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Gli Internati nei lager nazisti
di Gianni Oliva
(da G. Oliva, "Appunti per una storia di tutti,
prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale", Consiglio
Regionale del Piemonte, Istituto storico della resistenza in Piemonte ed., Torino 1982,
pp. 2-3 e 5-7).
I 650.000 militari italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre e internati nei
lager nazisti erano una parte del prezzo della guerra Fascista: non il primo e non
l'ultimo, ma certo il più oneroso e drammatico.
La Germania hitleriana non poteva né intendeva consentire al ritiro dell'Italia dalla
guerra, né perdere i vantaggi strategici ed economici derivanti dal controllo della
penisola; e i rapporti di forza nel teatro mediterraneo nell'estate 1943 assicuravano alla
Wehrmacht una netta supremazia nei Balcani e nell'Italia
centro-settentrionale. Le truppe italiane dislocate nella penisola balcanica, nell'Europa
orientale, in Francia erano comunque destinate ad essere sopraffatte dalle forze tedesche,
superiori per armamento, mobilità, appoggio aereo e possibilità di rinforzi. Se il
sacrificio di tanta parte delle forze armate era
inevitabile, il prezzo fu però pagato nel modo peggiore. L'8 settembre il re e Badoglio,
preoccupati soltanto di salvaguardare la continuità della monarchia e del governo
assicurata con la firma dell'armistizio, lasciarono truppe e popolazione senza direttive
chiare dinanzi alla pronta e bene organizzata reazione tedesca. Governanti più
consapevoli della loro responsabilità, nel difficilissimo momento del rovesciamento di
alleanze, avrebbero dovuto assumersi l'onere di ordinare esplicitamente alle truppe di
combattere contro il nuovo nemico, oppure di arrendersi senza spargimenti di sangue là
dove una resistenza era impossibile (come nei Balcani): qualsiasi direttiva sarebbe stata
preferibile alla mancanza di direttive, che, scaricando la scelta della direzione in cui
sparare su anziani ufficiali educati all'obbedienza e non a decisioni politiche di questo
livello, aggiungeva una tragica crisi morale al disastro materiale. Il compito delle forze
tedesche Fu così grandemente facilitato: le truppe italiane furono non solo disarmate e
fatte prigioniere, ma anche umiliate e gli episodi circoscritti di resistenza armata
rapidamente stroncati e duramente pagati (Cefalonia insegna).
Non si conosce con esattezza il numero dei militari italiani catturati dai tedeschi nei
giorni successivi all'8 settembre: confrontando le cifre ufficiali italiane del 1946/47
con quelle tedesche e con dati di singoli reparti, si arriva a un totale, generalmente
accettato come orientativo, di 650.000 uomini. Di questi, 550.000 furono deportati nei
lager di Germania e Polonia e 100.000 trattenuti nei Balcani, in parte in lager veri e
propri, in parte alle dipendenze dirette dei reparti tedeschi.
Questi 650.000 internati militari (come li definirono i tedeschi, negando loro la
qualifica di prigionieri di guerra in quanto sudditi dell'alleata repubblica di Salò)
avrebbero potuto reputarsi traditi dal regime fascista, dalla monarchia, dal governo
Badoglio, dai loro comandanti che non avevano saputo reagire alla crisi dell'armistizio, e
pensare quindi al proprio interesse immediato, venendo a patti con i tedeschi.
Tuttavia, posti dinanzi alla scelta fra una dura prigionia (che per i soldati comportava
il lavoro forzato e per tutti fame e vessazioni) e l'adesione al nazifascismo (che apriva
la via al ritorno a casa e come minimo garantiva un immediato miglioramento delle
condizioni di vita), in grande maggioranza
preferirono la fedeltà alle istituzioni e rivendicarono la loro dignità di uomini con
una tenace resistenza al nazi-fascismo. Scelsero quindi di restare nei lager in condizioni
durissime, che circa 40.000 di loro pagarono con la vita.
[...]
L 'internamento dei soldati
I soldati vissero il trauma della cattura e della deportazione in carri bestiame e
l'impatto con il sistema concentrazionario nazista in modo non diverso dagli ufficiali:
fame, stenti, sistemazioni in baracche inadeguate e affollatissime. Anche a loro fu
offerto l'arruolamento nell'esercito nazista o in quello di Salò, seppure con pressioni
minori (mentre l'adesione degli ufficiali aveva un rilevante valore politico, quella dei
soldati creava piuttosto problemi di inquadramento senza procurare benefici di rilievo sul
piano dell'immagine): come al solito, mancano dati precisi, ma il totale dei volontari non
dovette superare il l0%.
