testataIwar.gif (18855 byte)

www.storiaXXIsecolo.it   

guerra

home

   

      

Il lager di Katzenau

di Alessandro Ferioli

«Il Danubio che tra Linz e Urfahr e poi per buon tratto lungo la collina scorreva verso oriente, piega in un punto bruscamente a destra. Nel cavo della curva giace una landa renosa con rari cespugli e con una cortina di pioppi e salici che nascondevano le rive del Danubio. Su di questa landa sorgeva il nostro accampamento che consta di baraccamenti che già servirono per la cavalleria. Le baracche abitate da noi sono precisamente le scuderie. Attorno al campo c’è un reticolato, lungo il quale, al di fuori, le sentinelle vanno su e giù…» (i).
Quando si parla di campi di concentramento, la memoria corre istintivamente agli orrori dei lager nazisti e dei gulag sovietici, immortalati nelle pagine dei Primo Levi e dei Solženycin, e tenuti vivi dal ricordo dei reduci che ancora oggi non finiscono di stupirci con i loro racconti. Così si finisce spesso per dimenticare (o addirittura ignorare) che nel corso della prima guerra mondiale una considerevole parte della popolazione civile del nord-est fu deportata dal governo austriaco in campi di internamento dislocati nelle regioni più lontane dell’Impero, soffrendo privazioni e umiliazioni indicibili.

«POLITICAMENTE MALFIDI»
Già il 31 luglio 1914 (ovvero dopo soli tre giorni dalla dichiarazione di guerra dell’Impero Austro-Ungarico nei confronti della Serbia) tutti i sudditi dell’Imperatore di età compresa fra i ventuno e i quarantadue anni furono mobilitati. Tra questi vi erano anche molti trentini, abitanti del Tirolo italiano, che vennero impiegati per lo più nei reggimenti Kaiserjäger e Landesschützen in Galizia, dove – sin dalla battaglia di Leopoli nel settembre ’14 - morirono a migliaia facendosi onore sotto le bandiere austriache. Nonostante tali indubbie attestazioni di fedeltà, l’autorità militare imperiale non seppe tuttavia mai nutrire molta fiducia nei confronti della popolazione trentina, troppo sovente sospettata di nutrire quei sentimenti filo-italiani che in effetti appartenevano soltanto a una piccola parte di essa. Era infatti difficile dimenticare quei circa 700 trentini (come Cesare Battisti) che allo scoppio del conflitto non avevano risposto alla chiamata alle armi fuggendo in Italia, evidentemente allo scopo di arruolarsi nel Regio Esercito quando il nostro Paese fosse entrato in guerra.
Nei primi mesi del 1915, a mano a mano che le possibilità di coinvolgimento dell’Italia nella guerra al fianco degli imperi centrali si affievolivano sempre di più, e maggiormente si faceva strada nell’opinione generale l’idea di una sua imminente entrata in guerra contro l’Austria, le autorità militari austriache approntarono un piano di evacuazione del Tirolo meridionale (che in una tale evenienza sarebbe divenuto uno tra i più caldi fronti di guerra) a partire dalle regioni di confine. Tale progetto rispondeva ovviamente a due necessità: innanzitutto quella di garantire l’incolumità della popolazione civile, che sarebbe stata trasferita nelle regioni più interne dell’Impero (cosa che si rendeva necessaria anche in conseguenza della decisione di arretrare il fronte trentino-tirolese di 100 km dalla linea di confine); e in secondo luogo quella di salvaguardare la zona dall’attività clandestina di spionaggio e sabotaggio che la minoranza filo-italiana (cioè irredentista) avrebbe potuto avviare per agevolare le truppe italiane, proprio nel momento in cui gli austriaci erano impegnati in un grande sforzo per la costruzione di opere difensive.
Ciò che è importante notare è che i responsabili militari austriaci faticavano a distinguere serenamente le due tipologie di sudditi, quella irredentista e quella fedele all’Impero, tendendo anzi a confonderle pericolosamente, sino al punto da ritenere sostanzialmente inaffidabili tutti i trentini. A conferma di ciò sono sufficienti i racconti strazianti dei profughi civili, fatti salire su carri bestiame sotto l’occhio vigile dei soldati e instradati a Innsbruck, da dove avrebbero poi proseguito il loro lungo viaggio alla volta dei paesini più sperduti della Boemia, della Moravia e della regione salisburghese, per trovarvi alfine sistemazione nelle famigerate “città di legno”. E pure il disinteresse – quasi ostentato – con cui le autorità disperdevano gli appartenenti a uno stesso paese (non di rado a una medesima famiglia) in luoghi a grande distanza fra loro; gli alloggi di fortuna nei quali i profughi venivano ricoverati, nella più completa indifferenza delle istituzioni locali, alle quali sarebbe invece dovuta stare un po’ a cuore la sorte di quei sudditi imperiali; e infine l’accoglienza – sospettosa, guardinga – delle popolazioni dei luoghi di destinazione: tutto lasciava intendere che in quei terribili mesi seguiti all’inizio delle ostilità con il nostro Paese il solo parlare la lingua italiana costituisse una cattiva presentazione.
Altri sudditi, invece, per la loro attività a favore della causa dell’irredentismo, ancor prima dell’entrata dell’Italia in guerra (per lo meno dal 20 maggio) erano stati incarcerati nelle prigioni ordinarie e poi internati nel campo di Katzenau, a nord-ovest di Linz nell’alta Austria, in prossimità del Danubio: si trattava di trentini, friulani, istriani e dalmati, appartenenti a tutte le classi sociali, con una buona presenza – specialmente per quanto riguarda i trentini – di intellettuali (professori, studenti, liberi professionisti), funzionari, sacerdoti, grossi commercianti, e persino di quei deputati che in parlamento e nella loro attività avevano espresso istanze autonomistiche. Questi attivisti risultavano in buona parte già da tempo schedati dalla polizia austriaca come «P.U.» (Politisch Unverlässlich: inaffidabili politicamente), e specialmente nei giorni caldi del “maggio radioso” vennero sistematicamente prelevati dalle loro case, spesso con espedienti meschini che nulla lasciavano trasparire di un arresto di polizia, e poi processati sommariamente. In quella delirante caccia alle streghe, accanto agli irredentisti noti finirono nella rete della polizia austro-ungarica anche persone di tendenze più moderate, “colpevoli” magari soltanto di apprezzare la musica italiana, o di essere iscritti a certe associazioni culturali e sportive (specialmente la Dante Alighieri, la Lega Nazionale e la Società Alpinisti Tridentini), o di svolgere iniziative umanitarie non ben decifrabili agli occhi del governo, o infine di avere occasionalmente contestato l’operato delle autorità locali. Nondimeno, si ha l’impressione che l’accusa di attività irredentistica colpisse pure coloro che nel corso del conflitto avessero prima o poi mostrato insofferenza o malumore verso la guerra (i disfattisti insomma).

