Il Centro Culturale
Sardo, a Milano, è un posto che nemmeno vi immaginate quanto è bello. Si entra da dietro
Piazza Duomo e si passa in un istante dal marmo ipercommerciale a un cortile scalcinato in
stile vecchia Milano. Casa di ringhiera, per intenderci. Poi si entra in tre ampie stanze,
l'ultima delle quali, per magia, si spalanca in una veranda mozzafiato sulla piazza. La
cattedrale a sinistra, il formicolìo della gente sul sagrato. Vista da qui, piazza del
Duomo sembra un po' meno vetrina per giapponesi e un po' più zòcalo sudamericano, un
luogo sociale e non di passaggio. In più, c'è un sole africano e un cielo
azzurro-azzurro, di quelli che a Milano li conti sulle dita delle mani, così che il Duomo
scintilla, i vetri dei sardi scintillano, e tutto pare come brillante. La situazione,
capirete, è surreale (se non vi pare abbastanza surreale aggiungete il vini sardi
deliziosi alle cinque del pomeriggio).
Questa la scena, percorsa da qualche piccolo brivido che hanno sempre le conferenze stampa
a cui è attesa una "star". Poi la star arriva. Manu Chao si siede, sorride a
tutti, si mostra disponibile. Subito gli chiedono di parlare a nome del movimento anti-G8,
addirittura di rispondere a un ministro italiano (Ruggiero). Se è violento, se è
nonviolento. Manu è seccato, resta gentile, ma si vede che non ne può più. Pesa le
parole, fa il diplomatico: "Sono solo un musicista, attiro le tivù, per questo lo
chiedete a me, andate a chiederlo a quelli là fuori. Nessun ministro mi può dare una
patente di noviolento. Non spetta a lui".
Assisto alla scena, e ho una netta, decisa sensazione: quello che sto vedendo è il più
grande episodio di incomunicabilità raggiungibile nell'era della comunicazione globale.
Un cantante che dice certe cose e i media che ne vorrebbero altre. Si sono scomodati, per
Manu Chao, anche i notisti politici, qualche intellettuale progressista che cercherà di
cavare un'analisi da quello che ha rimasticato alla bell'e meglio in due giorni, i
cronisti che verranno spediti a Genova e che stanno facendo del G8 una specializzazione.
Per loro, ma anche per i "critici musicali" presenti, tutto questo è vago e
confuso. La musica? La globalizzazione? Com'è che non capiamo i nessi e le implicazioni?
Sarà una moda? Le canzoni di Manu Chao si sovrappongono ai luoghi comuni, alle
semplificazioni, alla tiritera del popolo-di-seattle, ma alla fine non si trova il capo di
questa matassa.
Non si capiscono, insomma, cose che quei centomila là sotto, nella piazza, capiscono
invece al volo e benissimo durante il concerto. Fin nelle sfumature, negli angoli, nel
cambio del ritmo, nella citazione in sottofondo, nella fiesta della banda, nella fisicità
e nel riferimento culturale. E politico.
Manu sostiene che i media arrivano sempre
dopo, a cose fatte e che quindi raccontano le cose quando le cose sono finite da un pezzo.
Vista questa conferenza stampa, questo delirio di incomprensioni, tenderei a dargli
ragione. Tra le domande, una diceva: "Ma il disco è uguale a quello prima!". E
Manu aveva risposto "è vero". Chiacchierando mentre attraversiamo la piazza per
tornare al palco gli dico, ma sei matto? Qui ci sono le trombe, è un disco "de
banda", non da solista, è molto diverso da quello prima! Manu ride e mi prende in
giro, come dire: ma vuoi che mi metta a parlare di musica con quelli lì? Per loro è roba
latina, tutta salsa e chiuso il discorso. Una semplificazione, insomma. Come il
popolo-di-seattle, tale e quale.
Eppure, mi dico, questa cosa qui, questo network di musicisti che comincia a Parigi e
finisce a Bogotà, passa dall'Argentina, investe il Brasile e va a finire a scrivere una
canzone in arabo con il trombettista siciliano e il cantante africano, non è una cosa
nuova, c'è da vent'anni. Come si può ora, ancora, chiedersi cos'è, e restarne stupiti?
Manu ha suonato quasi tre ore, interrotto da
un rom della favela milanese di via Barzaghi, dalle tute bianche e da un invito del Genoa
Social Forum ad andare tutti quanti al G8. Le interruzioni sono state veloci e
perfettamente inserite nel concerto, niente cambi di intensità, niente salti di
atmosfera. Banda scintillante, trombe taglienti e sinuose. Mala Vida, che chiude il
concerto, è centomila saltelli felici sullo zòcalo de la ciudad de Milan.
Alla fine del concerto in piazza del Duomo siamo tutti distrutti. Ci salutiamo con i
musicisti, baci e abbracci con la famiglia Chao, papà Ramòn e mamma Felisa che si mangia
con gli occhi il suo Manu, quarantenne proprio stasera (torta!).
Torno a casa con la stessa situazione di disagio provata nella spettacolare veranda dei
sardi. Siamo matti io e questi centomila ballerini che ritmano "Proxima
estaciòn
Genova", oppure chi viene inviato a leggere la realtà, a
commentarla, a chiosare e ricamare teorie sul "clandestino e menestrello
anti-globalizzazione"? Quale infinito abisso esiste tra questi due mondi?
Torno a piedi, perché nella città con "infinite capacità di futuro", come
dice il sindaco Albertini, la metropolitana si ferma a mezzanotte. Ma forse è un bene:
all'altezza di Porta Venezia ho una fulminazione. Corro a casa, scavo sotto cumuli di
materiali preziosissimi dimenticati da secoli, rovisto l'archivio e ne traggo una
cassetta, un vecchio Vhs francese, sistema pal, infatti si vede in bianco e nero. Cerco
febbrilmente col telecomando e finalmente trovo quello che mi sembrava di ricordare. Ecco.
Rio de Janeiro, 1992, Forum internazionale sul clima. Il presidente degli Stati Uniti è
George Bush, e naturalmente c'è un controvertice. Dibattiti, convegni, cortei, proteste e
ovviamente il concerto contro "pochi grandi che decidono il futuro del mondo".
