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Il Settantasette

pallanimred.gif (323 byte) Le componenti politiche del Movimento

a cura di Sébastien Croquet

Introduzione

Il movimento del ‘77 fu, tra l’altro, la conclusione di un ciclo di lotte sociali e studentesche, e perciò stesso fu dunque un movimento molto politicizzato. Ogni componente cercò di imporre le proprie rivendicazioni corporative, sociali, senza però che si arrivasse a definire una linea politica o di un’ideologia ben precisa, comune all’intero movimento, e nemmeno a una nuova visione e interpretazione della società.

Conseguentemente e logicamente non si formò nel movimento una salda area politica, come nel 1968, né sul piano qualitativo, con una produzione teorica di grande qualità, né su quello quantitativo. Le varie componenti dell’autonomia operaia furono le uniche formazioni politiche ad entrare in contatto con il movimento di protesta giovanile.

L’autonomia operaia raggruppò diversi collettivi in tutta Italia, che affermarono una netta volontà di autogestione e il rifiuto categorico di delegare il potere, se non a quelli per cui " la pratica è la lotta ". Il ‘77 autonomo venne composto in gran parte da un insieme di figure sociali frustate nelle loro attese e nelle loro aspirazioni, che si riversò nel movimento. Fu l’occasione per i vecchi militanti della sinistra antagonista di tornare alla lotta.

Queste organizzazioni autonome (nella loro forma iniziale : consigli e collettivi autonomi di fabbrica e di quartiere, e assemblee autonome operaie) nacquero principalmente colla scomparsa dei gruppi della Nuova sinistra, in un primo tempo di Potere operaio, poi di Lotta continua.

Via via, le loro attività si allontanarono delle preoccupazioni classiche della classe operaia, per accentrarsi sui problemi di ordine più ampiamente sociale.

Le teorie dei " nuovi bisogni " e dell’ " operaio sociale ", di Toni Negri, succedettero a quella dell’ " operaio massa ", in una sostanziale continuità logica col periodo di lotte sociali della prima metà degli anni settanta.

Queste teorie non sboccarono tuttavia verso progetti e esiti politici, ma rimasero astratte, certo con legami incontestabili con le realtà della crisi sociale e economica, ma con l’impossibilità di poterle applicare in modo pragmatico. L’autonomia non riuscì ad elaborare una sua propria strategia politica e si finì col limitarsi, nel 1977, alla denuncia e all’attacco delle altre formazioni politiche.

Man mano, i metodi di lotta si radicalizzarono verso forme di scontro e di azione basate unicamente sulla violenza.

Però, ricordare del movimento autonomo solo la sua carica violenta sarebbe un errore e un falso storico. Le diverse manifestazioni antinucleari, in seguito dell’accordo sulla costruzione di otto centrali nucleari, che coinvolsero numerosi militanti anarchici, antimilitaristi e varie associazioni ambientaliste, furono rese possibili dall’azione decisiva dei comitati romani.

Nel 1977, coll’esplosione della protesta sociale e studentesca, l’Autonomia, cioè la componente politica del movimento del ‘77, non riuscì a strutturarsi, in un’organizzazione di rilievo nazionale. Non si intrecciarono vincoli tra i vari organi dell’autonomia, anzi si arrivò al movimento del ‘77, con dei dissensi interni abbastanza forti con quello che c’era di precedentemente sedimentato, cioè coll’esperienza dei gruppi della Nuova sinistra.

L’altra novità fu l’opposizione della componente politica maggioritaria del movimento, ai partiti tradizionali della sinistra e alla loro politica, principalmente il Pci, ma anche ai gruppi parlamentari e extraparlmentari della Nuova sinistra.

Si può per questo motivo, oggettivamente affermare, come fecero all’epoca e come fanno ancora oggi i massmedia e gli osservatori politici, che il movimento del ‘77, fu anticomunista?

