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Carlo Giuliani

pallanimred.gif (323 byte) L'altra verità su Giuliani

G8 di Genova: a sei mesi dalla morte del giovane manifestante è giallo sulla ricostruzione della Procura

 

di Carlo Bonini e Anais Ginori

GENOVA — Le parole di Giuliano Giuliani sono un soffio: «Maledetta quella foto Reuters… Carlo, l'estintore, la Land Rover così vicina… Quell'immagine ha impiccato la verità all'illusione di un ultimo istante. Ma ora lo posso dire: mi sembra difficile poter sostenere che mio figlio sia stato ucciso per legittima difesa». Perché? Perché non si dovrebbe credere all'evidenza del fotogramma simbolo del 20 luglio 2001? Dove l'«inganno»? Quale deformante lente avrebbe illuso l'occhio e celato una possibile «altra verità»? Cosa, sei mesi dopo, autorizzerebbe a riscrivere la sequenza dei trenta secondi di violenza e morte in piazza Alimonda?
Si dice — a ragione — che non esistano buone risposte ma soltanto buone domande. Giuliano Giuliani ne è andate facendo di molte. E con lui il suo avvocato, Giuliano Pisapia. L'«evidenza» ne è uscita ammaccata.

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Carlo Giuliani muore alle 17 e 27 del 20 luglio. L'autopsia certificherà che ad ucciderlo è un proiettile entrato all'altezza dello zigomo sinistro e fuoriuscito dalla zona occipitale. La morte non è istantanea. Giuliani agonizza per almeno 15 minuti, protetto da un cordone di polizia. Un medico volontario del Genoa Social forum, il primo a portargli soccorso, riferisce di un battito cardiaco flebile, dell'impossibilità di verificare in quei frangenti in quale zona del cranio si sia aperta la ferita. Di una lacerazione «a stella» sulla fronte, erroneamente individuata in un primo momento come la lesione mortale. A conferma della difficoltà, il medico legale, rileva le dimensioni modeste del foro d'entrata del proiettile — 8 millimetri — non quelle del foro di uscita, comunque più piccolo del primo.
Carlo Giuliani — le immagini fotografiche e televisive non lasciano spazio al dubbio — viene colpito mentre a breve distanza da un Land Rover defender dei carabinieri solleva all'altezza delle spalle un estintore scarico del suo contenuto e del peso di circa sei chilogrammi. La jeep dell'Arma, in quel momento, è chiusa su un lato di Piazza Alimonda. Il muso incastrato in un cassonetto, il lunotto posteriore infranto, il motore spento. Sulla jeep si è già abbattuta una prima volta la furia di una decina di manifestanti. E' stata investita sulla fiancata destra da un colpo di asse. L'estintore, che Giuliani solleva al momento della morte, è già stato scagliato una prima volta contro il defender. Ha colpito il tetto, è rimbalzato sulla ruota di scorta prima di ricadere sull'asfalto. Intorno, piovono sassi.
Nel defender dell'Arma sono in tre: il carabiniere di leva Dario Raffone, l'autista a ferma biennale Filippo Cavataio, l'ausiliario Mario Placanica. Tutti in forza al dodicesimo battaglione «Sicilia». La jeep ha il lunotto posteriore sfondato. Le immagini fotografiche e televisive mostrano un braccio teso ad impugnare una calibro 9 di ordinanza, rivolta in direzione di Giuliani. Le registrazioni foniche documentano l'esplosione di due colpi. Quanti sono i bossoli ritrovati nell'immediatezza del fatto. Uno all'interno del defender, l'altro all'esterno, sull'asfalto. L'incrocio tra le immagini e il picco delle onde sonore fatte registrare dall'esplosione dei colpi documentano senza ombra di dubbio che nel momento in cui la pistola spara una seconda volta, Carlo Giuliani è già sull'asfalto in un lago di sangue.
L'intera sequenza dura trenta secondi. Quanti ne sono passati tra il primo assalto dei manifestanti e il secondo colpo di pistola. Ne restano 4 di secondi, prima che la jeep esca dal campo visivo. Il motore del defender riprende vita. L'autista Cavataio innesta la marcia indietro travolgendo il corpo di Giuliani. Quindi lo sormonta una seconda volta in senso inverso.
[ * * *]
La notte del 20 luglio il canovaccio è pressoché scritto. Interrogato, Placanica, «che zoppica manifestamente con la gamba destra e mostra un ginocchio destro gonfio ed escoriato», dichiara di aver esploso due colpi della pistola di ordinanza, ma di ignorare contro chi. Così ricostruisce il momento chiave nel verbale di interrogatorio: «Mi sono messo a gridare, dicendo all'autista di scappare ed urlandogli che ci stavano ammazzando. Eravamo infatti circondati e io ho inteso che ce ne fossero centinaia(...). Ho visto in difficoltà il mio collega (è Raffone, ma Placanica non ne fa mai il nome, ndr.) e ho pensato che dovevo difenderlo. L'ho abbracciato per le spalle e ho cercato di farlo accucciare sul fondo della jeep. (...) Continuavano ad arrivare pietre nella vettura. Il mio amico è rimasto colpito da una pietra sotto l'occhio. Sempre più terrorizzato urlavo all'autista di muoversi che non ce la facevo più. Dopo aver gridato mi hanno colpito con una grossa pietra in testa di colore bianco con i lati taglienti. Per ben due volte. Alla vista del sangue e del mio amico ferito ho messo il colpo in canna alla pistola che tenevo in una fondina a coscia, rimettendo però la sicura. Intimavo ai manifestanti di farla finita, sennò avrei sparato. Loro imperterriti hanno continuato a lanciare pietre. Nell'agitazione, e cercando di difendermi, mi sono accorto a posteriori che con la mano avevo inavvertitamente levato la sicura. Il lancio è continuato ed ho sentito la mia mano contrarsi e partire dalla pistola due colpi (...). Alla mia vista, nel momento in cui puntavo la pistola, non avevo persone».
L'arma di Placanica — soltanto la sua — viene sequestrata. E' tutto chiaro. Il caso, come del resto invitano a fare gli avvocati dell'Arma, potrebbe chiudersi ora, subito, lì, alle 00.10 del 21 luglio, quando viene chiuso il verbale di interrogatorio. Il giovane carabiniere ha sparato per legittima difesa.