LA «CITTA' DI LEGNO»
Poche popolazioni, al termine della Grande Guerra, risultarono colpite così fortemente quanto quella trentina. Al dramma della lontananza degli uomini inviati al fronte si aggiungeva quello delle famiglie profughe, deportate nei luoghi più lontani dell’impero, dove coloro che parlavano soltanto italiano non potevano neppure intendersi con la gente del luogo. Intanto le case rimanevano deserte, i campi abbandonati alla rovina, le chiese desolate, e la corrispondenza dei civili con gli uomini in prima linea diveniva spesso impossibile, cosicché questi ultimi faticavano sempre più anche a trovare nei propri paesi d’origine quel punto di riferimento che ogni combattente sogna e desidera.
Quando giunsero a Katzenau, i deportati si trovarono di fronte a un campo di internamento che si espandeva per circa 400 metri in lunghezza e 300 in larghezza, con all’interno una lunga distesa di una trentina di baracche di legno (alle quali se ne sarebbero aggiunte presto altrettante), recintato tutt’attorno con ferro spinato e sorvegliato da militari armati. Sotto ai piedi, una terra sottile e arida, dovuta alle frequenti alluvioni, che ad ogni passo si alzava in un polverone soffocante, e che alle prime piogge si sarebbe trasformata in uno strato di fango alto mezzo metro: non casualmente Katzenau significa «brughiera dei gatti».
Le prime «città di legno» - come vennero chiamate – erano state costruite dal governo per offrire un iniziale alloggio d’emergenza ai primi profughi di guerra, ovvero i galiziani e i polacchi fuggiti dalle loro terre a causa dell’avanzata dell’esercito russo; poi divennero una soluzione stabile anche per i profughi dal Tirolo. Fino a qualche tempo prima, nelle baracche di Katzenau erano stati alloggiati prigionieri russi, in gran parte falcidiati dal tifo esantematico. I deportati ne erano perfettamente a conoscenza, e il pensiero di doversi accalcare in quei tuguri che non erano neppure stati ripuliti alla bell’e meglio, e ancora recavano il sudiciume lasciato dai precedenti abitanti, dovette fare sorgere in molti di essi il sospetto che le autorità di polizia confidassero proprio in quella fortuita combinazione di malattia, sporcizia e denutrizione per liberarsi dei loro sudditi meno fedeli (ii) . All’interno di ciascuna baracca potevano alloggiare centinaia di persone, suddivise in aree delimitate e completamente sguarnite, al principio prive di letti, paglia e coperte. Come riferiscono numerosi testimoni, per riferirsi al campo ben presto si prese ad utilizzare una parola tedesca che ancora oggi suona sinistramente nelle nostre orecchie: lager.
L’organizzazione del campo era affidata al barone von Reicher, un ex ufficiale di fanteria transitato nei ruoli dei funzionari civili. Detestato dagli internati – che amavano mettere in ridicolo (forse con eccessivo sarcasmo) la sua mania di grandezza -, il barone si era fatto approntare una residenza, vigilata sulla porta d’accesso da guardie d’onore, dove riceveva i prigionieri più inclini alla collaborazione che a scadenza periodica gli consegnavano le loro delazioni, le confidenze, ricevendone in cambio ordini e norme di comportamento che essi avrebbero dovuto comunicare e rendere accette ai compagni di prigionia. Della sorveglianza era incaricato un battaglione di 800 uomini, dei circa 740 non erano utilizzabili in quanto convalescenti.
La disciplina era garantita da sanzioni costituite da ammende in danaro (generalmente di venti corone), fustigazioni e arresto di rigore nella baracca di disciplina – la n. 26 - a pane e acqua. Per quanto concerne il vitto, l’Impero destinava ufficialmente una corona al giorno per il sostentamento degli internati, ma bisogna calcolare che della somma complessiva una certa parte si perdeva di mano in mano a causa delle consuete ruberie. Così, dopo file interminabili, i deportati potevano finalmente conquistare una tazza di caffè cattivo la mattina, una mezza gavetta di riso o orzo a pranzo, minestra o altro caffè la sera. Gli internati – i quali per la loro estrazione sociale e per le loro abituali occupazioni professionali avevano ottime capacità organizzative – proposero al barone di girare direttamente a loro i finanziamenti, coi quali essi avrebbero