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I mille giorni di Allende

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Quando il Cile diventò una grande prigione

di GUIDO PICCOLI

«Non è un pezzo della storia degli Stati Uniti del quale possiamo sentirci orgogliosi». Quando, nell’aprile scorso, Colin Powell scandì quella frase riferita al colpo di stato in Cile del 1973, nell’aula Magna dell’Università scoppiò un applauso fragoroso. L’ammissione di colpa del segretario di Stato colse di sorpresa non solo la platea di studenti radunata per parlare della guerra in atto in Iraq, ma soprattutto il Dipartimento di Stato che, poche ore dopo, puntualizzò con un documento ufficiale che Washington «non istigò il golpe che mise fine al governo di Allende». La clamorosa smentita della cosiddetta «colomba» del governo Bush voleva salvare la leggenda della Grande Nazione esportatrice di libertà e democrazia, ma anche l’onore del più famoso predecessore di Powell, e cioé del Nobel per la Pace Henry Kissinger, da più parti accusato di essere stato il grande regista del golpe cileno.
Il presidente socialista Salvador Allende, uomo pacifico e onesto, quel giorno fu costretto ad indossare l’elmetto e ad impugnare quasi goffamente un mitra pur di essere coerente e fedele, fino alle estreme conseguenze, al suo popolo e alla costituzione. Quando si scoprì tradito dai generali che avevano finto di appoggiarlo fino a poche ore prima, Allende si barricò insieme con un manipolo di fedelissimi, nel palazzo presidenziale della Moneda, accettando una battaglia impari contro i carri armati e gli aerei dei golpisti. Consapevole del martirio, rifiutò non solo di arrendersi, ma anche di incitare i cileni alla resistenza armata per evitare un inutile bagno di sangue. Allende era diventato presidente giusto tre anni prima, il 4 settembre 1970, alla testa di un fronte ampio della sinistra marxista e cattolica che lui, per la sua storia personale e la sua formazione politica, poteva unire e rappresentare meglio di qualunque altro. Marxista per convinzione, massone per tradizione familiare, anarchico e libertario per l’influenza di un vecchio amico ebanista, Allende affascinava per la sua dedizione alla causa degli oppressi e per la sua ferrea lealtà ai principi in cui credeva. E per queste stesse ragioni, spaventava i suoi nemici, annidati sia nell’oligarchia cilena e nelle sue formazioni politiche che nei palazzi dell’impero nordamericano. L’ipotesi che il compañero presidente, come amava farsi chiamare Allende, potesse instaurare un secondo regime socialista nel continente, dopo quello cubano, allarmava tanto l’allora governo Nixon quanto le multinazionali che controllavano le ricchezze del sottosuolo cileno.
Era una trama già nota in America Latina. Nel 1888, ad esempio, un altro presidente, Juan Manuel Balmaceda, fu spodestato e costretto al suicidio per avere voluto mettere sotto controllo governativo le immense miniere di nitrato delle regioni settentrionali del paese. Quando al suo quarto tentativo, Allende si insediò nella Moneda, promise di completare il programma, in verità più che altro solo promesso, del suo predecessore, il democristiano Edoardo Frei, basato sulla nazionalizzazione delle miniere del rame, fino ad allora in mano alle multinazionali statunitensi Anaconda e Kennecott, e sulla realizzazione, contro il latifondismo improduttivo, della riforma agraria. Alla determinazione di Allende di trasformare il Cile, i suoi nemici risposero dando vita ad una coordinata azione di ostruzionismo e sabotaggio, impaurendo e mobilitando i ceti medi, organizzando scioperi corporativi, esportando capitali e realizzando quotidiane provocazioni destabilizzanti, complici - alcune volte- i settori più radicali del movimento popolare, che ritenevano troppo moderata l’azione di governo. E soprattutto cercando di conquistare l’esercito, arbitro di ogni paese latinoamericano. Non era un compito facile. Le Forze Armate cilene, tradizionalmente neutrali rispetto alle contese politiche, ubbidivano alla ³dottrina Schneider², dal nome del loro comandante in capo che, proprio nelle elezioni del 1970, si era fatto garante del loro corretto svolgimento. La prima tappa della strategia golpista fu l’eliminazione del generale Schneider per mano di un gruppo di militari fascisti, che vennero spacciati per fanatici isolati, ma che molti accusarono di essere telecomandati dalla Cia. Il seguito richiese soltanto un po’ di pazienza, in attesa della spallata finale, resa possibile dalla fiducia di Salvador Allende nell’onestà del vertice militare capeggiato da Augusto Pinochet. Una fiducia negli uomini e nell’umanità che sfiorava l’ingenuità e che si ritrova anche nell’ultimo saluto ai cileni pronunciato alla radio dalla Moneda, tra il tonfo delle bombe e il crepitio delle mitragliatrici, pochi istanti prima di morire: «Sappiate che, più presto che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali nei quali passerà l’uomo libero per costruire una società migliore».

(il Mattino, 10 settembre 2003)

 

 

   

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