Ne riparleremo nel capitolo dedicato al dibattito intellettuale che fu scatenato dal movimento di protesta giovanile.

L’autonomia non riuscì comunque ad interpenetrarsi col proletariato e coi movimenti operai, il che ridusse fortemente il suo peso e la portata della sua azione politica.

Rimase ai margini dell’area operaia, non solo politicamente, ideologicamente (per il radicalismo eccessivo delle sue tesi e l’insufficienza nell’elaborazione strategica, teorica e concettuale) e organizzativamente (mancanza di una qualsiasi logica e progettualità di coesione e di intesa organizzativa, tra i numerosi gruppi dell’autonomia, conseguenza dell’autogestione ad oltranza), ma nel contenuto stesso delle loro rivendicazioni, e nelle forme e modalità della loro applicazione.

Lo notò Lucio Castellano: " La storia dell’ "autonomia" è costituita da un arco di esperienze politiche articolate e difformi che si snodano per tutto l’arco degli anni settanta e la cui identità ruota attorno all’idea-forza del "rifiuto del lavoro". Non è soltanto una ideologia dell’emancipazione, ma un modo di lettura della società capitalista, dei suoi protagonisti, del modo di distribuzione del potere in essa, della dinamica del suo sviluppo e della sua fine, che costituisce lo schema di orientamento e il tessuto connettivo egemone che attraversano dieci anni di confronto politico con il movimento operaio organizzato".

L’autonomia controllò pochissimo la situazione. A partire del mese di settembre (dopo il riflusso massiccio provocato dal fallimento del convegno di Bologna), e in modo ancora più evidente, a partire del 2 dicembre (Manifestazione dei metalmeccanici), i vecchi gruppi (soprattutto la nascente Democrazia proletaria (Dp)) ripresero in mano una situazione che sfuggì loro unicamente a Roma.

Come abbiamo visto, appare difficile concepire il movimento autonomo come un’entità propria, con i suoi organi di comunicazione, con delle strutture omologhe che uniscono le varie componenti intorno ad un progetto centrale.

I maggiori poli dell’autonomia operaia organizzata, e di conseguenza della componente politica del movimento del ‘77, si localizzarono a Milano, a Padova, nel Veneto e a Roma.

 

Le componenti politiche autonome del movimento del ‘77 a Roma

A Roma, i " comitati autonomi operai ", i cosiddetti " Volsci ", rappresentarono la parte più importante dell’autonomia. Furono gli eredi delle avanguardie politiche della Nuova sinistra, e del radicalismo politico dell’azione dei militanti romani, e furono caratterizzati dal loro rifiuto categorico della prospettiva delle " governo delle sinistre ", nel 1976, e dalla loro opposizione nei confronti della politica del Pci e dei sindacati confederali negli anni che precedettero il 1977.

La radicalità dei gruppi autonomi romani, favorì lo sviluppo di strutture di una grande rigidità organizzativa, che si identificarono alle tesi tardo-leniniste della lunga scia delle organizzazioni rivoluzionarie. I collettivi romani recuperarono da questa tradizione iniziata nell’ottobre 1917, la sua retorica militaristica (sentimento di appartenenza a un gruppo, linguaggio essenzialmente militare…), manichea (lotta del bene contro il male, visione soggettiva e deformata della società…), e utopista (dittatura del proletariato…), riunendo tutto in un unico calderone ideologico. Ciò impedì una qualsiasi forma di elaborazione teorica, in chiave socialista, di una politica che avrebbe proposto soluzioni realistiche e applicabili per risolvere la crisi sociale e economica. 

Nel 1997, l’ex militante del gruppo degli " 11 ", Piero Bernocchi, è tornato sulle cause e sulle conseguenze della sconfitta programmata, e in qualche sorta annunciata dell’ala politica del movimento del ‘77 : " Ebbe un peso notevole il ruolo politico delle varie componenti dell’Autonomia organizzata, impegnate nella ricerca del movimento, l’impossibilità/inutilità delle alleanze, il disinteresse verso un serio radicamento nelle scuole e in altri settori del lavoro mentale, la mitologia della " grande occasione ", della scintilla che incendia la prateria, la piena accettazione del terreno di scontro imposto dallo stato, l’uso del movimento come arma contundente per scardinare l’accordo Dc-Pci ".

