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Pio La Torre

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Nato a Palermo nel 1927, vent’anni dopo è già un dirigente prima della Confederterra, poi della Cgil e quindi del Pci. Nel ’50 è arrestato a tenuto in galera (carcere preventivo!) per un anno e mezzo, accusato di avere organizzato l’occupazione da parte dei braccianti e dei contadini senza terra di un feudo nel palermitano. (“uno degli obiettivi che il nemico si prefigge chiudendoci in carcere – scriverà dalla cella dell’Ucciardone a Paolo Bufalini – è quello di strapparci alla lotta e isolarci da quel movimento che è la fonte di ogni nostro pensiero e azione”.)
Sarà segretario regionale della Cgil, e nel ’62 è eletto segretario regionale del partito. Intanto fa parte del Comitato centrale del Pci già da due anni. E nel ’69 è chiamato a Roma per ricoprire incarichi di lavoro: la direzione prima della commissione agraria e poi di quella meridionale. Più tardi entrerà nella segreteria nazionale, su proposta di Enrico Berlinguer, in considerazione delle sue doti politiche, d’intuito e di organizzazione. Ma c’è un momento-chiave nella vita di Pio La Torre: nell’81, quand’è deputato a Montecitorio già dal ’72, chiede di tornare in Sicilia dove torna ad assumere la responsabilità di segretario regionale del partito. La Torre è consapevole della gravità della situazione nell’isola. Tre elementi alimentano il suo allarme: la crisi economica, la criminalità mafiosa (è stato lui a stendere la relazione di minoranza del ’76 della commissione parlamentare antimafia), la minaccia rappresentata per la pace nel Mediterraneo e per la stessa Sicilia della costruzione della base missilistica di Comiso contro la quale lancia la campagna per raccogliere un milione di firme in calce ad una petizione al governo (un suo intervento a sostegno della campagna, scritto due giorni prima dell’assassinio, apparirà postumo su “Rinascita”).
Il ritorno di Pio La Torre mette in allarme molte centrali: del crimine, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. E’ in questo quadro che matura la decisione di eliminarlo.

Palermo, mattina del 30 aprile 1982. Nell’auto guidata da Rosario Di Salvo, il segretario regionale del Pci Pio La Torre sta raggiungendo la sede del partito. Alla macchina si affiancano due moto di grossa cilindrata: alcuni uomini mascherati con il casco e armati di pistole e mitragliette sparano diecine e diecine di colpi contro i nostri due compagni. Rosario Di Salvo ha il tempo di estrarre la pistola e di sparare cinque colpi. Ma è tutto inutile. La Torre è morto all’istante, Di Salvo boccheggerà pochi istanti, tutti e due barbaramente sfregiati, orribilmente scomposti. Si consuma così uno dei più gravi attentati politico-mafiosi di una terribile stagione siciliana destinata ad eliminare presidenti di regione e ufficiali dei carabinieri, commissari di polizia, magistrati, giornalisti.
Povero Pio La Torre. E povero Rosario Di Salvo. Ai funerali (cui parteciperà il presidente della Repubblica, Sandro Pertini) si ricorderà, con commozione, che Rosario aveva lasciato da qualche anno il lavoro nell’apparato del partito dedicandosi con successo ad una attività (ragioniere in una cooperativa) che gli consentiva di far fronte un po’ meglio alle necessità della famiglia. La moglie e tre bambine. Ma quando Pio rientra a Palermo “ben sapendo che si trattava di un posto di lotta e di lavoro pieno di difficoltà e di pericoli”, sottolineerà Berlinguer nell’orazione funebre, abbandona la sua occupazione e chiede di tornare a fare l’autista, per il segretario regionale: “Guadagnerò di meno – dice – ma questa è la mia vita. Mia moglie ora fa dei ricami in casa. Ce la faremo lo stesso”. Dirà Berlinguer: “Ecco chi era Di Salvo: un compagno mosso da una profonda, irresistibile passione politica, da uno spirito di assoluta fedeltà al partito".

Ma chi sono gli assassini materiali e i mandanti? E’ ancora un mistero, ma sino a un certo punto. Tre, forse quattro killer saranno individuati grazie ad un pentito, ma sul movente c’è buio pesto. Il velo di complicità sarà in qualche misura squarciato dieci anni dopo, quando, il 23 maggio del ’92, verranno uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta nel terribile attentato nei pressi di Carini. In un dischetto del suo computer sarà trovata una traccia: un collegamento del nome di Pio La Torre con Gladio (l’organizzazione clandestina anticomunista) e il Sismi, cioè il servizio segreto militare (interessato alla campagna su Comiso?). Ma quando Falcone forse aveva deciso di agire, era giunto il trasferimento a Roma e subito dopo l’assassinio.

(di Giorgio Frasca Polara, dal sito dsonline.it)

 

 

 

   

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