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Il miracolo economico

3. La crisi del 1963

Con il 1962 si registrò un’inversione di quella che sino ad allora era stata la tendenza del “miracolo economico”: i primi segnali di un’imminente crisi economica furono sufficienti a incrinare la fiducia che aveva pervaso la società in questi anni.[1]

Gli effetti principali di questa inaspettata crisi economica furono: l’incremento passivo della bilancia commerciale, l’arresto del ritmo di crescita della produttività ed il riaffacciarsi dell’inflazione con un parallelo aumento dei prezzi. Le cause di questa depressione possono essere ravvisate in una determinata politica padronale appoggiata in parte da quella del governo che aveva deciso nel ’63 per una “stretta creditizia”.  Questa manovra restrittiva, paragonabile per rigidità a quella del 1947 di L. Einaudi, venne ritenuta l’unico intervento possibile per arginare la ripresa dell’inflazione in Italia.

Ma come si arrivò a una tale condizione dopo anni di stasi inflazionistica, fluidità monetaria e crescita dei profitti?

I primi anni sessanta, come visto, si contraddistinsero per un aumento dei salari, che nel 1962 erano cresciuti più della produzione[2] e della forza contrattuale dei Sindacati (che si espresse nelle ore di lavoro perse per sciopero nel triennio 1960-1962 che aumentarono in modo sensibile). La reazione degli industriali a queste conquiste operaie “fu un tentativo di recuperare, attraverso un aumento generalizzato dei prezzi, quanto si era perduto nel corso delle lotte salariali”[3]. Se i prezzi sino ad allora erano stati stabili, con crescita regolare del 3-4% l’anno, negli anni ‘61-‘62 questi aumentarono velocemente. Diversi fattori contribuirono allo svilupparsi dell’inflazione: essa era legata sia a fattori congiunturali che a squilibri strutturali. Anzitutto, gli stessi imprenditori, messi sotto pressione dall’aumento dei salari e dalla corrosione dei profitti, cercarono di difendere i propri introiti agendo sui prezzi di vendita. Infatti, le grandi imprese, a causa di questi problemi, ridussero la propria possibilità di autofinanziamento e le piccole   imprese videro entrare in crisi il proprio bilancio.  Le aziende avevano la possibilità di ammortizzare i danni ricorrendo ad un aumento dei costi delle merci indirizzate al mercato interno, questa manovra era resa possibile dal fatto che in quegli anni la domanda globale (quindi anche i consumi privati) era in forte crescita[4]. Ma, se a livello nazionale questo “gioco al rialzo” era praticabile, in campo internazionale non lo era poiché uno dei segreti della forte crescita delle esportazioni dei prodotti italiani era stato quello dei bassi costi. Così il padronato si trovò stretto tra due vincoli: la necessità di dover alzare i prezzi per sopperire agli incrementi salariali e l’obbligo di contenere i costi dei prodotti per poter esser ancora competitivo sul mercato internazionale. Questa situazione comportò una compressione dei profitti delle industrie[5]. In questa situazione avvenne “quello che doveva avvenire” ha affermato Graziani, ossia un aumento del passivo della bilancia commerciale sino ad allora in equilibrio[6] e la stretta creditizia apparve come l’unica via di uscita praticabile[7].  La depressione venne innescata dalle autorità monetarie per bloccare l’aumento dei salari, ripristinare un livello più elevato dei profitti e per arrestare l’espansione della produzione; tuttavia essa generò anche una violenta caduta degli investimenti, seguita da un crollo dell’occupazione ed una caduta della domanda di beni di consumo. Dopo dodici anni di crescita ininterrotta l’economia italiana era entrata in crisi. La situazione sarebbe potuta essere peggiore se non vi fossero state alcune compensazioni:

·         l’aumento veloce delle esportazioni, reso possibile dal fatto che, mentre l’Italia attraversava un periodo di depressione, gli altri paesi si trovavano ancora in una fase di congiuntura elevata;

·         l’aumento dei salari che, nonostante la depressione, progrediva e in modo più   diversificato  rispetto agli anni precedenti (nei quali erano state soprattutto le attività industriali a beneficiarne);

·         l’aumento della propensione al consumo, per cui gli investimenti, nonostante il loro  livello ridotto, davano luogo a una domanda globale crescente[8]. 