gestito autonomamente le attività del campo: ed egli (a conferma, forse, del fatto che non fosse quell’aguzzino che la memorialistica dipinse) creò allora una sorta di comitato di gestione, attraverso il quale gli internati istituirono servizi regolari di cucina, di assistenza medico-sanitaria e di pulizia (con quei disinfettanti il cui odore sarebbe rimasto per tutta la vita nelle narici dei deportati), aprirono negozi di vestiario e di alimentari, organizzarono conferenze, corsi di lingue (tedesco, ma anche francese, inglese ed esperanto), cori musicali e persino una messa in scena della Traviata. L’organizzazione dei servizi del campo era tale che alla fine dell’estate del 1915, mentre ancora il governo stata costruendo il campo di Braunau presso Inn (destinato ai deportati non sospetti), il Comitato Profughi di Vienna inviò in visita a Katzenau un proprio delegato – il dott. Alcide De Gasperi – proprio per osservarne attentamente il sistema logistico: l’esito fu poi che alcuni profughi vennero mandati a fare 8-10 giorni di pratica (o, come diremmo oggi, di stage) nel campo dei “politicamente sospetti”, rimanendo particolarmente colpiti dal buon livello del menù giornaliero (iii).
Resta il fatto che a Katzenau, dove mancavano del tutto zone d’ombra, il calore provocava danni ingenti soprattutto ai bambini (molti dei quali avevano meno di un anno), e il cibo quotidiano degli appartenenti alle classi più basse continuava ad essere tutt’altro che adeguato. I vecchi morivano di sfinimento, e cominciarono a registrarsi con relativa frequenza anche casi di depressione e di follia (per quanto quest’ultima venisse talvolta simulata, per sfuggire all’arruolamento coatto nelle compagnie di disciplina dell’esercito). La vita al campo era fatta di partite a carte, di letture, di discussioni politiche sulla guerra e sul futuro assetto delle regioni “irredente”. Non mancava ovviamente quel fattore che ha segnato nel profondo dell’animo gli internati di tutti i tempi, ovvero la nostalgia della propria casa e della propria famiglia, e che è il leit-motiv di pressoché tutte le cartoline che il patriota Giovanni Grotti scriveva dalla baracca n. 47 ai propri cari rimasti a Trento: «Sono sempre in ansiosa attesa di notizie riguardanti la mia famiglia. Le giornate passano tutte eguali, il tempo è sempre nebbioso e nuvoloso; quando anche non piove. Il tempo si passa in baracca» (16 ottobre 1916). Poi, in una cartolina di due giorni dopo: «non capisco come stiano le cose colla mia famiglia e sono sempre in aspettativa ansiosa di sempre qualche cosa di sicuro e di tranquillante […]». E ancora, qualche mese più tardi: «Spero che a quest’ora sul mio conto sarete tranquilli. Io invece non lo posso essere mai. Notte e dì vedo Amalia, le mie piccine, vedo voi ed il mio vecchietto e tutti o nelle loro occupazioni, o giuochi ed il papà pensieroso a letto collo sguardo vivo ancora ma col cuore stretto e questo mi fa male» (26 marzo 1917) (iv).
La storia degli internati politici di Katzenau termina con il decreto di amnistia emanato il 2 luglio 1917 dall’Imperatore Carlo I, dopo la morte del prozio Francesco Giuseppe, quando oramai le sorti della guerra già erano scritte a chiare lettere. Gli internati, in conseguenza di ciò, vennero colpiti da provvedimento di confino o di esilio sempre nelle località dell’Austria superiore, e tale nuova condizione di vita (che garantiva sicuramente maggiore “libertà”, pur nella precarietà economica) durò sino al settembre successivo, quando le autorità locali cominciarono ad annullare progressivamente ogni misura restrittiva. Il campo, a partire dal novembre 1917 venne ripopolato da donne, bambini, vecchi e prigionieri provenienti dalle regioni occupate del Veneto e del Friuli. Gli internati a Katzenau furono complessivamente all’incirca 3000: i soli trentini almeno 1754, e di essi 353 non fecero mai più ritorno alle loro case; una quarantina furono invece i ladini, tutti provenienti da Fassa, Moena e dall’Ampezzano, ovvero da quei paesi nei quali, a causa della vicinanza all’Italia, si era sviluppata – peraltro con scarso seguito - la Lega Nazionale irredentistica. Non per questo poteva però dirsi terminata l’azione politica e morale degli irredentisti.

