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Dibattito: quale futuro per il GSF?

pallanimred.gif (323 byte) Veltroni: Basta col partito Zelig.  La ricetta della riscossa? Riformismo e radicalità. Puntando sui temi sociali. Come la globalizzazione

di Marco Damilano

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La parola Ds non la pronuncia mai. Sull’estate maledetta della Quercia e sul caos di Genova, ondeggiamenti, fiammate, contrordini, non un accenno di critica: «non sarebbe elegante da parte mia». Ma dopo i giorni del G8, il ragazzo morto, i manifestanti picchiati e le violenze della caserma Diaz, per Walter Veltroni sindaco di Roma c’è anche una sinistra da ricostruire: «Una sinistra che sappia unire riformismo e radicalità, valori e obiettivi concreti». Invece? «Invece vedo uno scarso orgoglio della nostra identità. Quando siamo al governo vogliamo somigliare a quelli che ci hanno preceduto, quando siamo all’opposizione inseguiamo gli estremisti». Una sinistra Zelig. Destinata alla sconfitta.
Cosa resterà dei fatti di Genova?
«Soprattutto alcune immagini. Nella psicologia collettiva è successo come quando la tv americana mostrò a colori i bombardamenti al napalm sul Vietnam. Così per la prima volta la televisione ha raccontato la morte di un ragazzo durante una manifestazione e, nei giorni successivi, quello che le forze dell’ordine hanno fatto di efferato nei confronti dei manifestanti. Dal punto di vista politico rimarrà la percezione di una gigantesca protesta, ma anche l’impressione di un ritorno della violenza. Sono le due sensazioni dal cui mix, nei prossimi mesi, dipenderà il futuro di questo movimento».
Perché ritorna la protesta di piazza?
«C’è una domanda di senso che sta attraversando le società occidentali in maniera molto forte. Qualche giorno fa ho incontrato Jack Lang a Parigi: stava in riunione con il ministro della Giustizia perché in Francia hanno il problema delle baby gang, gruppi di ragazzini tra gli 11 e i 13 anni che sfasciano tutto. A Nizza la sera c’è il coprifuoco per i ragazzi. Il fatto è che per una parte consistente delle nuove generazioni la vita non può essere raggiungere obiettivi sempre più superflui di soddisfazione personale. La seconda ragione è che la disuguaglianza nel mondo è clamorosa e ora viene percepita. Come sempre è stato nella storia dei grandi movimenti, il disagio individuale si unisce a un problema reale che appare irrisolvibile. Che mondo è un mondo in cui i potenti della Terra hanno difficoltà a riunirsi? Che mondo è un mondo che ha paura dei suoi figli? Qui c’è la parte genuina della protesta».
Ma si può lottare contro la povertà nel mondo con le molotov e le vetrine spaccate?
«No. Non c’è nessuna relazione tra la violenza contro un ragazzo con la divisa addosso e la siccità del Sudan. Il passato ci deve ammaestrare: non ci può essere nessuna indulgenza nei confronti di qualsiasi forma di violenza e intolleranza. È un film che abbiamo già visto: civettare sarebbe irresponsabile. Bisogna lasciare a casa i cattivi maestri, non fare i furbi, non rientrare nella caricatura di ciò che è stato, dei tanti schemi che hanno attraversato la nostra storia: la polizia fascista, e così via».
Però queste espressioni sono state evocate in Parlamento. D’Alema ha parlato di rappresaglie cilene. Condivide questo giudizio?
«Quello che è accaduto a Genova si è visto anche in altre città, a Nizza, a Davos, a Seattle, in qualche caso con l’interruzione del vertice, in qualche altro caso, come a Goteborg, con la polizia che sparava. Parliamo di un fenomeno che non è solo italiano. Le forze dell’ordine hanno avuto un comportamento intollerabile. Non lo dicono solo i ragazzi picchiati: lo affermano anche i rapporti ufficiali. È una verità non discutibile ed è assolutamente necessario che si accertino tutte le responsabilità. Se ci sono state colpe individuali è giusto che siano verificate. Se c’è stato un indirizzo politico è giusto che venga duramente censurato. L’Italia di destra non ha fatto una bella figura, anche sul piano internazionale. Poi nei giudizi ognuno usa le immagini che ritiene più opportune».
