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1949: L’ITALIA ADERISCE AL PATTO ATLANTICO

De Gasperi e la DC nella politica estera italiana

 di Carmelo Caruso

Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, l’Italia sceglie di orbitare nell’area delle potenze occidentali. Si tratterà di un’adesione molto più problematica di quanto possa apparire in superficie, non solo per la strenua opposizione portata avanti dalle sinistre, ma anche per le divisioni sorte in seno alla stessa DC, in cui, alcune componenti – in primis i Dossettiani – criticarono le scelte internazionali del governo.

Accanto a queste resistenze di carattere “interno”, Il governo dell’epoca dovette confrontarsi prima con i veti posti al suo ingresso nel Patto da parte di Stati Uniti e Francia, così come di Regno Unito, Canada, Belgio. I governi di questi paesi ritenevano che l’estensione verso il Mediterraneo dell’Alleanza, concepita per le potenze “rivierasche” (che in altre parole si affacciavano sull’Atlantico del Nord) avrebbe condotto ad uno snaturamento di quest’ultima, la avrebbe indebolita e molti altri stati avrebbero potuto seguire l’esempio italiano. Secondo quanto scrive Nico Perrone, fu grazie alle pressioni esercitate dall’ambasciatore Tarchiani e dal ministro degli esteri, Sforza, che si potè superare l’impasse.[1] In piena sintonia con le aspirazioni italiane, e del Presidente del Consiglio De Gasperi era invece J. D. Hickerson, direttore dell’Office of European Affairs del Dipartimento di Stato, che concepiva l’allargamento del Patto come uno strumento di lotta anticomunista.

In cosa consisteva esattamente il Patto atlantico? Si trattava di un’ alleanza difensiva proposta dall’amministrazione Truman, sintomo della nascente contrapposizione tra i blocchi nella guerra fredda. Essa realizzava la dottrina elaborata dal presidente americano, fondata sul containment, cioè sul contenimento e la risposta rapida all’avanzata sovietica. I firmatari sarebbero dovuti  intervenire in difesa di una delle parti aggredite, nel caso in cui vi fosse stato un attacco da parte di una potenza esterna. L’ipotetico destinatario di di questa disposizione era l’Unione Sovietica, in quanto l’Urss rappresentava “l’unico possibile aggressore, nell’area garantita dal trattato”.[2] Per l’Italia, d’altra parte, l’adesione al patto avrebbe implicato alcuni vantaggi, e, soprattutto, il prestigio che sarebbe conseguito dall’essere ammessi al club delle potenze filoamericane. Si trattava, in altri termini, di reintegrare l’Italia nelle relazioni internazionali.[3]

Il Parlamento italiano, si pronunciò favorevolmente all’adesione, confermando le aspirazioni di De Gasperi; tuttavia, come si scriveva poco sopra, si trattò di un’adesione sofferta. Lo fu per De Gasperi in particolare, le cui posizioni in politica estera furono la conseguenza di una valutazione ponderata tra i vantaggi promanati e i costi politici di una simile scelta; e l’Italia, costituì un alleato non sempre ligio alle direttive americane, poiché, come afferma Mario Del Pero, “la consapevolezza dei vantaggi derivanti da un legame più stretto con gli Stati Uniti maturò lentamente e non senza distinguo.”[4] Per questo motivo, si può supporre che De Gasperi considerasse l’opzione atlantica come l’unica alleanza concretamente praticabile nel contesto storico e politico del immediato secondo dopoguerra; ma, questo avvenne non per una presunta affinità ideologica con l’alleato d’oltreoceano, bensì per motivi strategici e programmatici. Infatti, se la Russia stalinista costituiva un modello antidemocratico e inevitabilmente lontano, non si può affermare al contempo che  l’utilitarismo consumistico degli Usa fosse in profonda sintonia con un partito come la DC, orientata verso valori tradizionali, propri di un paese non ancora aperto alle innovazioni della società.[5]

Ma anche alcuni settori del partito di maggioranza videro negativamente quest’operazione. La DC, infatti, in quanto “contenitore” di diversi orientamenti, registrò alcune difformità rispetto all’indirizzo generale del Governo. In linea di massima erano presenti tre correnti: i Dossettiani, neutralisti, che costituivano la sinistra del partito; i Gronchiani, che invece propendevano per il “terzaforzismo”, ossia per una posizione d’equilibrio tra Patto atlantico e COMECON,   in cui all’Italia e all’Europa sarebbe spettato un ruolo di mediazione e autonomia; mentre altre componenti del partito erano  favorevoli all’ingresso nell’alleanza. Nella primavera del 1949, tale dibattito divenne veramente acceso, coinvolgendo figure come Gedda, e sul versante opposto don Primo Mazzolari e Igino Giordani.

Dopo la ratifica del Patto, De Gasperi seppe mediare con gli alleati, evitando conseguenze troppo impegnative. Così accadde, per esempio, nel 1950, quando, allo scoppio della guerra di Corea, il Governo italiano inviò una sola unità d’ospedale da campo[6]. Da questa scelta si comprende quali erano le intenzioni dello statista trentino: coinvolgere il Paese in un circuito politico di gran rilievo, con tutti i conseguenti frutti, senza compromettersi troppo, sebbene la questione delle basi statunitensi avesse creato un’accesa polemica attorno alla questione della sovranità nazionale.

 

[1]  Nico Perrone, il segno della DC, Bari, Dedalo, 2002, pp. 37-38.

[2] Di Nolfo Ennio, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici, Roma-Bari, Laterza, 2002, p.227.

[3] Nico Perrone, op. cit., p.38.

 

[4] Mario Del Pero, L’alleato scomodo: gli USA e la DC negli anni del centrismo, Roma Carocci, 2001, p. 29.

[5] Ibidem, p. 25.

[6] Nico Perrone, op. cit. , p. 49.

 


 

   

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