L'OPERA DEGLI IRREDENTISTI
Oggi per gli storici è incontrovertibile il fatto che buona parte della popolazione trentina fosse rimasta a lungo indifferente di fronte all’eventualità di un’annessione al Regno d’Italia, e che una certa parte anzi non avesse proprio affatto cari gli italiani, al punto da considerarli per l’intera durata del conflitto nemici e invasori della loro amata terra, alla quale peraltro molti fecero ritorno controvoglia una volta che essa fu occupata dalle nostre truppe. Tutto ciò è stato considerato per troppi anni come inopportuno da raccontare e difficile da motivare, soprattutto perché contrastante con quell’immagine unitaria del sentimento delle genti del nord-est che le esigenze della propaganda imponevano. La Grande Guerra insomma rappresentava per noi italiani l’ultimo atto del nostro glorioso Risorgimento, e come tale richiedeva che alla sua base vi fosse un consenso unanime, incondizionato, senza alcuna riserva. Pertanto queste vicende sono state per lungo tempo mantenute in ombra dalla storiografia, vuoi perché le narrazioni che si susseguirono dall’immediato dopoguerra hanno offerto un’immagine dei popoli irredenti come unitariamente filo-italiani, pervasi da una robusta coscienza nazionale (e ciò anche per agevolarne nell’immediato l’integrazione – non facile, e per molti dolorosa - nel Regno d’Italia), vuoi per il fatto che l’attenzione intorno ai racconti di guerra ha sempre privilegiato gli episodi legati al combattimento in battaglia e ai gesti eroici, cosicché dovette risultare poco spendibile quella «resistenza» all’austriaco caparbiamente e tenacemente messa in atto dagli irredentisti più consapevoli, con quella coerenza e quella lucidità di pensiero che appartiene ai patrioti più grandi.
Sono stati invece alcuni studi pionieristici di grande valore a portare alla luce oltre alle vicende anche i sentimenti dei profughi trentini, riletti approfonditi e scoperti soprattutto attraverso la raccolta di diari e corrispondenza varia, con l’opportuna integrazione delle testimonianze orali dei protagonisti. La «novità» di questo orientamento degli studi fu dovuta probabilmente anche alla particolare situazione in cui venne realizzato il saggio capofila, La città di legno, a cura di D. Leoni e C. Zadra, che nasceva difatti da un progetto didattico attuato nei corsi per lavoratori di Rovereto (le 150 ore), e che aveva coinvolto gli alunni in una ricerca mirata a ricostruire la storia unica e irripetibile di un popolo, patrimonio comune da tutti accettato e condiviso.
La restituzione alla storia di una situazione più aderente alla realtà va ancor più ad onore di quegli irredentisti che durante la prigionia seppero mantenere sempre vivo l’amore per l’Italia, cercando di propagarlo e diffonderlo fra i loro connazionali come una malattia contagiosa, attraverso il ricordo continuo dell’esempio di chi – come Cesare Battisti – aveva dato la propria vita per la causa italiana, ma anche con l’improvvisazione (non priva di pericoli) di canti italiani o di manifestazioni patriottiche nelle quali immancabilmente faceva capolino il tricolore, e costituendo insomma sempre una presenza viva e irriducibile di «italianità». Per non dire dell’opera svolta dopo il quattro novembre, allorquando questi patrioti, anziché allentare moltiplicarono la loro azione, facendosi sempre valido tramite fra le autorità italiane e la popolazione trentina, così che quest’ultima acquisisse una maggiore fiducia nello stato italiano, e considerasse gli italiani come fratelli.
Oggi del campo di Katzenau non resta più nulla, e l’area dove sorgeva la «città di legno» è ricoperta da strade, giardini, e da un centro culturale. Ma il ricordo dell’odissea vissuta dalla popolazione trentina nei campi d’internamento viene mantenuto vivo da pochi volenterosi, tra cui spicca - sia per la ricerca storica che per la laboriosità organizzativa - Mario Eichta, il quale anche recentemente (maggio 2001) è stato promotore di una cerimonia internazionale tenutasi nel cimitero comunale di S. Barbara a Linz - dove tuttora riposano gli internati deceduti - per onorare con una targa queste vittime della guerra che non ebbero mai sepoltura nella propria patria. Una costruzione europea sotto il segno della pace e del rispetto reciproco fra i popoli passa anche attraverso quella targa.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