[ * * *]

Il corpo di Carlo Giuliani viene cremato. Del suo ultimo pomeriggio da vivo, restano una pistola calibro 9, un referto autoptico, un sacco con gli indumenti indossati al momento della morte, la tac e le lastre craniche effettuate sul cadavere, una serie di video amatoriali, delle foto. Resta quella «maledetta foto della Reuters».
Silvio Franz è magistrato per bene, scrupoloso. Appare ad inchiesta appena istruita. L'indagine è affar suo. Certo, c'è la pistola, ci sono i bossoli, ma del proiettile non c'è traccia. Dispone una perizia dall'esito sorprendente: i due bossoli non sono stati espulsi dalla stessa pistola. Il bossolo raccolto sull'asfalto è compatibile «soltanto al 10 per cento» con la calibro 9 di Placanica. Forse — azzarda il perito — ha sparato una seconda arma.
Franz ordina allora quel che non venne ordinato la sera del 20 luglio. Che una nuova perizia (della polizia scientifica di Palermo questa volta) esamini la compatibilità dei due bossoli calibro 9 con le pistole di tutto l'equipaggio del defender e con le altre quattro che quel pomeriggio del 20 hanno sparato in altri angoli della città. In via Tolemaide, alla Foce.
Nessuna compatibilità, risponde il perito. Ma — è storia di avantieri — piena compatibilità con la pistola di Placanica. Due perizie, due esiti opposti. C'è di più: la perizia fissa anche la distanza — al momento del primo fatale sparo — tra Carlo Giuliani e il defender. Tra il metro e dieci e il metro e quaranta, secondo un calcolo di proiezione che incrocia i dati dell'altezza della jeep, la statura di Giuliani, il foro di entrata e di uscita del proiettile.
Affidato alle perizie di ufficio, il «fatto storico», «evidente», ha già traballato. Forse questione di metodo, di diversità nei parametri utilizzati, ragiona Silvio Franz. Forse. «Metterò a confronto le perizie», dice. Ma il resto appare pacifico: Placanica ha sparato, Carlo Giuliani si trovava in quel momento a poco più di un metro dal posteriore del defender, brandendo un estintore. Di qui a qualche settimana — scadenza dei sei mesi giudiziari di indagini preliminari — si dovrà ragionare solo «in diritto». Legittima difesa e dunque archiviazione. Eccesso colposo di legittima difesa e quindi rinvio a giudizio.

[ * * *]

