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Prima dei lager: gli Einsatzgruppen

a cura di Aldo Pavia e Antonella Tiburzi

 

pallanimred.gif (323 byte) LE "IMPRESE" DEGLI EINSATZGRUPPEN

Il 26 marzo 1941, Heydrich e il generale Wagner concordarono che gli Einsatzgruppen “erano autorizzati, entro i limiti della missione, ad attuare sotto la propria responsabilità misure esecutive riguardanti la popolazione civile”. Sulla base di questo accordo, le SS assumevano il pieno potere di disporre delle popolazioni dei paesi occupati.

“Compiti speciali” e “misure esecutive” erano due eufemismi, due mascherature per non chiamare con il loro nome le stragi.

Almeno inizialmente i componenti degli Einsatzgruppen non ricevettero ordini relativi a operazioni di sterminio degli ebrei. La priorità era data alla lotta contro i bolscevichi, poiché la guerra all’Unione Sovietica non si configurava come uno scontro tra due popoli, bensì come cruenta battaglia di una ideologia contro un’altra.

Tuttavia poiché gli ebrei sicuramente avrebbero dato appoggio e sostegno ai partigiani, sarebbe stato opportuno prendere tutte le misure possibili nei loro confronti.

Heydrich diede ordini precisi su chi eliminare: “Tutti gli ufficiali del Comintern, gli ufficiali di alto e medio rango e gli estremisti del partito (comunista), del Comitato centrale e dei comitati provinciali e distrettuali; i commissari del popolo; gli ebrei al servizio del partito o del governo e altri elementi estremisti, quali sabotatori, propagandisti, cecchini, assassini,agitatori e così via”. Queste categorie erano destinate alla più radicale eliminazione, in quanto oppositrici e nemiche del Reich.

Particolari attenzioni dovevano essere rivolte ai commissari politici comunisti. Furono così emanate “le direttive sui commissari”, definiti “portatori della visione giudeo-bolscevica del mondo” e “promotori di barbarici metodi di combattimento”.

Per conseguire al più presto gli obiettivi stabiliti, si raccomandò anche agli Einsatzgruppen di favorire ed appoggiare – seppure con discrezione – “le eventuali epurazioni avviate nei territori appena occupati da elementi anticomunisti o antisemiti”. Evitando accuratamente di interferire.

 

Il 22 giugno, una domenica, nelle prime ore del mattino, la Wehrmacht attaccò l’Unione Sovietica, dando inizio all’ “Operazione Barbarossa” ed a una guerra che avrebbe distrutto quaranta milioni di vite umane.

L’esercito tedesco attaccò a oriente, occupando velocemente i territori polacchi, ceduti alla Russia in base allo scellerato accordo Ribbentrop – Molotov. A Byalistock le truppe naziste furono accolte come liberatrici, con felicità. Certamente la popolazione non poteva aspettarsi ciò che, in seguito, avrebbe dovuto sopportare e patire.

Dopo pochi giorni arrivarono gli Einsatzgruppen.

Si diressero alla volta del porto di Riga, in Lettonia e di Kaunas e Vilnius in Lituania. Verso Minsk in Bielorussia, verso Rovno, L’vov, Ternopol in Ucraina.

Il 23 giugno i primi reparti della Wehramcht entrarono a Kaunas, e con loro una avanguardia dell’Einsatzgruppe A, impegnatasi subito a organizzare “aggressioni spontanee” contro gli ebrei.

Kaunas (chiamata anche Kovno) contava tra i suoi 120.000 abitanti, circa 35.000 ebrei. Un paio di giorni dopo l’occupazione della città, i tedeschi ebbero modo di assistere al primo pogrom contro gli ebrei.

Un panettiere della Wehrmacht, informato che in una piazza venivano uccisi gli ebrei, si recò sul posto e vide “dei civili, alcuni in maniche di camicia […]armati di sbarre di ferro percuotevano a morte altri civili.” Gli fu detto che erano ebrei e altri militari tedeschi gli dissero che si trattava di vendette personali.