Chi suona? Guarda bene sul palco, senti bene la canzone: Manu Chao! con la Mano Negra! E
quel vecchio matto di Jello Biaffra. Cantano I fought the law, dei Clash, ma nel
ritornello cambiano le parole, che diventano "George Bush is a chicken-shit".
George Bush è merda di pollo.
Dieci anni fa, gli stessi cantanti, le stesse musiche, un vertice e un controvertice. E il
figlio della merda di pollo. Prima del popolo-di-seattle, prima del
menestrello-clandestino.
Tutto quello di cui si parla oggi, sgranando gli occhi per la sorpresa, era già
ampiamente in moto. Chitarre comprese.
Clash Social Forum
Uffa! La questione "musica e
politica" è tanto enorme che semplicemente - temo - non esiste. Si cita sempre zio
Dylan. E naturalmente c'è zia Joan Baez con Sacco e Vanzetti e poi Woody Ghutrie, e tutto
quello che sappiamo su Bruce Springsteen e le fabbriche americane (che così bene ce lo ha
raccontato un intellettuale italiano come Sandro Portelli).
Più correttamente, però, il discorso inizia un po' addietro. Per esempio quando certi
spagnoli seccati (o inglesi? o olandesi?) vietano i tamburi nei "centri di
accoglienza" per schiavi in Giamaica, o nella Dominica o chissà dove da quelle
parti, all'inizio del 1600. Non è nato così il blues? Non è nato così il reggae?
Musica e politica, date retta, è un bel casino.
A voler restare ai giorni nostri, e
all'Europa ora investita dal nuovo movimento, chiaro che parte tutto dai Clash. Fu quello,
alla fine dei Settanta, lo snodo perfetto che diede una rapida virata al rock'n'roll e ne
determinò scelte culturali e politiche di portata davvero epocale. Tosti, punk,
operaisti, sandinisti della prima ora, militanti delle occupazioni, amici degli squatters.
Un quattro quarti veloce ma anche capace di smorzarsi, e qualche linea di dub, qualche
annaffiatura reggae. Detta così sembra una formuletta magica per discografici, ma il
disegno politico e culturale ha ben altro spessore.
Il reggae, per esempio, è un caso di musica globalizzata dal mercato. Ma nata, alle
origini, proprio da una globalizzazione feroce e selvaggia. I tamburi burru dell'Africa
Occidentale (i clandestini di allora si portavano i tamburi!) e le chitarre spagnole
mettono insieme il mento (musica politica, sissignori!), poi viene lo ska, che destruttura
il rhythm and blues e ci mette sezioni fiati strepitose. Con quali fiati? Con i tromboni
delle bande militari del padrone inglese (se non è globalizzazione questa!). E via così:
contaminazioni culturali, rivolte, dominazioni, botte da orbi. E canzoni.
Questa cosa non viene da Marte, ma dalla
Giamaica. Proprio come i proletari neri dei ghetti londinesi che fanno le loro rivolte e i
loro carnevali a Notthing Hill o a Brixton. I Clash, bianchi e inglesi, cantano
"Voglio una rivolta bianca" (White Riot), cioè una rivolta anche per il
proletariato bianco, come l'han fatta i neri di Londra. E' un programma, anzi un appello,
di unione tra culture in rivolta, insomma, e funziona assai meglio se dietro al punk
riconosci una sbandata dub, un chiaroscuro reggae. Operazione culturale raffinata,
insomma, compiuta da quattro ragazzini punk e poi estremizzata e radicata nei
comportamenti. Come fare un disco triplo (Sandinista!), cosa assolutamente sgradita al
mercato, e perdipiù imporre un prezzo politico alla CBS. E sostenere in modo militante e
fattivo (soldi!) i sandinisti del Nicaragua. Rivolta bianca, ma anche india, e nera, e
"paki". E con molte musiche dentro. E così il punk esce dalla sua spirale
mortifera e autolesionista (le pere, Syd Vicious, le lamette
) e diventa schieramento
sociale. Due culture marginali come la comunità caraibica londinese e gli operaisti rock
della cintura povera della città trovano un disegno culturale comune, ognuno con le sue
specificità, senza rinunciare all'identità, ma agendo, quando serve, uniti. Clash Social
Forum?
Quel proletariato inglese così pestifero e
rebelde è stato abbondantemente thatcherizzato, da allora. Un'opera di fattiva
globalizzazione (modernizzazione?) che ha privatizzato tutto quanto e anche, sembrerebbe,
i cervelli. Si sa che un grosso filone di pop è finito nella grande audience della
beneficenza: Wembley Stadium pieno, miliardi raccolti per la fame in Africa, per Mandela,
per i diritti umani. Belle cose, insomma, compreso il merchandising e le magliette. Ma il
movimento è un'altra cosa, la battaglia militante, quella politica, la fanno altri. Red
Wedge organizza i musicisti anti-Thatcher per una resistenza mediatica che non ha
precedenti nella storia del pop. Ma anche quella resistenza si affievolisce, svapora.
Restano i singoli, a fare della musica e dell'impegno politico una faccenda inestricabile
e quasi personale.
Per esempio gente come Billy Bragg, uno che spiega bene, nelle sue opere, l'evoluzione
politica, musicale e culturale di un ragazzino punk diventato oggi un raffinato
intellettuale europeo.
La prima volta che l'ho visto cantare, Billy aveva un camioncino bianco con la guida a
destra targato inglese, un amplificatore grande meno di una sedia e una chitarra a
tracolla. Questa è la mia chitarra da blues, diceva. Poi si girava, fingeva di trafficare
con qualcosa e mostrava la stessa chitarra di prima: e questa la mia chitarra da
rock'n'roll.