Secondo l’analisi di Graziani, in accordo con quella di Castronovo, questa depressione (che non fu limitata esclusivamente al 1963 poiché i segni significativi di ripresa si avranno soltanto alla fine del decennio) non venne affrontata seriamente dalle autorità, anzi essi ritengono che la crisi “sia stata lasciata andare consapevolmente…con lo scopo, non solo di ridurre la combattività sindacale con la disoccupazione (cosa che in effetti avvenne), ma anche e sopratutto di consentire all’industria di effettuare una ristrutturazione tecnologica e finanziaria. Infatti…in questi anni la vera risposta del capitale agli aumenti di salario fu una reazione di carattere tecnologico volta a realizzare cospicui aumenti di produttività”[9].

 Per Valerio Castronovo, l’ascesa dei prezzi e le tendenze inflazionistiche erano causate non solo da fenomeni congiunturali ma anche da elementi e squilibri di carattere strutturale: la strozzatura nell’offerta dei servizi, le inefficienze del sistema di distribuzione ed il perdurare della speculazione nell’edilizia e nel modo finanziario[10]. Questa situazione provocò pesanti ripercussioni anche all’assetto sociale del paese: la ripresa delle lotte sindacali e l’esplodere della conflittualità sociale e di piazza avevano messo in evidenza gli squilibri che il “miracolo” non era stato in grado di appianare[11].

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[1] V. Castronovo, Economia e classi sociali, in V. Castronovo, L’Italia Contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp  28.  Il boom aveva generato un grande ottimismo attorno ad un modello di sviluppo che sembrava da una parte garantire  un costante allargamento del benessere e dall’altra  una perdurante pacifica collaborazione tra le parti  sociali.

[2] A questa conquista se ne affiancarono altre per il mondo del lavoro e per il sindacato. Questo era  favorito dal raggiungimento della piena occupazione che accresceva la forza contrattuale  dei lavoratori nel confronto con il padronato: tali conquiste permisero a loro volta  ai lavoratori di riuscire ad ottenere, dopo anni di stasi, miglioramenti salariali e anche normativi.

[3] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p.79.

[4] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 80. Il livello degli investimenti nel Nord e nel Sud in questi anni era molto aumentato. Inoltre l’aumento degli investimenti unito ad un accresciuta propensione ai consumi, a sua volta facilitata dalla crescita salariale, favorì un innalzamento della domanda globale incentivando l’aumento dei prezzi.

[5] Venne proposto il rimedio della svalutazione della lira che però non fu accettato dalle autorità finanziarie.

[6]Ufficialmente le cause della crisi inflazionistica in cui l’Italia si trovava nel 1963 vennero attribuite all’azione degli speculatori.

[7] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, pp. 81-82.

[8] V. Castronovo, Economia e classi sociali, in V. Castronovo, L’Italia Contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp.28-30. L’intensificazione dell’incremento della domanda interna, di fronte ad un rallentamento della crescita dell’offerta interna, si ripercosse sulle esportazioni e sulla bilancia dei pagamenti.

[9] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p.85.

[10] V. Castronovo, Economia e classi sociali, pp. 28-30. Queste storture erano da imputare ancora agli squilibri territoriali italiani tra Nord e Sud ed alla  endemica arretratezza dell’agricoltura, soprattutto nel meridione.

[11] G. Crainz, Storia del miracolo italiano,Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta. Come esempio di squilibrio, possiamo ricordare la violenta contraddizione tra il permanere di rapporti di lavoro arretrati, come la sproporzione tra produzione e salari reali, e le nuove possibilità offerte dal boom.

 

 

 

 

 

   

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