni tanto si fermava e salivano delle donzelle della croce rossa che portavano
pane, marmellata, caffè. Mai che si sbagliassero, mai che dessero qualcosa a noi
italiani.
Abbiamo viaggiato 24 ore senza un goccio d'acqua. E poi siamo arrivati a Dniepro
Petrovska. Dopo qualche giorno ho chiesto rapporto dal colonnello, un tipo vecchio che
aveva dei gradi enormi sulle maniche. Gli ho detto che volevo andarmene: "Io soffro
la fame di pane, mi dica lei, se è possibile. Qui rubate tutto". Lui gridò:
"Come ti permetti. Sei un ufficiale. Tu vai via se ti lasciamo andare".
"No, io scappo". "Vuoi diventare un disertore?". "No, lei non ha
capito: io torno al fronte. Lì l'ambiente è pulito". Quando sono arrivato sul Don,
i miei soldati mi interrogavano, volevano sapere come funzionavano gli ospedali, le
retrovie, cosa ci fosse dietro. Io dicevo soltanto: "Se rimanete feriti fermatevi
più che potete all'ospedale da campo del reggimento".
Poi è arrivato il freddo. I soldati erano stranamente ingrassati.
Erano gonfi perché per compensare il rancio povero avevano scoperto dei campi di patate e
dei depositi di grano e allora facevano grandi polpette di patate e grano che tritavano
con macinini improvvisati che si erano costruiti. Erano gonfi, stufi, stanchi. Tra
raffiche di katiuscia - l'artiglieria che sparava 18-24 bombe contemporaneamente -
.abbiamo cominciato a vedere dall'altra parte del Don processioni di automezzi coi fari
accesi che andavano verso sud. E poi abbiamo avuto le prime notizie che a sud c'era una
breccia enorme e i sovietici ci avevano accerchiato.
E arriviamo al 17 gennaio, quando comincia il ripiegamento del grosso del corpo d'armata
alpino. Io mi sono fermato una notte in più sul Don con un reparto di mascheramento per
far credere ai russi che erano sull'altra sponda che noi eravamo ancora lì.
Siamo rimasti tutta la notte a sparare per far credere che come tutte le notti provavamo
le armi e tenevamo le stufe accese nei bunker. Il giorno dopo ho lasciato Belogorie e sono
arrivato a Podgornoe, un villaggio enorme che era punto di radunata della mia divisione.
Fine del mondo, caos completo, decine di migliaia di sbandati: italiani, tedeschi,
ungheresi. Noi della Tridentina, qualcuno della Julia, molti senza reparto. Depositi di
munizioni tedeschi che saltavano in aria, depositi di viveri assaltati, un inferno. E da
lì è iniziata la trafila della ritirata: tremenda. La ritirata è durata fino al 30
gennaio, quando abbiamo incontrato i primi segni di una linea tedesca appena abbozzata.
Siamo usciti come siamo usciti, quasi ognuno per proprio conto.
Io avevo 3 slitte cariche di feriti. Ci siamo fermati un giorno o due e poi ci hanno detto
che bisognava ripartire verso ovest. Il mio reparto non aveva più 342 alpini: s'era
ridotto a 60/70. I muli li avevamo persi quasi tutti. Abbiamo percorso altri 700 km per
raggiungere Slobin, zona di radunata della divisione. Qui abbiamo avuto una sosta.
Ormai era impossibile ricompattare anche un reparto minimo. Da Roma ci chiesero di
rimettere in sesto qualcosa di italiano, ma quando ci hanno interpellati abbiamo fatto
capire che non c'era nulla da fare: finito.
Tornando all'ignoranza di partenza, ricordo esattamente quando ho capito tutto: il
pomeriggio del 20 gennaio, dopo due tre giorni di ritirata. Nel pomeriggio, c'era ancora
un po' di luce, la mia colonna era ferma sulla piana di Postoialy in attesa di ordini. Il
reparto aveva un centinaio di uomini recuperabili. Il comando del corpo d'armata, con il
generale Nasci, aveva perso ogni contatto con la Cuneense e la Julia poiché non c'era
più una sola radio funzionante, non sapeva in che direzione farci andare. Eravamo fermi,
con 8.000 tedeschi sbandati e altrettanti ungheresi. Formavamo una scia nera lunga
chilometri e larga 70 metri. In quella situazione, quasi buio, è arrivato un aereo
sovietico a mitragliare. Vedevo uomini, soldati che saltavano in aria. Ricordo che i miei
alpini avevano appena acceso un fuoco con della paglia. C'erano 25 gradi sotto zero. In
quel momento ero lì con due colleghi, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti:
"Madonna santa, qui è la fine". E ho penasato: "Non credo più in
niente". Ho maledetto la monarchia, il fascismo, i generali, la guerra.