Billy era un fenomeno: con la voce e la chitarra elettrica ti tirava fuori delle melodie
lancinanti, molto working class, sfiga e turni scomodi e piedi che fanno male. Ma anche
storie d'amore bellissime d'ambientazione Ken Loach, e pura poesia: Parlando d'amore con
l'agente delle tasse, che rimane un caposaldo. Billy è passato da quelle asprezze ruvide,
da quell'attitudine punk, a scrivere e musicare grandi canzoni pop, ha incontrato sulla
sua strada Jonnhy Marr, chitarrista veloce e sfacciato, poi ha composto canzoni più
letterarie, poi è stato chiamato dalla sorella di Woody Ghutrie, laggiù in America: ehi,
Billy, vuoi risuonare le canzoni di Woody? Meglio ancora: reincidere l'archivio, anche
delle canzoni di Ghutrie di cui non c'è traccia: gli inediti di un grande intellettuale
del Novecento, maestro riconosciuto della letteratura della Depressione. Billy,
intellettuale europeo, accetta e lavora. I dischi sono bellissimi, la ricerca filologica
è perfetta.
Si imparano un sacco di cose, insomma: per esempio quanto erano globalizzati laggiù negli
States, quei ragazzi degli Anni Trenta!
L'indice dei nomi
Mentre sono qui che ricostruisco vecchie
storie di vecchi dischi, cercando di ordinare l'universo musicale in qualcosa di
leggibile, ricevo una telefonata. La collega del settimanale femminile è un po' in crisi,
forse posso aiutarla? Ci sentiamo? Mi disturba? Saprei dirle quali sono oggi i complessi
musicali anti-globalizzazione?
Manu Chao lo sa. Gli U2? Jovanotti? Confesso di provare ancora il disagio sentito a
Milano, alla conferenza stampa di Manu. Non è colpa sua, naturalmente. Suppongo che
dovrà fare tanti boxini con le facce dei cantanti, la seguo finché posso, le chiedo la
cortesia di domande più precise: cantanti genericamente "di sinistra"? Abituati
alla battaglie civili? Oppure militanti? Non sa dire, vorrebbe un elenco che la cavasse
dai guai. Facciamo insieme qualche nome. Ma mentre lei scrive, io realizzo che i nomi dei
gruppi non vogliono dire molto, che ognuna di quelle esperienze musicali ha dietro di sé
una storia e un perché. Esperienze condivise da una decina di persone, poi da duecento,
poi da duemila, poi da un milione e poi - come fu il caso di Bob Marley, per esempio - da
tutto il mondo. Oppure piccole esperienze nate a sputi e sangue e difese con i denti,
radio indipendenti, etichette senza soldi, organizzazioni, associazioni, bande, piccoli
studi messi su alla bell'e meglio in posti occupati, sgombrati spesso. Ma anche gente che
vende milioni di dischi, che muove fortune in dollari.
Forse ha ragione la collega, forse ci vorrebbe un elenco. Ma chi si prende la briga di
farlo, di scordare decine di nomi? Di inserirne alcuni fasulli? E chi sarà a dare la
patente di anti-globalizzatore a questo e a quello?
Poi però mi ricordo: io un elenco così ce l'ho!
Esiste!
Anzi, ce l'ho proprio qui sotto, in forma di documento microsoft-word. Diciamo che è un
asso nella manica. Ma prima di tirarlo fuori, c'è un'altra storia da raccontare.
Zapata està en la jungla
La fine del 1993 ha segnato anche la fine
della Mano Negra. Il miglior gruppo di Francia (flamboyant!) si scioglieva in malo modo
sulle pendici della cordillera colombiana, dove Manu Chao realizzava il suo sogno più
grande e incosciente. Il treno di ghiaccio e di fuoco era, in sé, una follia. Costruito
da fabbri e santimbanchi colombiani e francesi vicino a Bogotà, doveva attraversare la
Colombia fino a Santa Marta e poi tornare indietro. Su binari costruiti dalle compagnie
bananiere e poi lasciati lì a marcire (Globalizaciòn! Qui c'è stato un massacro di
braccianti! Globalizaciòn!).
In Colombia, si erano accorti questi musicisti pazzi, ci sono le rotaie ma non c'è il
treno. Portare un treno-festa per la Colombia in sparatoria perenne tra guerriglie, narcos
ed esercito è una metafora abbastanza gigantesca di come si vede l'arte e di come la si
pratica. Ma, metafora per metafora, portare il ghiaccio a Macondo (come fa in Cent'anni di
solitudine lo zingaro Melquiadès) è l'obiettivo del treno. Bande punk, trapezisti,
tatuatori, il ghiacciolo più grande del mondo e una creatura meccanica che sputa fuoco,
simile a un drago, attraversano a 25 all'ora, deragliando spesso, la violencia endemica
del paese. Senza un graffio, senza che nessuno spari sul treno, senza docce, senza cibo
alle volte, con un tuffo senza rete in un mondo ostile e difficile, dove però la gente
balla quel che suonano i musicos francés, qualunque cosa sia, e sembra felice.
Ramòn Chao, intellettuale francese, critico (dovrei dire militante?) di Le Monde
Diplomatique, giornalista, scrittore e tante altre cose, tra cui padre di Manu e Tonio
Chao, scrive la cronaca di quel viaggio (La Mano Negra in Colombia, Theoria) e dunque non
la faremo troppo lunga, qui, con le descrizioni di quella magica pazzia.
Ma la Mano Negra si sfalda, ognuno per la sua strada. Manu va a Napoli a mixare Casa
Babylon, disco che contiene in nuce certe intuizioni cristalline di Clandestino.
Tom Darnal il tastierista della Mano, invece,
prende un registratore, un po' di nastri, e sparisce nel folto del sudest messicano, negli
scuri rifugi della Selva Lacandona. Tom è un ottimo tastierista, sa scrivere eccellenti
canzoni, adora Cuba e ha una passionaccia per la techno. Musica elettronica veloce, che si
misura in battiti al minuto, che (si scoprirà poi) fa scintille al contatto con le congas
cubane, con le trombe di Sierra Maestra. Ma siamo a Tom che va en la jungla. Ne esce con
suoni, discorsi, comizi, fruscii di passi furtivi, proclami zapatisti, sparatorie,
discorsi di poesia e di revoluciòn. Ci mette sopra, o sotto, o attraverso, la sua techno.
Qualche dj militante, qualche gruppo raccattato per via. Rumors of War, il disco che viene
fuori è un capolavoro di tecnica di missaggio e di poesia a 130 battiti al minuto. E' un
disco che conosceranno in pochi - poco commerciale, poco vendibile - ma che è decisivo.