Vide grandi pozzanghere di sangue, uccidere un gruppo di persone in modo crudele e brutale. Molti civili lituani assistevano e lanciavano grida di approvazione e di incitamento. Una scena identica ebbe a ripetersi il 27 giugno 1941. Questa volta all’orrore assistevano anche donne e bambini, i più piccoli sollevati in alto dalle madri perché potessero vedere meglio. All’opera era il “massacratore di Kovno” e ai suoi piedi giacevano circa venti morti, massacrati con un randello di legno, grosso quanto il braccio di un uomo. Il “massacratore” aveva eliminato in poco meno di un’ora, e in quel modo barbaro, un gruppo di quarantacinque, cinquanta persone. Dopo la strage, si sedette sul mucchio dei cadaveri e, presa una fisarmonica, suonò l’inno nazionale.

A pochi passi da lui, un ufficiale delle SS guardava indifferente, pronto ad intervenire duramente solo contro un fotografo militare che cercava di fotografare la scena del massacro.

I tedeschi non erano solo interessatamente indifferenti.  Un lituano non ebreo, in quei primi giorni di occupazione, li vide partecipare ad azioni estremamente violente contro gli ebrei, spalleggiando civili lituani, percotendoli con le canne dei fucili, con badili, bastoni e sbarre di ferro. Organizzando intanto, come da ordini del comandante dell’Einsatzgruppe A, formazioni di irregolari lituani. Inquadrandoli in una “forza di polizia ausiliaria” formata da 600 elementi fidati e comandata da Algirdas Klimatis, un giornalista. Altri 200 furono posti agli ordini del dottor Zigonys.

La notte del 25 giugno 1941, gli ausiliari con delle granate assaltarono le sinagoghe di Kaunas e incendiarono sessanta case del quartiere ebraico. In quella notte vennero assassinati 1.500 ebrei. Altri 2.300 nelle notti successive. Il Sonderkommando 1b, in un rapporto inviato a Berlino, affermava che erano state eliminate, in quei giorni, alcune migliaia di ebrei. Arrestati e fucilati perché avevano sparato contro le truppe tedesche. Nulla di più falso: gli ebrei non possedevano armi e in quei giorni non vi erano nei luoghi abitati a Kaunas dagli ebrei, soldati tedeschi.

Il 28 giugno, un sabato, molti ebrei furono picchiati e costretti a ballare, sotto gli occhi della popolazione festante e dei tedeschi che, ovviamente non mossero un dito.

Poi, uomini, donne e bambini vennero presi e portati in un luogo dove era più facile nascondere la strage che li avrebbe visti vittime.

Sulle colline che guardano Kaunas, vi era una serie di fortificazioni, costruite dagli Zar, precedentemente alla prima guerra mondiale. Erano poi stati adibiti a magazzini ed anche a prigioni. Mantenendo sempre la denominazione di “forti”.

I maschi ebrei vennero rinchiusi nel Settimo Forte, spinti a colpi di fucile e con urli e imprecazioni sempre più violente, sotto la minaccia dei mitragliatori degli ausiliari lituani. Chi si muoveva o cercava di parlare, chi si avvicinava al pozzo artesiano in cerca di un poco d’acqua, veniva subito colpito dal fuoco delle armi automatiche. Solo dopo un disperato tentativo di ribellione, spentosi nel sangue, le guardie diedero ai sopravvissuti un poco di pane e di acqua. Poi furono tutti fucilati.

Le donne e i bambini, che erano stati rinchiusi in alcuni sotterranei del forte, il 4 luglio furono liberati. Lacere, insanguinate, le donne facevano sforzi immani per stare in piedi. La libertà durò ben poco. Come si avvicinarono ai cancelli per uscire, le guardie aprirono il fuoco.

Questo fu l’inizio dell’annientamento degli ebrei di Kaunas.

Certamente la collaborazione di molti lituani fu spontanea ed, in alcuni casi entusiastica, ma in verità il tutto fu attentamente organizzato dall’Einsatzgruppe A, come da confessione del suo comandante nel processo tenutosi nel dopoguerra.

Intanto, nella Polonia orientale, il 3 luglio ad Augustovo furono uccisi 316 ebrei, tra i quali dieci donne, mentre a Grodno furono assassinati i leader della locale Comunità.

L’8 luglio Himmler si recò a Bialystok, nella Polonia nordorientale, dove qualche giorno prima il battaglione della polizia d’ordine 309 aveva imprigionato nella sinagoga 700 ebrei, incendiandola e con essa bruciando anche le persone rinchiuse. E dove, contemporaneamente l’Einsatzkommando 9 aveva eseguito fucilazioni di massa, mentre il battaglione di polizia 322 aveva saccheggiato abitazioni e negozi degli ebrei, rubando beni per il trasporto dei quali erano stati necessari venti camion. Non sottraendosi dalla fucilazione di 21 uomini e di una donna, accusati di essere “saccheggiatori, fuggiaschi e quasi tutti ebrei”. Nonché di essersi rifiutati di dichiararsi “sciacalli”.