Giuliano Giuliani è uomo caparbio. Giuliano Pisapia è avvocato di raffinata intelligenza. Non gli è difficile afferrare che il processo si gioca su centimetri di asfalto. Più lontano Carlo è dal defender più difficile sarà sostenere che Placanica non ebbe scelta. Che tra la sua vita e quella di un coetaneo non si diede alternativa. «La maledetta foto Reuters — spiega Giuliano Giuliani — schiaccia mio figlio contro il defender. Il teleobiettivo mangia metri e metri di asfalto. Carlo era almeno a quattro metri di distanza. E almeno una foto, scattata da altra angolazione, quella di Marco D'Auria, dimostra che viene colpito mentre è in fase di carico dell'estintore. E' ancora troppo lontano dalla jeep per essere una minaccia».
Tra quattro metri e poco più di 110 centimetri ci sono due verità opposte. E tornare in piazza Alimonda, sei mesi dopo, aiuta a capirlo. Scostati di quattro metri (la lunghezza del defender) dal cassonetto contro cui la jeep si incastrò, la sagoma di un uomo a due passi non incombe come quella di un uomo a dieci. E se fosse dimostrato, poi, come suggerisce almeno una delle foto scattate in quei frangenti, che Carlo Giuliani viene colpito nel momento in cui è leggermente proteso in avanti nello sforzo, appena iniziato, di sollevare l'estintore, allora si comprenderebbe l'altra «verità» raccontata dalle parole del padre: «E' come se lo vedessi con i miei occhi, Carlo. Placanica che urla Porci bastardi vi ammazzo tutti!, mostrando la pistola. Lui che lo fissa mentre raccoglie l'estintore e gli grida di buttarla via…».
«Tutto questo è giusto», annuisce l'avvocato Pisapia. «C'è troppo asfalto tra Carlo e il defender. Ma soprattutto ci sono troppe cose che non tornano. Per gli interi 30 secondi della sequenza, il braccio teso che impugna la calibro 9 all'interno della jeep non si abbassa mai. Quel braccio — lo documentano le foto — è teso quando Carlo ancora non si è avvicinato al defender e non ha neppure raccolto l'estintore. Ma, soprattutto, quel braccio è torto in una posizione innaturale. Che non è quella di chi preso dal panico spara per allontanare il pericolo. E' quella di chi sta mirando nel suo campo visivo. Dunque, delle due l'una: o non è vero che Placanica aveva perso la testa, come dice, e dunque non ha agito in legittima difesa o non è stata l'arma di Placanica a uccidere a Carlo».
@AR Tondo:«Non è stato Placanica a sparare a Carlo». Mettere in dubbio l'evidenza delle evidenze è esercizio acrobatico. Pisapia lo fa con il metodo di chi si è posto la più semplice delle domande, ottenendo la più sconcertante delle risposte. «Che Placanica spari è pacifico. Ma siamo sicuri che sia stato il colpo esploso dalla sua pistola ad uccidere Carlo? Che danno provoca un calibro 9 esploso al volto da breve distanza? Non c'è letteratura che non dica devastante».
Un calibro 9 avrebbe dovuto sfigurare il volto di Carlo Giuliani. Sappiamo che non è andata così. Sappiamo anche che il proiettile non è stato mai ritrovato. Pisapia si fa pensoso: «Il foro d'entrata e quello di uscita sono indizi di un calibro più piccolo di un 9. Direi un 7,65, addirittura un 22». Ma se così fosse, la conseguenza non potrebbe che essere una. «All'interno della jeep sparò una seconda pistola, impugnata da un quarto uomo».
Due settimane fa, Repubblica rivelò l'esistenza di un testimone che si dice certo di aver visto a bordo del defender quattro uomini e non tre. Pisapia, che quel testimone ha trovato, è convinto che dica la verità. «Una foto scattata lungo la fiancata sinistra della jeep al momento dello sparo mostra un militare che si copre la tempia con una mano. Quel militare somiglia incredibilmente a Placanica. Come poteva dunque essere lui ad impugnare la pistola? Se il braccio teso non fosse il suo? Dirò di più. Nel suo verbale di interrogatorio, Placanica racconta che allontanandosi da piazza Alimonda la jeep si ferma due volte: per far salire a bordo un collega che offre protezione con lo scudo e un maresciallo. Ma, attenzione, dice testualmente: è salito un altro maresciallo. Domanda: ce n'era forse già uno a bordo? E chi era? E' il quarto che stiamo cercando?».
@AR Tondo:L'affare si ingarbuglia. Se fosse vero che a sparare sono state due pistole — e di calibro diverso — tre dovrebbero essere gli echi che si sentono nelle registrazioni (qualche testimone riferì di più di due esplosioni). Ma Pisapia non sembra preoccupato dell'obiezione. «In questa storia la verità è ancora da scandagliare. Senza arrivare al calibro del proiettile basterebbe chiedersi l'origine della ferita a stella sulla fronte di Carlo. E' una lesione post mortem, verosimilmente inferta con un sasso». L'ultimo terribile sospetto scivola come un brivido. «Oggi non posso escludere che qualcuno dei militari che fecero cordone intorno al ragazzo agonizzante lo abbia potuto colpire alla fronte con un sasso per simulare che fosse stata la sassaiola dei manifestanti la causa di morte. E almeno una circostanza autorizza ad interrogarmi. Un testimone ricorda di aver sentito un carabiniere gridare ad un manifestante con in mano una pietra, assassino, sei stato tu ad ucciderlo!».
Giuliano Giuliani strozza il mozzicone dell'ennesima Diana blu: «Troppi hanno parlato troppo presto. Troppe sentenze premature, senza rispetto. Lo dico sommessamente, perché non sono un giudice. Sono solo il papà di Carlo Giuliani». 

(la Repubblica, 19 gennaio 2002)

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