Come i Clash sposavano la causa sandinista, come stringevano alleanze con i proletari
couloured loro vicini di ghetto, allo stesso modo ora il "rock" (e altro)
europeo più innovativo sposa la rivoluzione del subcomandante, ne fa musica, diffonde in
Europa le ragioni di una resistenza armata (e mediatica) alla globalizzazione.
Ma a chi affidare il disco? Le major non lo
vogliono, non è roba vendibile, a chi volete che interessi? Il circuito alternativo,
invece, è interessato: Rumors of War viene stampato dalla Esan Ozenki, etichetta basca,
dura e pura. Nacque anche lei negli anni Ottanta come una forma di militanza artistica e
produttiva. Casa a Bilbao, studi ben attrezzati, ganci preziosi in tutto il mondo, è la
creatura dei fratelli Muguruza che nelle loro svariate vite hanno scritto pagine
importanti della musica antagonista europea. Sono passati vent'anni da quando i Kortatu
rifacevano Jimmy Jazz dei Clash, cantandola in basco (tutte quelle a! tutte quelle u!).
Poi il gruppo diventò Negu Gorriak, punk estremo e rap violento, bandiera della gioventù
basca, spesso nel mirino della guardia civil e dell'antiterrorismo. Concerti che
diventavano rivolte, centri autogestiti, assoluta autoproduzione, nessun compromesso con
il mercato. E il mercato tira: Negu Gorriak, con le piccole forze di una piccola etichetta
è diventato un gruppo importante, e Fermin Muguruza oggi continua la sua carriera solista
con dischi più che eccellenti.
Anche lui, come fa Manu, mischia di tutto, dal dub al reggae, sfiora il rap, balla
sudamericano e non disdegna il vecchio, caro rock'n'roll. Si circonda di musicisti
argentini, arabi, africani. Ezen Ozenki scova gruppi in ogni dove e li produce. Stampa i
suoi testi in basco, francese, inglese, spagnolo, italiano. Apre filiali dappertutto. Il
terminale italiano è la Gridalo Forte Records. Sta a Roma, produce ottimi dischi, lo ska
skanzonato degli Arpioni, oppure quello più colto e classico degli Orobians, o la Banda
Bassotti (e ce ne sono molti altri). Ottimi dischi e gruppi grintosi. Il simbolo è un
operaio con un enorme martello e la scritta: "Ama la musica - Odia il fascismo".
Sono dischi che fanno ballare.
Fermin Muguruza, oggi, insieme a Manu Chao,
è uno degli artisti più complessi e geniali in circolazione. Dub Manifest, il suo ultimo
disco è un saltellante inno contro la globalizzazione, una straordinaria prova di come si
possa ballare localmente (saltellare a ritmo di dub, per la precisione) e agire
globalmente. Buone canzoni, insomma, e una politica produttiva assolutamente e
risolutamente indipendente. Fermin controlla tutto: i prezzi dei biglietti ai concerti, il
prezzo dei dischi, la copertina, la distribuzione. Come Manu, che tratta con Virgin da un
punto di forza e consegna il suo lavoro chiavi in mano (Virgin ha smesso da tempo di
cercare di imporgli qualcosa), anche Fermin è un artista totalmente libero che decide
quando e come fare i suoi dischi. E negli anni la sua etichetta è diventata un punto di
riferimento obbligato per tutti gli artisti d'avanguardia, politicamente schierati,
combattivi, poco interessati a conquistare le classifiche mondiali e poco disposti a farsi
manipolare dalla musica transgenica che "ha grande mercato", ma sempre gli
stessi suoni, gli stessi arrangiamenti, la stessa produzione levigata e glamour.
Anche Manu, che ormai è una star, che può fare quello che vuole (e che l'ha sempre
fatto, anche a costo di spezzare una fulgidissima carriera), si lascia sfuggire che
"mi piacerebbe fare come Fermin", che mettersi in proprio è un suo obiettivo.
Aggiunge: "Ma non dev'essere un'altra etichetta indipendente. Dev'essere una cosa
speciale. Tutti devono essere la banda, l'amministrazione e i musicisti, negli uffici e
sul palco. Non dev'essere come quei ristoranti dove la tovaglia è pulita ma le cucine
puzzano, dev'essere tutto muy lindo".
Naturalmente questo dell'indipendenza
produttiva, dell'etichetta indipendente, è un chiodo fisso. Sull'argomento si è detto e
scritto di tutto, come del resto si è detto e scritto di tutto della capacità politica e
gestionale di alcune star di trattare alla pari con la grande industria. Ma ora c'è
qualcosa che sposta gli equilibri, che allarga i margini del problema.
Supponiamo che un musicista abbia un suo circuito, le sue dieci-ventimila copie di
acquirenti militanti che ne conoscono il percorso e lo seguono (come hanno sicuramente
tutti i casi citati e che citeremo). Per l'industria musicale attuale sono cifre da
fregarsi le mani, cifre che addirittura in Italia, in certi periodi dell'anno, possono
portarti in alto nella hit parade. Ma se il musicista e il pubblico entrano in contatto
diretto, cosa può capitare? L'industria stampa i dischi e li porta nei negozi, fa la
promozione, e per questo si prende l'80 o il 90 per cento del malloppo. Se uno si fa il
disco in casa dopo averlo scaricato dal sito del musicista, e si stampa la copertina,
pagherà tutto meno di metà della metà, e il musicista sarà pagato per il suo lavoro
artistico e intellettuale.
Quanto manca a tutto questo?
Una lettera dalla selva
Ma torniamo al famoso "elenco".
Ha una data: 20 febbraio 1999. E naturalmente una firma: Subcomandante Insurgente Marcos.
E' la lettera con cui il comandante zapatista, dalle montagne del sudest messicano,
ringrazia "i musicisti di tutto il mondo". Il tono è scanzonato, come accade
spesso. E come accade spesso nei suoi scritti Marcos tira in ballo il vecchio Antonio,
attribuendogli la frase iniziale: "La musica indica strade che solo i sapienti sanno
percorrere e la musica, insieme alla danza, costruisce ponti che ti avvicinano a mondi che
in un altro modo non avresti neanche sognato".