Ho capito tutto, ho avuto la percezione di essere uscito totalmente dalla mia ignoranza
iniziale. Però era tardi. Infatti, da allora in poi, mischiato in questa colonna rumorosa
dove c'era chi vaneggiava, chi parlava da solo, chi si agitava per scaldarsi, ho
cominciato a dire la mia. La memoria visiva mi fa rivedere il volto delle persone, e quel
fuoco di paglia che venne spento in fretta e furia all'arrivo dell'aereo sovietico.
Quel collega che mi diceva "Chissà se a Roma sanno". Ma cosa vuoi che sappiano,
a Roma ci hanno già dimenticato. Me lo sono detto tante volte dopo questo episodio: se
esco vivo di qui lascio l'esercito. Non sopportavo più la divisa, gli ordini, s'era rotto
qualcosa.
Guardavo la popolazione durante quelle marce: la guardavo con il rimorso di aver
partecipato a quella guerra sbagliata e poi la guardavo con tenerezza, una popolazione
fatta quasi tutta di anziani. Mi aggrappavo a quel mondo, il mondo della popolazione
civile, perché vedevo in esso uno spiraglio di pace e forse vedevo anche la mia famiglia.
Quando siamo arrivati a Slobin siamo stati tre o quattro giorni in una casa non povera
dove c'era un vecchio che mi ricordava tanto mio padre: un uomo alto, severo, con due
bambini sui cinque anni. C'erano due o tre stanze e a noi ne avevano assegnata una,
eravamo in 3. Loro vivevano da soli. Ho cercato di avere un dialogo con il vecchio, usando
quelle poche parole di russo che avevo imparato. Noi eravamo molto gentili, però lui ci
faceva capire che ci sopportava, ma ognuno doveva stare al suo posto. Allora ci siamo
messi a cantare, cercando di coinvolgere i bambini. Il vecchio li ha portati via. Dopo un
po', però, dall'altra stanza è arrivato l'eco del loro canto.
Io mi aggrappavo a queste cose. Il mio generale aveva fatto un volantino con sù scritto
"Ricordare e raccontare", ma appena arrivati in Italia non facevano che
ripeterci: "No, non dite niente della Russia, degli italiani e dei tedeschi".
Dalla ritirata sono tornato con tre armi. Il mio generale che sapeva delle armi, due
parabellum e una pistol-machine tedesca, voleva che le consegnassi e io continuavo a dire
di non avere niente e me le sono portate a casa. La pistol-machine l'avevo requisita ad un
tedesco nel momento in cui ero uscito dall'accerchiamento. Avevo visto 3 o 4 tedeschi che
ci sbeffeggiavano e fotografavano.
Avevo una voglia matta di saltar loro addosso. Un po' più in là c'era un bamboccetto
tedesco con la faccia da suonato e la pistolmachine in spalla. Un'ora prima un mio alpino
mi aveva regalato due pacchetti di sigarette che aveva preso dallo zainetto di un tedesco.
L'istinto mi ha fatto andare là con le sigarette in mano: gli ho toccato la cinghia della
pistol-machine e gli ho fatto capire che in cambio gli avrei dato le sigarette. Ha
accettato: mi pareva di aver disarmato un tedesco. Sono tornato i Italia con quelle tre
armi: mi ero messo in testa che non era finita, che sarebbero servite ancora.
Eravamo tornati in pochissimi dalla Russia, la divisione Cuneense era scomparsa sul fronte
russo. I pochi reduci venivano convocati alla federazione fascista a Cuneo, dove li
accoglievano facendo grandi elogi, ma con una predica finale: "Non parlate, non dite
niente né dei tedeschi né degli italiani. Il fronte interno non deve sapere".