Lei come ha reagito?
«Io ho sentito il bisogno di telefonare a Giuliano Giuliani, il papà di Carlo. Ho seguito il suo comportamento e ho rivisto quella cifra morale che talvolta si trova in queste grandi tragedie: penso alla preghiera di Giovanni Bachelet quando fu ucciso il padre Vittorio dalle Br. Giuliano Giuliani ha fatto un discorso in difesa della memoria del figlio e di condanna della violenza e di invito al movimento a ritrovare la sua strada. Una grande lezione morale».
Ma come si è creata la miscela esplosiva di Genova? Di chi è la responsabilità?
«Si è capita tardi, da parte dei partecipanti al G8, la dimensione del dramma della disuguaglianza tra Occidente ricco e povertà, guerra, malattie, morte. Il merito della spinta dal basso di questi mesi è stato di imporre il tema all’agenda dei grandi, che comunque vanno ancora troppo piano: ogni giorno muoiono di fame 30 mila bambini al di sotto dei cinque anni. Il movimento che pone questo problema ha ragione. Se lo fa pacificamente, però. Perché se c’è un movimento che ha il dovere di essere non violento è il movimento contro la povertà. Più Gandhi e Martin Luther King che non i Black Bloc. I violenti sono nemici di questo movimento. E la stragrande maggioranza delle persone che manifestavano a Genova li ha avvertiti come tali. Ma una piccola parte no».
«È prevedibile che ci attenda un periodo caldo. Ma il conflitto è l’effetto di un cambiamento. La politica è fatta di cicli. Io ho tifato per Clinton nel ‘92 perché pensavo che si potesse aprire un ciclo riformista. E così è stato. Quel ciclo in America e in Europa ha corrisposto a una fase di stabilità finanziaria, di ripresa economica, di assenza di conflitto sociale. Ora il vento soffia da un’altra parte: hanno vinto Bush e Berlusconi, la foto di famiglia del G8 è diversa. Quando gli Usa dicono di no al protocollo di Kyoto sull’ambiente o varano lo scudo stellare inevitabilmente si determina un conflitto. Ma chi governa deve sciogliere i nodi evitando lo scontro».
Il ministro Scajola ha detto che i fatti di Genova non resteranno senza conseguenze e che il governo garantirà ordine e sicurezza.
«Sarebbe sbagliato affrontare il problema solo in termini di sicurezza. Preannunciare una stagione di giro di vite significa di per sé inasprire la situazione. Bisogna governare una società. E non lo si fa solo con i muscoli».
E la sinistra? Prima si è spaccata sul dubbio «andare, non andare», ora sul rapporto da tenere con il movimento. Il presidente della regione Toscana Claudio Martini ha detto che a Genova i Ds non erano in piazza, non erano al G8, insomma non c’erano...
«La sinistra non ha colto la sua grande occasione: non ha trasformato la questione della globalizzazione nella sua moderna carta d’identità. La sinistra riformista avrebbe dovuto prendere il tema della globalizzazione, sfrondarlo degli elementi ideologici che considero regressivi, e assumere fino in fondo come sua la sfida della lotta alla povertà, alle più inaccettabili discriminazioni sociali. Ma il problema non è Genova. Il problema è che non si è mai pienamente accettata l’idea che governare fosse portare nel riformismo il punto di vista della radicalità. Riformismo e radicalità se diventano opposti lasciano spazio a una forma di radicalità che travolge il riformismo. La radicalità, poi, ha bisogno di obiettivi concreti. Ad esempio un anno fa, con il presidente del Sud Africa Thabo Mbeki, proposi di allargare il G8 ai capi di Stato africani e sudamericani. Tutto sarebbe stato diverso. Ero andato in Africa perché mi sembrava che ci fosse un segnale politico e ideale da mandare. Ma quel viaggio apparve inopinato ai più».
Anche nei Ds: si disse che lei scappava in Africa per non fare le liste delle regionali.