Ma perché una lettera di Marcos ai musicisti? Ecco: "Tutto questo ci viene in mente
perché ci sono arrivate notizie di concerti e di spettacoli di musicisti in Messico e in
altre parti del mondo in solidarietà con gli indigeni messicani e la loro degna lotta.
Noi volevamo ringraziarvi tutti e tutte voi che avete avuto a che fare con quei cammini
verso la pace e che, soprattutto a ritmo di rock, però non solo, attraversate il pianeta
da un lato all'altro. Non ringraziamo solo quelli che cantano e suonano. Ma anche i
produttori, i tecnici del suono, quelli delle luci, i macchinisti, gli autisti, le
comparse, i facchini, i rappresentanti artistici, i proprietari e gli amministratori di
locali, e tutti e tutte coloro che hanno a che vedere (anche se non si vedono) con un
concerto o uno spettacolo musicale (molte volte volontari il doppio: né ricevono denaro
né ricevono gli applausi).
Grazie a tutti.
E già che siamo al "one, two, three, four" (il comandante fa lo spiritoso,
ndr), vogliamo salutare tutti i musicisti che, in questi cinque anni, hanno suonato,
suonano e suoneranno per la pace con giustizia e dignità".
Naturalmente la lettera di Marcos avrà
inorgoglito le migliaia di ragazzi in tutto il mondo che suonano, cantano, montano
spettacoli e scrivono canzoni in appoggio alla lotta zapatista. Alcuni dei quali ragazzi
finiscono oggi in cima alle classifiche europee. E del resto la lettera (e i suoi molti
destinatari citati per nome e cognome) non può essere considerata un elenco dei
gruppi-musicali-antiglobalizzazione. Bisognerebbe aggiungere quelli che si organizzano per
altre cause, per il clima, per le balene, per il disarmo, per la pace, contro la Shell,
contro la Occidental Petroleum, eccetera, eccetera, eccetera. Pure, è una traccia, una
buona pista da seguire.
Altrettanto naturalmente questo fornirà benzina ai detrattori della lotta zapatista,
molti dei quali intellettuali europei, colti, scettici e sempre pronti all'accusa di
demagogia.
Eppure - ironia della sorte - sono gli intellettuali europei a chiedersi, oggi, con una
certa sorpresa cosa sia questo benedetto movimento "popolo-di-seattle" e che
musica senta. E ne tracciano sui loro giornali schemini e specchietti di come-si-vestono,
che-film-guardano, che-musica-ascoltano, sempre sberleffati e perculeggiati dal popolo che
dovrebbero in questo modo descrivere e raccontare. Tutti questi scettici pensatori, con
l'ufficio a cento metri dal primo negozio di dischi, non sanno niente. E un montanaro
armato con la pipa e il passamontagna, dall'altra parte del mondo, esule e clandestino
sulle montagne del Chiapas, invece lo sa, fin nei nomi dei gruppi, delle organizzazioni,
dei complessi. Vediamo un po'.
Prima di tutto, ovviamente, la lettera
contiene le scuse per le eventuali omissioni:
"Tutti hanno detto alt alla guerra. Alcuni hanno registrato dischi, altri hanno
partecipato a concerti o hanno visitato le comunità indigene, o hanno parlato a favore
della pace giusta e degna, o hanno protestato per il massacro di Acteal, o ci hanno
regalato i loro strumenti, o hanno dedicato una o più ballate alla lotta degli indigeni
messicani. Ecco alcuni nomi (me ne sfuggiranno molti, però voi già sapete che lo spazio
è tiranno con gli scritti)".
Si comincia dal Messico: decine di gruppi,
alcuni giunti anche fin qui, per fama (i Tijuana No hanno collaborato con Manu Chao e
naturalmente con i baschi e le bande di Fermin Muguruza), o addirittura per mercato (i
Maldida Vecindad possono vantare addirittura un minuscolo successo commerciale da noi).
Altri ancora sono ben presenti su Napster e si può così apprezzarne la furibonda carica
ska (Sekta Core, o Salario Minimo). Sono decine di gruppi, decine e decine di musicisti.
Poi si passa ai nomi "internazionali"" Negu Gorriak e Mano Negra, ovvio.
Poi Hechos Contra el Decoro, gruppo spagnolo di eccellente qualità musicale. Color
Humano, Spook and the Guay, Manu Chao. E poi, per citare solo i più noti o quelli di cui
è possibile procurarsi del materiale, P18 (è Tom Darnal con i cubani), Radio Bemba (è
ancora Manu), Fito Páez, Charly García, Todos tus Muertos. Senza dimenticare certi
italiani quasi tutti vicini alla Gridalo Forte (Banda Bassotti, Arpioni, Gang, Radici Nel
Cemento). Senza contare nomi storici e forse epici dell'avanguardia (Tuxedo Moon). E
persino i campioni d'incassi americani: Jackson Browne, Indigo Girls e i potentissimi e
furenti Rage Against The Machine. E poi i brasiliani come King Changó e Sepultura, capaci
questi ultimi, di un hard-core particolarmente selvaggio (e vendutissimo!) che si sposa
con certe sfumature indio-amazzoniche.
Prodotti di massa e frutti di militanza. Roba che si sente al centro sociale, che si balla
durante la raccolta di fondi, che si ascolta prima e dopo i comizi sul trattato Nafta e
contro le malefatte dei padroni del mondo, ma che senza alcun problema può finire nelle
stanzette di milioni di adolescenti occidentali, in testa alle classifiche di Billboard,
nelle recensioni (a volte incautamente entusiastiche) dei quotidiani (anche dei più
paludati e governativi) di tutto il mondo. Globalizzazione?
I nomi nell'elenco del Sup sono oltre un
centinaio.
Ora che da quella lettera di ringraziamenti sono passati due anni bisognerebbe
probabilmente aggiungerne altrettanti. Ma al di là delle omissioni o delle confusioni
(Manu Chao viene ringraziato tre volte: col suo nome, come Mano Negra e come Radio Bemba),
non si fatica a immaginarsi questo poderoso "indice dei nomi" come l'indizio
dell'esistenza di un vero network. Ci sono molti gruppi prodotti o incoraggiati da Manu,
altri che incidono i dischi grazie ai baschi di Esan Ozenki, altri ancora collegati a
un'infinità di etichette piccole e piccolissime, e ognuno di essi appoggiato o
collaterale a un'organizzazione, un gruppo, un centro sociale, una particolare situazione
cittadina. Dall'Argentina dei Fabulosos Cadillacs e dei Todos Tu Muertos a Los Rabanes di
Panamà, da Roma e Napoli (i 99 Posse entrerebbero sicuramente in una lettera di
ringraziamenti attuale e sono pure andati a trovare il subcomandante), dalla Francia, alla
Spagna, al Pais Basco. Fino agli Stati Uniti, dove certe etichette indipendenti sono
potentissime e seguitissime.