Himmler volle visitare i magazzini in cui erano stati stipati i beni razziati, dichiarandosi poi insoddisfatto del numero degli ebrei uccisi, ordinando l’immediato assassinio di quelli ancora in vita. Mentre era a cena con Bach-Zelwski, capo della polizia e con il tenente colonnello Max Monta, i battaglioni fecero 1.000 vittime.

L’11 luglio, dopo una riunione segreta tra i protagonisti della cena, fu emanato un ordine che intimava che “tutti gli ebrei maschi di età compresa trai 17 e i 45 anni condannati per razzia dovranno essere immediatamente fucilati”. All’essere fiancheggiatori dei partigiani, all’essere sabotatori, all’aver tentato la fuga, all’essere tout court ebrei, ora si aggiungeva un nuovo motivo per essere uccisi: essere razziatori. Accusa che in realtà serviva per fomentare ulteriore odio, se mai fosse stato necessario, nella popolazione non ebrea. Disponendola così alla più completa collaborazione.

Himmler proibiva inoltre che le fucilazioni, ormai divenute sempre più di massa, avessero luogo in piazze cittadine e tra folle plaudenti. Tassativamente dovevano essere effettuate lontano dalle città, dalle vie di maggior traffico. Le fosse comuni andavano ben livellate, rendendole irriconoscibili e impossibili da raggiungere. Proibite assolutamente le riprese fotografiche e presenze di spettatori. Altrettanto proibito rendere noti i luoghi delle fucilazioni e delle fosse.

Himmler, da buon capo delle SS, si preoccupò anche dei suoi eccellenti assassini, ordinando ai comandanti di avere quanta più cura possibile dei loro uomini, fornendo soprattutto un sostegno spirituale. Quanto di negativo dovevano sopportare durante il giorno, doveva trovare ristoro in eventi appositamente organizzati nella serata. Non trascurando mai, tuttavia, di spiegare loro le ragioni politiche delle misure che erano tenuti ad applicare.

Il Sonderkommando 7 avanzò a sua volta fino a Vilnius, in Lituania, mentre l’Einsatzkommando 9 andò a sud, verso Minsk ove giunse il 4 luglio 1941. Lì ricevette l’ordine di condurre subito un’azione di rappresaglia contro gli ebrei, rei di aver incendiato le loro case, piuttosto che lasciarle cadere nelle mani dei nazisti o ai bielorussi colpiti dai bombardamenti. Sotto il comando del tenete SS, Voltis, l’azione ebbe luogo e circa 60 ebrei furono assassinati nel giro di un’ora o poco più.

Anche A Vilnius i massacri cominciarono ne luglio, più esattamente il 2 luglio, all’arrivo del Einsatzkommando 9. Precedute da azioni di rastrellamento e da arresti, iò 4 luglio furono liquidati 54 ebrei, seguiti da altri 93 il 5 luglio. Come luogo dello sterminio l’Einsatzkommando scelse una località chiamata Ponary, a otto chilometri da Vilnius, abbastanza vicina alla ferrovia. Nella locale foresta si trovavano due grandi scavi di venti metri di diametro, circondati da un fossato profondo sette metri, nonché altri di dimensioni più ridotte. Fu questa la “grande tomba” degli ebrei di Vilnius.

Quando ebbero inizio le fucilazioni di massa, testimoni oculari videro colonne di circa 400 prigionieri per volta incamminarsi verso Ponary, sorvegliati da civili con una fascai al braccio e armati di carabina. Le vittime, inizialmente solo maschi, portavano con sé valigette, pacchetti, fagotti.

Una volta arrivati alle fosse, gli ausiliari lituani li obbligavano, a suon di bastonate, a scendere nel fossato. Poi, a gruppi di dieci per volta, incappucciati, li mettevano in fila fuori dal fossato e li portavano, in fila indiana, l’uno aggrappato all’altro davanti a lui, davanti alla “grande tomba”.