Roma fu, del resto, teatro della violentissima contrapposizione politica, mediatica (tramite le due maggiori emittenti del movimento romano), e spesso fisica (durante le assemblee…), tra da un lato l’ala dura, e dall’altro, l’ala moderata dell’autonomia e le piccole formazioni giovanili vicine alla Nuova sinistra, insomma gli eredi democratico-rivoluzionari del ‘68, come li definì Alberto Asor Rosa.

In questa acerba polemica i " comitati di via dei Volsci " accusarono gli altri gruppi di " centrismo ", di collaborazione con i partiti politici della sinistra, con i sindacati, insomma di rinunciare a un reale orientamento politico antagonistico.

I gruppi dell’area " moderata " condannarono, a loro volta, l’ala dura, per il suo oltranzismo, il suo radicalismo politico nei confronti dello stato, ma anche nei confronti di ogni altra organizzazione autonoma, il suo lassismo e la sua indulgenza nei confronti delle formazioni clandestine e della loro inquietante escalation.

Nel 1977, l’autonomia romana raccolse la consistente e effimera partecipazione e il sostegno di un numero importante di studenti e di simpatizzanti della Nuova sinistra, approfittando della brevissima esperienza dei circoli del proletariato giovanile. Risultò però che il nucleo fortemente politicizzato fu molto ristretto.

La situazione di reclumento e di progressione dell’autonomia durò, in realtà, pochissimo, poiché la stragrande parte dei giovani e dei nuovi militanti decisero, inevitabilmente e logicamente, di disimpegnarsi e di allontanarsi politicamente, di fronte al radicalizzarsi e alla violenza imposta dalla frangia estremistica dei " Via dei Volsci " ( Vicenzo Miliucci, Pifano o Tavani) al resto del movimento.

Sul piano teorico, i comitati autonomi operai, non seppero né teorizzare né spiegare, se non superficialmente, né le ragioni profonde della protesta e della rivolta, né il loro progetto politico per venirne a capo. Questa scarsità teorica e concettuale affonda le sue radici nella forma stessa dell’autonomia romana, il che vale anche per le altre formazioni autonome nel resto dell’Italia.

In effetti l’autonomia romana venne composta solo da una miriade di organizzazioni preoccupate di risolvere dei problemi sociali nei quartieri popolari della città, con obiettivi legati allo sviluppo dei bisogni di massa, tutto ciò senza però che si operasse una reale saldatura tra di loro, con una struttura dirigente incapace di imporre una linea politica che andasse oltre i problemi locali.

Eventi come la " cacciata " di Lama dall’università di Roma, la manifestazione nazionale del movimento il 12 marzo, o l’assassinio dell’agente di sicurezza Passamonti, furono decisivi nello spingere gli autonomi e con loro, il movimento intero verso un totale e irrevocabile isolamento.

Il convegno di Bologna, durante il quale si ripropose l’alternativa politica e dove si tentò una disperata, e forse inutile, ricomposizione fra le diverse frazioni, non cambiò nulla alla situazione.

Dal mese di settembre in poi, più niente impedì l’ineluttabile dissoluzione dell’autonomia organizzata, di cui possiamo datare gli ultimi sussulti alla grande manifestazione del 2 dicembre, che simboleggia per molti la morte effettiva del movimento.

 

Le altre componenti politiche autonome del movimento del ‘77

L’area dell’Autonomia si aggregò intorno ad alcuni poli di rilevanza nazionale. Il più importante e significativo fu costituito dal giornale Rosso, che raccolse le Assemblee Autonome di Milano e nelle quali entrarono anche i colletivi politici padovani già usciti da Potere Operaio.

