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         | Campagna di Jugoslavia  Guerra in Jugoslavia e partigiani di Tito
 La testimonianza di Enzo Forcella La prima volta sono stato a Sebenico, in un reparto di fanteria accampato
        sulla costa. Avevo il grado di sergente con un rombo ricamato in oro e la scritta Vu,
        "volontario universitario", su una manica della divisa. Non era vero, ero stato
        chiamato alle armi con regolare cartolina precetto. Ma Mussolini, deluso che al momento
        della dichiarazione di guerra gli studenti non si fossero presentati volontari rinverdendo
        la tradizione risorgimentale dei battaglioni Curtatone e Montanara, ci aveva fatto
        arruolare d'autorità. Ordinando però, con una sorta di operazione magica, di essere
        considerati, per l'appunto volontari; poiché era scritto diventava vero.Passai un paio di mesi a leggere e giocare a carte sulla riva del mare. Non dovevamo fare
        niente, soltanto aspettare di essere eventualmente trasferiti nell'interno dove divampava
        la guerra partigiana. Una guerra feroce, con eccidi, fucilazioni di ostaggi, deportazioni
        di massa; i vilaggi distrutti con i lanciafiamme. I partigiani di Tito avevano già
        occupato larghe zone della Bosnia, dell'Erzegovina, del Montenegro costringendo gli
        italiani a ritirarsi nelle guarnigioni fortificate. Ma sono tutte cose che apprenderò sui
        libri, molto più tardi. Mentre ero là non seppi neppure che, proprio nei giorni del mio
        arrivo, a pochi passi dal mio accampamento, erano stati fucilati 65 ostaggi tra cui Rade
        Koncar, uno degli eroi della guerra di liberazione.
 Poi fui richiamato in Italia per partecipare al corso allievi ufficiali. Ritornai in
        Balcania, come allora veniva chiamata l'ex Jugoslavia, dopo sei mesi. Questa volta ero a
        Zegar, un villaggio al confine tra la Dalmazia e la Croazia, sottotenente delle
        "Guardie alla frontiera". Anche qui per tutto il tempo che vi rimasi non accadde
        niente. Ma ora, contrariamente a quanto era avvenuto a Sebenico, era un niente in qualche
        modo organizzato.
 Tutti gli uomini validi erano in montagna, nel villaggio erano rimasti soltanto le donne,
        i bambini, qualche vecchio e un prete.
 Non so bene come, il prete era riuscito a stabilire un tacito accordo tra noi e i
        partigiani: se ci fossimo tenuti nel perimetro del villaggio senza tentare sortite o
        rastrellamenti nessuno ci avrebbe dato fastidio, la posta e i viveri sarebbero arrivati
        regolarmente.
 Il capitano che comandava la compagnia era un tipo tranquillo e sornione. Si era
        accaparrato l'unica ragazza piacente e disponibile, gli piaceva bere, il reparto non gli
        dava grane.
 "Aspettiamo che finisca" diceva "e auguriamoci che continui così sino alla
        fine". Soltanto il vice comandante si lamentava della nostra inattività e ogni
        tanto, a mensa, proponeva qualche azione dimostrativa. Era l'unico, tra noi, che credeva
        ancora al fascismo e all'utilità di quella guerra. Il capitano lo guardava ironico e
        rispondeva invariabilmente: "Io non ho ordini e non posso prendere iniziative. Il
        nostro compito è di garantire le linee di comunicazione e rispondere se siamo
        attaccati".
 Per sei o sette mesi le cose continuarono a andare così, molto tranquillamente. Il mio
        servizio si riduceva a fare ogni tanto il giro delle postazioni di mitragliatrici per
        controllare il rispetto dei turni e delle consegne. Il resto del tempo lo trascorrevo
        nella mia baracca cercando di preparare qualche esame universitario. Oltre, naturalmente,
        le grandi bevute e le partite a carte.
 Mai sparato un colpo di fucile e i partigiani li vidi soltanto una volta, da lontano.