Lì giunti, entrava in funzione una mitragliatrice e le vittime, morte o ferite, sotto l’impatto dei colpi, cadevano nello scavo. Una guardia, armata di pistola, sparava alla nuca di quelli che ancora davano segni di vita. In questo modo, in un quarto d’ora, venivano eliminati da quaranta a cinquanta ebrei.

Se per i nazisti, trecento o quattrocento ebrei erano trecento nemici dell’umanità, per i lituani equivalevano a trecento, quattrocento pantaloni, a altrettante paia di stivali.

Una collaborazione, quindi, quella dei lituani, molto interessata.

L’8 luglio furono 321 gli ebrei eliminati, come comunicato a Berlino dal comandante dell’Einsatzgruppe A. Che informò con l’occasione l’inizio di un programma giornaliero di eliminazione di 500 ebrei. Annunciando anche di aver provveduto alla confisca di 460.000 rubli e di molti oggetti preziosi appartenuti ad ebrei sottoposti a “trattamento speciale”.

L’Einsatzgruppe C entrò invece in Galizia, in Ucraina, una regione contesa a lungo tra Austria, Polonia ed Ucraina. Terra assolata, dal suolo gessoso, con campi immensi di grano e di girasoli, battuta da venti aridi e caldi durante l’estate, fango e gelo nel lungo inverno del nord.

Nelle città più importanti la presenza ebraica era storicamente e numericamente importante: nell’antica capitale L’vov (Leopoli) erano 160.00; a Ternopol erano 18.000 su una popolazione di 40.000.

Il 22 giugno da radio Berlino, l’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN) per voce di un suo dirigente proclamò: “morte agli ebrei, morte ai comunisti, morte ai commissari del popolo!”

Il 27 giugno le avanguardie dell’Einsatzgruppe C arrivarono a Lutsk, punto di raggruppamento degli Einsatzkommandos, prima di sparpagliarsi per l’Ucraina. Fu a Lutsk che, in quei giorni, venne dato l’ordine di fucilare “per rappresaglia” 1.160 ebrei.

Intanto a L’vov, nei primi giorni dell’occupazione, furono fucilati, nelle tre galere della città, più di 3.000 ebrei. Tra loro il rabbino Yehezel Levin.

Nel suo rapporto, il comandante dell’Einsatzgruppe C, riferisce di 7.000 ebrei rastrellati e fucilati per rappresaglia “per le disumane atrocità”.

Il 5 luglio, il sergente SS, Felix Landau, dopo aver passato parte del tempo dormendo, riferisce che con i suoi commilitoni, nel pomeriggio, hanno farro fuori trecento tra ebrei e polacchi.

Il 9 luglio, sempre a L’vov, gli ufficiali della divisione “Viking” delle Waffen SS, organizzano una strage nella quale troveranno la morte, dopo torture e violenze inaudite, circa 60 ebrei.

A Ternopol, occupata il 2 luglio 1941, già dal giorno successivo era possibile vedere delle fosse profonde 5 metri e larghe 20. Colme di uomini, donne e bambini, per lo più ebrei. Furono uccisi con granate, che esplodevano in mezzo a loro, dilaniandoli.

Quando l’Einsatzkommando 4b, l’11 luglio, terminò il suo lavoro, presentò un bilancio di 127 esecuzioni e 600 morti. Tra loro anche i componenti di 13 famiglie che la notte del 4 luglio vennero arse vive nelle loro case, date alle fiamme.

Il 22 luglio, il comandante delle SS e della polizia per la Russia centrale, Gruppenfuehrer Erich von dem Bach-Zelewski, ricevette l’ordine da Himmler di

“setacciare le paludi del Pripjat”. Era questa una zona paludosa, ad est di Lublino, ai confini tra Bielorussia ed Ucraina, ove si erano rifugiati molti ebrei, oltre a quelli che già vi vivevano.

Il 29 luglio, Himmler fece sapere quale sarebbe stata la sorte degli ebrei, in un suo radiomessaggio. “Ordine espresso dell’RFSS (Reichfuehrer SS). Tutti gli ebrei [maschi] devono essere fucilati. Condurre le donne ebree nelle zone paludose”. Gli ordini ricevuti invece dal generale di corpo d’armata, Friedrich Jeckeln erano ancora più chiari ed imperativi: le sue truppe, dislocate nella Russia meridionale, dovevano eliminare tutti gli ebrei, con la sola eccezione di quelli necessari per il lavoro coatto.