A Bologna venne formato il collettivo Jacquerie, formato da fuorusciti di Lc, il quale intrecciò stretti legami col collettivo Radio Alice, che venne definita non solo l’emittente dell’autonomia, ma anche dell’intero movimento bolognese.

A Torino, il gruppo Rosso pubblicò il giornale locale Gatto Selvaggio, che si sviluppò nel 1978-1979 con i Collettivi operai FIAT, formati da militanti che parteciparono attivamente al movimento del ’77.

Dal canto loro, i "Comitati comunisti Per il Potere operaio" (costituiti da ex militanti di Lc e Po), pubblicarono il giornale Senza Tregua e furono presenti soprattutto a Milano, Torino, Firenze e Napoli. Nel meridione, i collettivi autonomi del sud (in Calabria, in Basilicata e nella regione di Napoli), raggiunsero il gruppo del giornale Comunismo.

A Milano e a Padova insieme ai gruppi di Rosso, Senza tregua e ai Comitati comunisti rivoluzionari, Oreste Scalzone e Toni Negri (e il suo gruppo, gli "operaisti doc"), furono i veri teorici del movimento autonomo, ma vennero rapidamente neutralizzati dai gruppi della Nuova sinistra, ancora relativamente compatti.

Rimasero solo "intellettuali di movimento", e non seppero mai diventare "dei dirigenti politici". Le loro teorie, forse troppo concettuali e elitiste, non vennero del tutto capite dai militanti di base. Per di più, la violenza che accompagnò la pratica della lotta non fu una particolarità dell’autonomia romana. I gruppi lombardi e del Veneto furono molto più attenti allo sviluppo delle forme organizzative, alla loro militarizzazione, alla programmaticità militare degli obiettivi che assunsero spesso un carrattere " squadristico ", i cui eventi più gravi si produssero durante le " notte di fuoco " a Padova…

Per la natura autonoma dell’ala politica del movimento di contestazione che nacque nel 1977, questo elenco rimarrà fatalmente incompleto. In effetti, si deve avere presente che in quasi ogni città e regione vennero creati (soprattutto a partire del 1976) collettivi, coordinamenti e giornali che si autodefinirono autonomi e che ripresero le tematiche di quest’area, i cui confini furono sfumati e mobili.

Per chiudere questo capitolo e per capire meglio i problemi che si incontrano nel ricostruire la memoria dell’evento, bisogna infine interrogarsi sulla fine che ha fatto questa rabbiosa, violenta e antagonista protesta politica, portata alla ribalta dal movimento del ‘77.

Essa venne da un lato rapidamente repressa e dall’altro assimilata al brigatismo rosso e terroristico dei gruppi clandestini armati. Tale repressione sistematica ebbe per effetto di emarginare i protagonisti della contestazione politica, di isolarli e di scompaginare l’area dell’autonomia.

Ma il risultato perverso di questa manovra fu l’improvviso radicalizzarsi della loro azione, il che svuotò la protesta dal suo contenuto ideologico iniziale, in favore di una lotta cieca contro ogni forma di potere, imperialistico o meno, riflesso e simbolo parossistici e disperati della gravissima crisi ideologica e societaria, che annunciava la fine della forma autonoma di gestione partitica.

Come ricorda Marco Grispigni, coloro che dentro il movimento si opposero all’autonomia, ma che si impegnarono tuttavia politicamente  " ..il futuro non è certamente più glorioso. Sconfitti nel tentativo di riaggregazione elettorale nel 1979 (la lista Nuova sinistra unita non riuscì a ottenere il quorum e non elesse nessun deputato) hanno seguito un percorso marginale, alcuni all’interno di Democrazia proletaria, confluita poi come minoranza dentro Rifondazione comunista, altri volgendosi verso il nascente movimenti dei verdi, dove alcuni partecipanti al movimento hanno raggiunto ruoli dirigenti di rilievo ".

 

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