        C'era stato un attacco nella zona e ero stato inviato col mio plotone in un certo punto
        per tagliare la strada al nemico quando avrebbe ripiegato. Passammo alcune ore acquattati
        tra i cespugli, riparati dai muretti a secco che dividevano i vari appezzamenti di
        terreno. Finalmente li vedemmo, i partigiani; tante piccole sagome scure che correvano
        velocissime saltando agilmente i muretti; ma erano troppo lontani per aprire il fuoco, e
        anche loro ci videro ma proseguirono, decidendo di non ingaggiare il combattimento. Se
        avessero invertito la corsa ci sarebbero saltati addosso annientandoci. O almeno così
        pensavo mentre con la faccia schiacciata contro l'erba cercavo di capire ciò che provavo.
 Paura, ovviamente, molta paura. Non ero però affatto sicuro di volerla superare. Niente,
        se fossi rimasto steso su quelle pietraie, avrebbe dato un senso all'assurdità di quella
        morte.
 Uscirne vivo, questa era l'unica prospettiva che avesse senso.
 Me lo sarei dovuto ricordare quando, magari, mi sarei rammaricato di aver mancato la prova
        virile del cosidetto battesimo del fuoco.
 In autunno il comando del Corpo d'armata decise di sferrare l'ennesima offensiva
        antipartigiana e a Zegar ci avvertirono che presto sarebbe arrivato un reparto della
        milizia con l'ordine di passare all'attacco e bruciare con i lanciafiamme tutti i villaggi
        sospettati di connivenza con i partigiani. Non so come andò a finire perché prima che
        arrivassero, approfittando di certe disposizioni ministeriali sui combattenti che si
        trovavano in determinate condizioni familiari, chiesi e ottenni il rimpatrio. L'anno
        successivo, al momento dell'armistizio, i tedeschi disarmarono tutti i militari italiani
        ancora in Jugoslavia [15 divisioni, tranne qualche reparto che si unì ai partigiani] e li
        avviarono, un po' a piedi e un po' nei vagoni bestiame, verso i campi di concentramento
        polacchi.
 Sono stato fortunato, mi è andata bene. Non rimpiango niente, non nutro alcun senso di
        colpa. C'è tuttavia qualcosa che ancora mi scotta e, a cinquant'anni di distanza, mi sto
        chiedendo come sia potuta accadere. Come è potuto accadere che un giovane di ventanni,
        non del tutto sprovveduto, abbia potuto trascorrere mesi e mesi in mezzo agli eccidi, alle
        fucilazioni, alle deportazioni, alla distruzione di intiere comunità senza accorgersi di
        niente. Certo, queste cose non avvenivano sotto i miei occhi, si viveva in compartimenti
        stagni, la censura era l'unico servizio che nel nostro esercito funzionava. Ma è
        possibile che non abbia mai avuto la curiosità di procurarmi qualche libro, di dare
        almeno uno sguardo a una carta geografica per capire qualcosa della terra in cui mi
        trovavo e degli uomini contro i quali stavo combattendo?
 "La seconda guerra mondiale ha una memoria frantumata" ha notato Mario Isnenghi
        a proposito della memorialistica italiana sugli eventi del 1940-'43. Tante testimonianze
        sui sentimenti che hanno accompagnato l'entrata in guerra e, soprattutto, su come è stato
        vissuto il disastro dell'8 settembre: uno straordinario riserbo, invece, una reticenza
        diffusa nel racconto dei tre anni di guerra. [Unica eccezione la tragica ritirata del
        corpo di spedizione in Russia]. La mia testimonianza fa parte di questa memoria
        frantumata. O, più esattamente, cancellata. Ed è anche significativa, mi sembra, la
        riluttanza degli storici a cercare di riempire il vuoto. E' come se un'intera
        collettività fosse rimasta prigioniera di un passato cancellato mentre ancora stava
        accadendo; e quindi non metabolizzato, amputato dalla possibilità di diventare
        esperienza.
 (tratto da ilmanifesto.it)
 
 
 
 
 
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