«Quelli che fecero ironia allora credo che oggi si sentano degli sventurati. In quel periodo la sinistra doveva mostrare di non sentirsi appagata solo dal fatto di essere al governo. Questa immagine negativa è all’origine della nostra difficoltà: siamo apparsi come quelli che trasformavano un mezzo, il governo, in un fine. E invece la costante attenzione al disagio e alla povertà è ciò che definisce la sinistra. Se questa tensione svanisce lasciamo il campo a forme estremiste e regressive. La confusione su Genova, l’imbarazzo tra chi voleva andare e chi non voleva andare, i continui cambi di linea, sono il prodotto di questa occasione fin qui perduta».
In questi giorni riemergono altri vizi: il tatticismo, la paura di essere scavalcati a sinistra, l’uso politico della piazza...
«La sinistra riformista non può vivere con l’angoscia del “nessun nemico a sinistra”. Mi sembra del tutto naturale che ci siano due sinistre. Il problema è che i riformisti non siano privi di valori e di rabbia, facciano battaglie, e non abbiano paura di avere avversari».
Perché questo smarrimento dopo cinque anni di governo?
«Quando governavamo sembrava che volessimo ridurre le differenze rispetto ai nostri avversari. Adesso che siamo all’opposizione sembriamo inseguire quelli che sono più all’opposizione di noi. In questo atteggiamento sento uno scarso investimento sulla nostra identità, uno scarso orgoglio. Alle elezioni romane i partiti del centro-sinistra hanno preso 40 mila voti in meno rispetto al centro-destra, io ho preso 270 mila voti in più della somma dei voti della mia coalizione. Ho preso voti anche tra i moderati perché sono stato me stesso, con i valori e le ragioni in cui credo. Invece si perde quando non si è se stessi. Si perde quando ti presenti agli elettori come uno Zelig: governo e voglio attenuare le differenze rispetto a quelli che hanno governato prima di me, mi oppongo e voglio essere come quelli che si oppongono più di me...».
Teme che a dare la linea siano Agnoletto e quelli del movimento?
«Questo movimento porta il segno della diffusione dei soggetti politici e sociali nel Paese. L’idea che la politica siano solo i partiti, i gruppi dirigenti e le loro dinamiche, non corrisponde alla realtà. Ci sono milioni di persone che fanno esperienze sociali, civili e politiche in altre sedi: le organizzazioni non governative, il volontariato, le associazioni. Ma è un mondo molto preoccupato dal fatto di poter essere strumentalizzato. Il suo valore è di essere pacifico e autonomo: chiunque ci metta il cappello sopra fa del male al movimento».
Si riferisce a Bertinotti?
«A chiunque ci provi».
E lei cosa intende fare?
«Prendere sul serio le cose concrete che ci propongono questi ragazzi. A Roma ci sarà nei prossimi mesi il vertice Fao sull’alimentazione. Roma sarà una città aperta. Questa città deve diventare il luogo-simbolo della lotta contro la povertà. Ho chiesto a Thabo Mbeki di parlare di questi temi in consiglio comunale. Ho molto a cuore l’idea del C15, mettere insieme i sindaci delle grandi città, quelli che sono in frontiera, per costruire il punto di vista sociale della globalizzazione».
Ne parlerà anche con Berlusconi?
«Gli comunicherò questa iniziativa».
Vuole fare il ministro degli Esteri ombra?
«In nessun modo voglio esercitare un ruolo che non mi compete. C’è pieno rispetto della politica estera del governo. Però una città come Roma ha una dimensione internazionale che deve far valere. Ruolo rafforzato dalla presenza del Papa, che a lungo è rimasto l’unico leader mondiale a parlare delle questioni della globalizzazione».
Non abbiamo parlato del prossimo congresso dei Ds...
«All’ultimo congresso, quello di Torino, avevamo messo al centro l’“I care” di don Milani, ma anche i fratelli Rosselli. L’idea che la sinistra che governa, che sceglie, si facesse carico di una sofferenza che non può essere «invisibile agli occhi», come avrebbe detto Saint-Exupery. Una sinistra che non rinuncia alla sfida del governo e che non perde la testa perché sta all’opposizione e fa la caricatura di Rifondazione. Esattamente il contrario di un’operazione piccola e strumentale di rapporto con un movimento di piazza. E dunque ripeto: la grande nuova sinistra italiana nascerà solo dalla capacità di unire riformismo e radicalità. Altrimenti rischiamo di riprodurre altri casi come Genova».

(L'Espresso 2 agosto 2001)

 

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