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I mille giorni di Allende

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Lo scenario in Italia

di Francesco Romanetti

Dire «Cile», anche in Italia, per anni ha significato evocare qualcosa di grande e di traumatico, che ha violentemente imposto una svolta al corso della storia. Qualcosa che ha mutato le categorie della politica. Perfino della morale. Dicevamo «Cile» e pensavamo ad una ferita, ad uno shock: quella dell’11 settembre del ’73, quando il golpe militare mise fine all’esperienza di Unidad Popular e alla legittima presidenza di Salvador Allende. «Noi dimostreremo - aveva dichiarato Allende nel 1970, al momento di assumere il potere - che si può attuare il socialismo nella democrazia, nel pieno rispetto delle libertà garantite dalla nostra costituzione». Il sanguinoso colpo di Stato e le atrocità, che seguirono, le torture, i desaparecidos, per molti dimostravano che la via parlamentare al socialismo, in qualunque parte del mondo avrebbe potuto trovato sulla sua strada un generale macellaio come Pinochet e gli intrighi criminali della Cia.
Fu allora che il Pci di Enrico Berlinguer (con tre lunghi articoli comparsi su «Rinascita» e intitolati «Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile») indicò la svolta, che si chiamò «compromesso storico»: non un governo di sinistra avrebbe dovuto e potuto guidare la trasformazione in Italia, ma un’alleanza che inglobasse nel fronte progressista la Democrazia Cristiana. Se la Dc di Eduardo Frei, in Cile, aveva logorato dall’opposizione il governo di Unidad Popular, tramato con Washington (e forse addirittura con i militari golpisti), allora occorreva evitare che i cattolici e la forza popolare che rappresentavano diventassero strumento della destra reazionaria. Ma la strategia del «compromesso storico», percepita come una svolta - pur essendo del tutto coerente con il gradualismo istituzionale del Pci di Togliatti - non mirava solo ad un nuovo quadro di alleanze politiche. Puntava, più profondamente, ad individuare nuovi blocchi sociali, che coinvolgessero nel processo di trasformazione larghi settori della società. Proprio quello, insomma, che era mancato ad Unidad Popular. Il governo di Allende aveva colpito le multinazionali americane, il grande capitale, gli agrari: ma poi in piazza a protestare erano scesi i ceti medi, precostituendo il clima torbido che avrebbe aperto la strada alla dittatura. Infine, per il Pci l’oscuro ruolo della Cia nel golpe dimostrava che si doveva restare nel Patto Atlantico.
Comunque la si voglia vedere, è indubbio che il «compromesso storico» nacque sotto il segno della moderazione. Ma l’infamia dell’11 settembre cileno, ad una parte movimentista della sinistra, suggeriva l’opposto di quello che proclamava il Pci: il colpo di stato non metteva forse a nudo la vera natura del dominio borghese e imperialista, pronto ad archiviare la farsa parlamentare e a lordarsi le mani di sangue? Come si poteva credere in un cambiamento affidato al processo democratico, se Allende, arrivato al potere attraverso libere elezioni, era stato estromesso da una giunta assassina, benedetta dall’America di Nixon? Serpeggiava la sindrome del golpe. Anche perché l’Europa non era quella di oggi: in Spagna, in Portogallo, in Grecia, sopravvivevano regimi fascistoidi che mostravano dove avrebbero potuto portare certe tentazioni autoritarie. Dalle pagine di Lotta Continua si lanciavano sottoscrizioni per fornire armi al Mir, il movimento della sinistra rivoluzionaria cilena. Gli slogan nei cortei chiedevano di mettere fuori legge la Dc. Poi qualcuno finì col confondere il Cile di Pinochet con l’Italia. E davvero imbracciò le armi. Ma quella è un’altra storia.
Si diceva «Cile» e si evocavano le stesse vicende, la stessa indignazione, le stesse emozioni. Ma per giungere a conclusioni opposte. In ogni caso, per molti anni ancora, l’11 settembre avrebbe richiamato alla mente «solo» Santiago del Cile, Allende, Pinochet, il golpe. Insomma tutto quello che a molti, anche se non al mondo intero, aveva cambiato la vita.

(il Mattino, 10 settembre 2003)

 

   

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