La musica era sempre la stessa: "Taci, il nemico ti ascolta".
Soltanto alla terza convocazione decisi di andare alla federazione fascista. Mi sono
trovato davanti un imboscato che prima mi ha elogiato e poi mi ha ripetuto di non dire
niente della Russia. L'ho aggredito, gli ho detto di non rompermi più l'anima. Io pensavo
di non riuscire più a credere in nulla. Sentivo il peso di quelli rimasti in Russia.
Stavo nella mia stanza, leggevo il diario, pensavo ai miei caduti e dispersi di Russia e
mi mettevo a piangere. Piangevo anche per un'ora, da solo. I miei capivano che soffrivo
perché vivevo le notti rivedendo la ritirata, rivivendo i combattimenti. A volte urlavo
"spara, spara" e mi svegliavo di soprassalto. E' così che è arrivato l'8
settembre e il partigianato. Ma questa è un'altra storia.
In Russia ho capito che la guerra era perduta. Anche i tedeschi erano mal messi. Li avevo
visti sbandati, fare i prepotenti in alcuni casi ma anche comportarsi da vinti e quindi
anche sulla macchina bellica tedesca mi ero fatto delle convinzioni. Quando è arrivato
l'8 settembre, ricordo in via Roma l'euforia della "guerra finita", i soldati
che si abbracciavano e la gente che festeggiava. Io avevo le idee precise sul fatto che la
guerra sarebbe stata ancora lunga, questa volta contro i tedeschi. Da partigiano
continuavo a dire ai miei compagni inesperti di guerra, in previsione dei rastrellamenti:
"Guardate che se noi spariamo bene quelli scappano come tutti". Questo per
smitizzare la solita immagine dei tedeschi invincibili, straordinari, uomini d'acciaio.
Era la retorica aiutata dalla spietatezza che avevano i tedeschi nelle rappresaglie, nelle
risposte, negli atteggiamenti. I tedeschi urlavano sempre. Era più forte di loro,
urlavano sempre.
I fascisti erano peggio dei tedeschi. Dopo il disastro di Russia odiavo i tedeschi, li
consideravo responsabili del nostro disastro. Ma quel disastro l'avevamo cercato, voluto,
avevamo fatto il possibile per realizzarlo. Nel mio diario di Russia, che è trascritto
nel libro "Mai tardi", quando cito i tedeschi li chiamo sempre bastardi,
vigliacchi, balordi. Non c'è mai scritto "i tedeschi" e basta, c'è tutta una
filastrocca di insulti. Del regime fascista non minimizzavo niente: pensavo che il
fascismo ci aveva traditi, plagiati, e pensavo soprattutto alle migliaia e migliaia di
morti e dispersi, gente semplice mandata al massacro in quel modo tremendo.
Mandati in guerra in condizioni di inferiorità, un crimine che gridava vendetta. Quando
siamo partiti da Rivoli la voce era che andavamo sul Caucaso: arriviamo là che è tutto
finito.
La propaganda rozza la metteva sul comico, diceva: "La nostra sarà una passeggiata,
vinceremo in un baleno per poi scendere ad Alessandria d'Egitto dove ci ricongiungeremo
con i nostri che avranno già conquistato tutta l'Africa". Discorsi da ubriachi.
La stupidità del fascismo, e i suoi molti complici, come il re che pensava a se stesso,
alla monarchia, ai propri interessi, e noi eravamo là a crepare.
Insisto molto sul discorso dell'ignoranza perché non poco di quell'ignoranza, direi di
massa, esiste ancora oggi: lo riscontri, lo avverti nella cronaca quotidiana. Io parlo
spesso ai giovani durante le presentazioni dei miei libri. Dico loro: "Lottate contro
l'ignoranza, la vostra e quella degli altri. Noi la nostra ignoranza l'abbiamo pagata
cara. Nell'ignoranza si può anche vivere bene, ma nei momenti estremi non ti salva.
Durante il fascismo non esisteva un solo libro che non fosse di propaganda. Oggi chi vuol
capire dispone di tutti i mezzi necessari. Leggete, mettete a confronto le verità
diverse, e poi trovate la vostra verità".
(ilmanifesto.it)
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