La differenza sostanziale era rappresentata dal lavoro forzato: mentre gli ufficiali
furono costretti a lavorare solo nei termini già indicati, i soldati, sin dall'inizio
della loro prigionia, vennero obbligati ad un lavoro massacrante di dodici ore quotidiane
per sei giorni la settimana. Nel 1943/44 quasi tutti i tedeschi tra i 18 e i 50 anni erano
arruolati nella Wehrmacht o nelle varie organizzazioni naziste militari e paramilitari: la
produzione industriale e agricola nel Reich dipendeva ormai dalla disponibilità di
milioni di braccia straniere, lavoratori civili più o meno volontari, lavoratori coatti
prelevati con la forza generalmente nei paesi slavi, prigionieri di guerra, deportati
politici ed ebrei. Tra questi milioni di lavoratori erano mantenute rigide divisioni e
differenze di trattamento anche notevoli, specie per vitto e disciplina, ma anche i più
fortunati erano privati della libertà individuale e costretti ad un lavoro pesante, con
la costante minaccia di percosse e di punizioni: era un enorme esercito di schiavi,
impiegati quasi
soltanto per la loro forza fisica.
I soldati italiani entrarono a far parte di questo esercito a un livello inferiore
rispetto ai lavoratori civili e superiore rispetto ai deportati politici e razziali.
Quelli che non furono destinati al lavoro nelle fabbriche, vennero impiegati nella
manutenzione delle linee ferroviarie, nei lavori agricoli e forestali, nella
costruzione di fortificazioni, nello sgombero di macerie, nel caricamento e scaricamento
di navi e di treni.
La sorte peggiore fu probabilmente quella dei soldati destinati a lavorare nelle miniere
di carbone in Renania e in Slesia, dove il lavoro era massacrante, il trattamento pessimo
e la disciplina durissima. Un numero imprecisato di soldati conobbe anche gli orrori dei
più tristi campi di deportazione: almeno un
migliaio di internati furono destinati a Dora, sottocampo di Buchenwald, per la
preparazione di installazioni sotterranee e poi per la fabbricazione delle bombe V1 e V2:
si sa inoltre che 1800 detenuti del penitenziario di Peschiera furono inviati a Dachau e
che in gran parte soccombettero.
L'accordo Hitler-Mussolini dell'estate 1944, che trasformò i militari internati in
lavoratori civili, non ebbe ripercussioni particolari tra i soldati. Con ogni
probabilità, in molti lager i tedeschi non si curarono di informare gli internati,
procedendo d'autorità alla loro "civilizzazione", e in altri lo presentarono
come una semplice formalità burocratica: nella sostanza, comunque, nulla cambiava,
perché i soldati avrebbero continuato a lavorare come prima. Va tuttavia sottolineato
che, nonostante le pressioni dell'ambiente, le durezze delle condizioni di vita e
l'oggettiva difficoltà ad organizzarsi per la dispersione nei vari
"Arbeitskommando", il l° gennaio 1945 (secondo fonti tedesche) 69.300 fra
soldati e ufficiali persistevano nel rifiuto di firmare il provvedimento di
"civilizzazione": una forma di resistenza marginale, ma di estremo valore ideale
perché condotta soltanto in nome della propria dignità di uomini e di soldati.
Per quanto riguarda gli ultimi mesi di prigionia, la liberazione, l'attesa del rimpatrio e
infine il ritorno in Italia, le vicende dei soldati furono simili a quelle degli
ufficiali. Sul fronte orientale, la liberazione fu però segnata da brutali massacri da
parte dei tedeschi ormai in rotta: 130 soldati furono impiccati a
Hildesheim il 27 e 28 marzo, una trentina fucilati a Bad Gandersheim in aprile, 150 a
Treunbrietzen il 23 aprile. Valgano questi drammatici episodi come ammonimento a non
dimenticare gli altri eccidi di prigionieri italiani perpretati dai nazisti nei territori
balcanici e orientali, che la memorialistica non può documentare.
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