Non c'è solo questo. Strabilia scoprire
quanto queste galassie si tocchino, si sfiorino di continuo. Un gruppo rap argentino viene
prodotto a Bilbao e il suo disco si trova a Forte Prenestino, o alla libreria del
Leoncavallo. Oppure c'è il complesso iper-punk che sobilla centinaia di migliaia di
quattordicenni americani con uno spettrale hardcore amazzonico. O ancora il musicista
spagnolo che rilegge la cumbia colombiana. E Manu che infila un coro dei bambini del Mali
(da lui registrato) in una rumba, o che pirata la cubana Radio Reloje, e la mixa con la
voce di Gagarin dallo spazio per spiegare in una canzone di strepitosa bellezza e
complessità "la verdad sobra el nasimiento de los niños" (Infinita tristeza).
Cerchi un chitarrista qui e te lo ritrovi là. Un trombettista come Roy Paci, che suona
nei Mau Mau (torinesi e occitani) te lo ritrovi a fare la rumba insieme a Manu, e poi
magari chissà dove. Un tastierista suonava con questo e ora produce questi altri qui.
Girano le informazioni, i suoni, le situazioni cambiano e sgusciano. Difficile fermare la
giostra. Le bande si sciolgono, cambiano nome, si riformano, si fondono tra loro. La
logica, così cara all'industria, del complesso con i suoi quattro-cinque membri,
immutabile nei secoli che quando uno se ne va sembra l'apocalisse (Sting lascia i Police!
John Frusciante è uscito dal gruppo!), qui non esiste. Esistono invece collettivi,
progetti comuni, disegni politici e culturali che a volte si intrecciano alla vita dei
musicisti e dei luoghi e delle città in cui suonano.
Ne viene fuori, più che un network o un
elenco, una galassia vastissima e difficile da indagare. E qui l'analogia con la
sgusciante nebulosa no-global è più che evidente. Il contadono bretone e il militante
nigeriano? L'operaio dell'acciaieria di Pittsburg e il cucitore di Nike indonesiano? Il
ragazzo interinale di McDonald obbligato per contratto al sorriso in Piazzale Loreto e il
cocalero colombiano innaffiato di pesticidi e di erbicidi dalla Dea? Che c'azzecca tutto
questo insieme?
E allo stesso modo, papale-papale: lo ska giamaicano cantato in basco? La nenia brasileira
recitata come un mantra dalla star francese? Il reggae a Marsiglia? Come dipanare questa
matassa?
Manu Chao, Firmin Muguruza, la scuderia californiana dei Bad Religion e chissà quanti
altri centri di agitazione sociale e produzione musicale: queste sono le università, dove
la pratica dell'autoproduzione e del successo sono la norma.
Altre mille voci esistono e si muovono tra mille difficoltà e mille speranze. Da loro
vengono spesso le novità più interessanti, come certi dischi tutti italiani della
Compagnia Nuove Indye, che ha lanciato Almamegretta, portato al successo (di nicchia, ma
mondiale) gli Agricantus, che ha fatto certe cose strepitose insieme al popolo blu dei
Tuareg che, per chi non sapesse, si sta proprio, lentamente, estinguendo. Ma non so come
di dice "globalizzazione" in lingua Tuareg.
Gli amici americani
Quando si presentò alle elezioni per la
carica di sindaco di San Francisco, nel 1979, prese quasi 30.000 voti. Aveva un programma
un po' estremo, a dire la verità: poliziotti vestiti da clown e campi da golf nelle
prigioni statali. Campagna elettorale aggressiva: si presentava sotto il municipio con un
aspirapolvere e faceva le pulizie. Jello Biafra. Aveva messo in piedi, questo
situazionista d'assalto, un gruppo punk che era un caposaldo, e che tracciava, più di
vent'anni fa, la guida e il cammino di tutto il punk americano. The Dead Kennedys (i
Kennedy morti), facevano cose inosabili, come ridicolizzare sistematicamente i meccanismi
del potere americano. Oppure spaventare sul serio "gli adulti" con un singolo
come California über alles, una specie di archivio orripilante di orrori della società
"no limits" californiana, paragonata al nazismo. Ora Jello è in causa con il
vecchio gruppo per una questione di diritti. Ma continua il suo percorso senza arretrare
di un metro, in modo da restare comunque un punto fermo della scena antagonista mondiale.
Ha naturalmente partecipato alle presidenziali del 2000 (Jello è un irriducibile,
dovrebbero dargli la presidenza come premio alla costanza), cercando di farsi nominare
alla covention del Green Party. Nonostante molti voti, anche questa volta il suo programma
è stato giudicato difficile da realizzare: liberalizzare l'occupazione di edifici
abbandonati, sciogliere la Cia e l'esercito, distruggere le armi militari. E questo è
nulla. Il primo punto della straordinaria campagna elettorale di Jello Biafra per andare
alla Casa Bianca al posto di George W. Era sì rivoluzionario, senza scherzi:
"Rendere al popolo americano i soldi che ha speso per la sanità, l'educazione e i
trasporti, che dovrebbero essere pubblici".
Provocatore, dadaista della rivolta, anche Jello Biaffra aveva scelto il punk per iniziare
un suo discorso politico-culturale che continua fino a oggi. Lui non se ne è perso uno,
di controvertice e non è un caso se me lo ritrovo insieme a Manu a suonare a Rio de
Janeiro in un filmato del '92.