Il 23 luglio Himmler assegnò ai comandanti delle SS della Russia del Nord, Centro e Sud undici battaglioni di polizia dell’ordine, al comando di Kurt Daluege. In totale almeno 5.500 uomini necessari alla realizzazione dell’ordine emanato, che andavano ad aggiungersi ai 3.000 degli Einsatzgruppen.

Il 25 luglio, ancora Himmler ordinò di costituire urgentemente unità di polizia ausiliaria, arruolando ucraini, bielorussi, estoni, lettoni, lituani, elementi affidabili e ovviamente non comunisti. Alla fine del 1941 il totale degli ausiliari era superiore alle 30.000 unità.

L’ultima settimana fu dato l’ordine, direttamente da Himmler, di liquidare gli ebrei di Shepetovka. Ne venne incaricato il 45° battaglione della riserva, che operò con l’aiuto della milizia ucraina. Fu partendo da questa occasione che Jeckeln decise di dirigere personalmente le stragi in Ucraina occidentale. Uomo atletico, prestante, dagli occhi furbi, Jecklen era un assassino spietato quanto inavvicinabile. Molto attento ai problemi che le esecuzioni di massa comportavano, inventò un metodo di stermino, denominato “Sardinenpackung”, molto crudele quanto funzionale alla esigenza di spazi nelle fosse comuni, che dovevano accogliere un numero sempre crescente di vittime. Gli ebrei dovevano stendersi per terra nelle fosse, gli uni sugli altri già assassinati, poi una raffica di mitraglietta li uccideva. Formando così uno strato ben composto, come nei barili di sardine sotto sale.  Guadagnando così spazio, mentre prima i corpi, cadendo disordinatamente, finivano per occupare più spazio del necessario. Metodo che troveremo applicato alle Fosse Ardeatine, a Roma nel 1944.

Alla fine di agosto le SS di Jeckeln avevano assassinato più di 44.000 persone, un primato per uccisioni avvenute nel corso di un solo mese, primato da nessun altro mai eguagliato.

Gli uomini che dovevano prendere parte alla bonifica delle paludi di Pripjat, alle Aktions di “pacificazione, vennero particolarmente preparati, con interventi dello stesso Himmler. Incitò la cavalleria ad uccidere un numero sempre maggiore di uomini, dopo che questa l’8 agosto aveva ritirato le sue truppe, dopo aver liquidato 5.000 uomini il 5 agosto e altri 3.000 il 7.

Quando l’operazione fu conclusa, il  colonnello SS Hermann Fegelin riassunse nel suo rapporto le azioni condotte nella zona delle paludi con questi dati: la sua unità aveva ucciso 1.000 partigiani, 699 soldati dellìArmata Rossa, 14.718 “saccheggiatori”, cioè ebrei.

Con l’Aktion nelle paludi del Pripjat, sul fronte orientale, era iniziato lo sterminio di massa indiscriminato.

Nel luglio 1941, inoltre, agli Einsatzgruppen arrivò l’ordine di uccidere anche donne e bambini.

Prevedendo reazioni negative, Himmler si preoccupò di istituire ospedali psichiatrici e luoghi di riposo “in cui sono curati gli uomini delle SS, entrati in crisi durante le fucilazioni delle donne e dei bambini”. Indicando anche di lasciare questo sporco lavoro alle formazioni degli ausiliari, da considerarsi “usa e getta”. Dopo avere assistito alle fucilazioni a Minsk, Himmler cominciò a preoccuparsi  di trovare un modo di sterminio meno ripugnante e che non rendesse gli esecutori dei nevrotici o di bruti.

Le sue preoccupazioni furono evidenti nell’ordine segreto, emanato il 12 dicembre 1941, in cui raccomandava ai comandanti degli Einsatzgruppen, a quelli delle SS e della polizia, i comportamenti da assumere nella gestione del programma stabilito, dando indicazioni operative atte a sollevare, per quanto possibile, dalla tensione gli uomini preposti alle fucilazioni. Richiamando tuttavia alla più stretta osservanza della disciplina. Concludendo: “Gli ordini e i doveri necessari all’esistenza del Volk devono essere eseguiti. Questo materiale non è idoneo a ulteriori discussioni o conversazioni”.

Dal luglio 1941, gli Einsatzgruppen – e la polizia dell’ordine – non fecero altro, tutti i giorni che uccidere, uccidere, uccidere.