SAGGI: Commissione dell’emigrazione trentina di Milano, Il martirio del Trentino, Trento 1921; G. CHIESA, Contributo alla storia di Katzenau, 1921; D. LEONI, C. ZADRA, La città di legno . profughi trentini in Austria 1915-1918, Trento, rist. 1995; M. EICHTA, Braunau – Katzenau – Mitterndorf 1915-1918, Cremona 2000; L. PALLA, Il Trentino orientale e la grande guerra, Trento 1994; E. UNTERVEGER, Katzenau, Catalogo della Mostra alla sala della Tromba di Trento, Trento 1980.

MEMORIALISTICA: B. APOLLONI, Ricordando Katzenau, in «Judicaria», n. 38/1988; R. JORIS, Katzenau, Trento 1929.

Note: (i) JORIS, Katzenau cit.
(ii) La tentazione (che ha già allettato qualcuno) di attribuire questa circostanza a un’intenzione di pulizia etnica è molto forte. Io penso invece che più verosimilmente le condizioni igieniche iniziali del campo fossero da attribuire a quella disorganizzazione che emerge così spesso dalle testimonianze.
(iii) La circolare è riprodotta in LEONI-ZADRA, p. 77. E’ da rilevare che le fonti non sono affatto concordi nei giudizi sull’alimentazione al campo, forse anche perché quella situazione che ai benestanti trentini internati appariva insopportabile (e rimaneva sconosciuta alle loro famiglie), divenne presto invece la norma tra gli strati più umili della popolazione anche al di fuori del campo. Così si spiegherebbe la divergenza di vedute fra la memorialistica degli internati da un lato, e i giudizi delle autorità austriache e dei rappresentanti dei paesi neutrali dall’altro.
(iv) Testi inediti dall’archivio dell’autore.

(dal sito dell'Istituto superiore Giacomo Leopardi di Bologna)

info.gif (232 byte) per approfondire:

pallanimred.gif (323 byte) Testimonianza su Katzenau (1915-17): Romano Joris (sito dell'Istituto G. Leopardi di Bologna)

pallanimred.gif (323 byte) Testimonianza su Katzenau: d. Baldassare Apolloni (sito dell'Istituto G. Leopardi di Bologna)

pallanimred.gif (323 byte) Da Katzenau a Eferding (G. Chini) (sito dell'Istituto G. Leopardi di Bologna)

 

 


 

 

 

 

 

I guerra m.
ricerca
anpi
scrivici
home
home         ricerca        

anpi

        

I guerra m.

        scrivici

 

.