Guarda caso, girava qualche tempo fa per Milano, a nemmeno un mese dal G8 di Genova, per
la partecipazione alle giornate del fumetto indipendente. Ha tenuto un suo spettacolo di
spoken-word, praticamente un comizio, con la proiezione di disegni. Niente musica. Parole
in americano, anche molto "slangato", recitate lentamente. Ma in più
produzione, spettacoli, altre bande, nuovi linguaggi. E, anche qui, autoproduzione di alto
livello. La Ozric Tentacles, la casa discografica di Jello, sforna in continuazione
talenti punk a metà strada tra il radicalismo americano e il punk. E' una fabbrica di
dischi e di sovversivi, nell'ordine che più vi aggrada.
Naturalmente detta così pare di stare
davanti a un guru. Di vedere un miscuglio di radicalismo americano un po' freak e un po'
punk, un po' poeta. Le cose non stanno esattamente così: non renderebbe giustizia al
vecchio Jello Biafra.
Ma se si vuole cambiare prospettiva, superare i recinti della militanza e della
provocazione a tutti i costi, si può cercare tra le buone (buonissime) aziende culturali
indipendenti, che fioriscono in tutti gli States, assumendo dimensioni più che notevoli e
dunque patteggiando in pari dignità quote di mercato con le grandi majors.
Valga per tutte il caso della Epitaph, fondata dal gruppo punk militante dei Bad Religion
e che ospita nel suo tracimante catalogo i più bei nomi della scena neopunk (o fast rock?
o ska-core?) americana. Bad Religion (appunto), NoFx, Pennywise, Offspring, Rancid, e per
ultimo persino Tom Waits, recente fiore all'occhiello dell'etichetta, che ha detto di aver
firmato per loro perché "quei ragazzi fanno ottimi barbecue!".
Per un'altra storia ancora, un'eccellente
avventura musicale e intellettuale, allora si può indagare l'opera Michael Franti, con
gli Spearhead oggi e con i Disposable Heroes of HipHoprisy prima. Rap politico, incursioni
jazzistiche, molto trip-hop e rimiscelamento di tradizioni nere. Prodotto elegante e al
tempo stesso ben venduto. Franti non ha mai fatto mistero di coltivare un suo disegno
teorico, già dall'inizio, dieci anni fa, quando cantava Television is a drug of the
nation e compariva in scena con delle frese meccaniche per aggiungere il sibilo del
rumorismo industriale al suo rap abbastanza gentile.
Per fare il suo ultimo disco (Stay Human) ha mollato la Capitol che voleva imporgli alcune
scelte artistiche e ha messo in piedi la sua nuovissima etichetta, la Boo-Boo-Wax.
Risultato: un disco "radiofonico" che tra una canzone (canzone?) e l'altra
inserisce spezzoni di una diretta radio che raccolta il caso di una detenuta afroamericana
nel braccio della morte e della campagna elettorale del governatore dello Stato. Un
concept-album, si sarebbe detto un tempo, che è al tempo stesso anche un serissimo,
rigoroso, lavoro sui media e il loro funzionamento ideologico. "La radio ti dà molte
opportunità - leggo da un'intervista a Franti su Alias - con il broadcasting digitale
possiamo raggiungere ogni posto del mondo e costruire comunità con altri individui in
altre parti del pianeta". (Globalizzazione!)
Ma qui suona un campanello d'allarme.
Nulla di più diverso si può immaginare della fiesta latina di Manu Chao e del colto rap
melodico di Michael Franti. Sembrerebbero (e sono!) mondi separati. Pure certi discorsi si
incrociano. Uno (Franti) dice che "è importante portare i media nelle nostre
mani" e l'altro (Manu) se ne fa beffe da anni ed è attentissimo ai media. Uno
(Franti) cita la radio come nuova frontiera per la diffusione di suoni e idee del
movimento. L'altro (Manu) ha chiamato la sua nuova avventura Radio Bemba e il suo concerto
di quest'anno è in effetti una lunga sequenza radiofonica, con parlato, interruzioni,
missaggi in corsa (e c'è un dj sul palco). Fermin Muguruza firma il suo ultimo album con
la scritta Sound System FM 99.99. La radio torna come minimo comun denominatore. Un mezzo
libero.
Muoversi velocemente, usare l'industria quando serve, mollarla quando non serve, o quando
le pressioni diventano insostenibili. Essere duttili, imparare il loro gioco. E fregarli.
Manu preferisce suonare gratis, naturalmente, e davanti a più gente possibile. Quando ha
battuto i palazzetti dello sport in Giappone, incassando valuta forte a palate, si è
fermato poi in Messico per un tour gratuito (con Mano Negra) che i promoter locali non
avrebbero potuto permettersi. Proprio così: i teen agers giapponesi hanno pagato caro per
permettere ai loro coetanei messicani di vedere gratis lo stesso concerto. Una prassi
abbastanza no-global, si direbbe.
Altri punti di contatto: Michael Franti racconta il paradosso del musicista di fronte alla
frontiere: "La cosa materiale più importante che possiedo è il mio passaporto. Come
americano posso viaggiare liberamente in ogni parte del mondo e, sebbene io non sia
orgoglioso di essere americano, dato che il mio paese ha fatto cose orribili ad altri
paesi, questo è un bene". Ma poi aggiunge: ho un batterista nigeriano, il mio tour
manager è giamaicano, il dj è israeliano, il percussionista è portoricano
Sempre
in guerra con i visti, perché le navi di legni pregiati dalla Nigeria, i capitali, il
petrolio arrivano puntuali, ma il batterista nigeriano ha bisogno il visto.
Globalizzazione.
E' un vecchio chiodo di Manu e qui i discorsi
quasi si sovrappongono: "Ho un passaporto francese e posso andare dove voglio. Ma gli
altri no. Vado in Senegal a trovare i miei amici, ma loro non possono venire da me. E'
un'ingiustizia tremenda, è una follia!". Nelle viuzze del Barrio Gotico, a
Barcellona, l'ho visto personalmente interessarsi di visti, di permessi di soggiorno,
festeggiare un amico sudamericano per aver ottenuto quel biglietto vincente della lotteria
che è il permesso di vivere in Spagna. Non per niente dice di essersi sempre posto, nei
suoi viaggi, nell'ottica del clandestino. Se ne intende, insomma.
Bravo, sembri Manu!
Dunque, uno può chiedersi in effetti cosa
c'entrino mai le vallenato dell'altiplan colombiano con la techno, o le trombe cubane con
il punk, oppure le morbidezze jazzy con il broadcasting digitale, o i mariachi messicani
elettrificati o la copertina del disco hard-core argentino con i volti dei desaparecidos
(Argentina te asesina!), o il Comunist Twist napoletano con la cumbia cantata in basco.
Musiche in libertà. Quello che unisce questo (piccolo?) movimento globale sono
comportamenti omogenei: meno industria, più controllo sulle proprie produzioni, coerenza,
partecipazione e sostegno alle battaglie in corso. Un movimento che comunica
incessantemente come un network. Cambia spesso nome e modalità, ma continua il suo
discorso. Non si lascia cristallizzare, fugge prima che fugga il pubblico, prima che la
celebrazione dei media diventi massiccia e contribuisca a sottrarre senso.
E poi? Quanti network? Quante bande che
crescono intorno a un progetto? In Europa, ma anche in America, e certo in Australia, e in
Asia pure. E i musicisti Africani, che sono ovunque?
Manu, sempre alla conferenza stampa, a casa
dei sardi, a Milano, ha annunciato che dopo questo tour la banda si scioglie. Ognuno per
la sua strada, si costruirà un nuovo progetto, si vedrà. Possibile? La banda prima in
classifica che si squaglia come un gelato al sole? Possibile: ognuno di loro ha altri
gruppi, altri lavori che aspettano di essere finiti, o iniziati, altre bande da far
suonare. E così il network si allarga a macchia d'olio. "Non ho fatto questa cosa
che mi interessava perché ero impegnato con Manu, ecco, nessuno deve dire questo. Mai.
Ognuno deve fare le cose che vuole e che deve, se vengono qui, io gli insegno, chiedo
moltissimo. Se imparano andranno a suonare altrove". Manu dixit.
Ora, l'epicentro è l'Europa: la Francia, il
sud della Francia, e la Spagna, più il Paese Basco. Piccoli gruppi diventano culto (gli
Ska-P spagnoli, ad esempio), altri diventano "partito" (gli Zebda a Tolosa,
ispiratori della lista "Motivés" che ha abbastanza scombussolato le elezioni
amministrative della città). Sul perché in Francia e Spagna è più facile fare musica,
autoprodursi, crearsi un varco nella giungla dei media, far sentire la propria musica
anche fuori dai tradizionali circuiti e magari arrivare in classifica e
"sbancare", tutti sono concordi: laggiù facendo musica si campa. Non c'è paese
spagnolo che non abbia il suo festival rock o di cultura giovanile e dove - pare un
miracolo! - pagano per suonare.
Potrei aggiungere altre cose: quando Manu va a fare un treno in Colombia insieme a una
trentina di pazzi punk, artisti e creativi alternativi, il ministero della cultura qualche
franco lo sgancia. Santiago de Compostela, luogo che tanto deve al misticismo, si dimostra
tanto laica da affidargli La "Feria de las Mentiras", festival quasi-ciercense
in cui Manu direttore artistico dà un palco a tutti, e tutta la città ne risuona. E'
pensabile qui?
Qui, un po' più mestamente, prefetti prudenti o prevenuti, o assessori pavidi, negano il
concerto dei 99 Posse, impediscono i "suoni molesti" che naturalmente possono
turbare la pubblica quiete (gentile metafora per "ordine pubblico").
Ma ormai la divisione per nazioni, specie se
si parla di movimenti globale, non ha più molto senso: molti italiani si fanno produrre a
Bilbao, per esempio, oppure la filiale dei baschi agisce qui, ma va in tour in Giappone. A
leggere quelle immense (e divertenti) "pagine gialle" che ci sono nelle note di
copertina dei dischi, si può cercare di vedere e di ricostruire una ragnatela di
riferimenti, luoghi, situazioni, musicisti. Si ringraziano i seguenti centri sociali: e
giù l'elenco. Le seguenti bande hanno partecipato al progetto: e giù altri nomi.
Incrociare, confrontare, seguire i segnali, i luoghi di produzione, gli intrecci artistici
e produttivi.
E' una strada lunga, ma su cui si possono fare incontri decisivi. E' seguendo Manu in
Colombia che ho incontrato Tom Darnal all'Avana impegnato in un duetto tromba-techno con
Oscar Teuntor, mitico trombettista dei Sierra Maestra. E magari è leggendo le copertine
di Hechos Contra el Decoro che si arriva al disco per il Chiapas e gli zapatisti edito dal
sindacato spagnolo (CGT), dove poi, per incanto, si trova anche una storia raccontata da
Saramago, o attorno ai dischi di Manu si leggono benedizioni e plausi di Eduardo Galeano,
e di molti altri intellettuali "colti" che portano avanti le stesse battaglie,
gli stessi discorsi, linee narrative, o poetiche, altrettanto chiare.
Qui sta forse il problema, un problema di non
riconoscimento, proprio come avviene al movimento contro no-global che nessuno sa (e
vuole) definire in poche parole. Si pensa che sia questione di musica e di ragazzini, di
mode e di dischi comprati e venduti. Invece i personaggi di questa storia, Manu, Tom
Darnal, Jello Biaffra, Michael Franti, i Clash, Firmin Muguruza e gli altri decine e
decine e decine che per mia colpa qui non figurano, sono intellettuali raffinati e
capiscuola. Produttori di cultura e di musica.
E' abbastanza paradossale che la loro importanza culturale risulti come diminuita perché
fanno ballare - invece che leggere, per esempio - milioni di persone, ma tant'è. La
politica e i media rincorrono. Loro si tirano garbatamente indietro e io non ho nessun
motivo per dubitare della sincerità di Manu quando dice: "Che volete? Io sono il
portavoce di me stesso! Che vuol dire, poi, portavoce? Qui le voci sono milioni!".
E' un fior di musicista, tra l'altro, e sa
che la cosa importante è la musica. Ora sta nell'occhio del ciclone e figura nei titoli
come "il menestrello di Seattle". Fesseria globale. Ogni tanto, quando può,
prende la chitarra e va a suonare nel metrò.
Qualcuno gli dice: "Suoni bene, sembri Manu Chao!". Lui ghigna.
(Diario, agosto 2001)