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Carlo Giuliani

pallanimred.gif (323 byte) "Vi raccontiamo Carlo e la sua vita spezzata".

I genitori: i suoi amici cenano ancora da noi
Nato nei giorni del sequestro Moro, scriveva "limerick" e
detestava mettersi in posa: e così di lui sono rimaste
pochissime foto di famiglia

di Fabrizio Ravelli

GeNOVA - «Carlo non voleva mai farsi fotografare. Spariva
appena vedeva una macchina fotografica. Non gli piaceva
mettersi in posa». La sua famiglia ha più foto di Carlo morto -
steso sull'asfalto di piazza Alimonda, nel suo sangue - e di
Carlo che stava per morire - lui che raccoglie un estintore, lo
solleva, la pistola del carabiniere già puntata - di quante non
ne abbia ritrovate negli album di casa. Elena, la sorella
maggiore di sette anni, li va a prendere questi album, e li
sfoglia a fatica. Giuliano Giuliani e sua moglie Heidi, qui nel
giardino di casa, hanno gli occhi lucidi.
Domani è il giorno del ricordo, la prima pesante ricorrenza, un
mese da quel venerdì 20 luglio. Vorrebbero tenersi stretto il
ricordo del loro ragazzo, e insieme condividerlo con chi vuole
solo ricordare. Ma non farselo strappare, non lasciare che
diventi un'icona. «Ho letto che ci saranno commemorazioni in
molte città d'Italia e del mondo - dice lui -. A Genova si
porteranno dei mazzi di fiori in piazza Alimonda, come si fa
da un mese: mi sembra una cosa molto bella. Sono invece
disgustato che qualcuno voglia impossessarsi della sua
memoria, magari abusarne per farneticanti rivendicazioni
come quella della bomba di Venezia. Ricordiamo che Carlo
ha subìto la più drammatica delle ingiustizie, ma era
totalmente estraneo a qualunque forma di appartenenza».
La cosa migliore, perché Carlo resti di tutti com'era e non
diventi un simbolo di nessuno, è per i suoi genitori raccontarlo
semplicemente. «Non è stato un figlio facile - dice la mamma
-. Proprio per questo, è stato un figlio molto ricco di tante
cose. Da un mese a questa parte riceviamo centinaia di
messaggi su di lui. Suonano alla porta tanti suoi amici, che
vengono a parlare. Tutte le sere metto su due pentole di
pasta, perché c'è qualcuno a cena. Sono tanti, gli amici di
Carlo». «Fra i tanti regali che ci ha fatto - dice il padre - c'è
anche questo riannodare fili con persone che conoscevamo
appena, e annodarne con chi non avevamo mai visto». Sul
conto corrente per opere di solidarietà (17963/80, Carige
agenzia 30) sono già arrivati più di 40 milioni.
«Aveva un senso della fratellanza e dell'amicizia così forte -
continua - che riusciva ad essere amico di un frate
cappuccino, come dei figli della borghesia di Albaro, come dei
ragazzi di strada, o di quelli dei centri sociali dove andava ad
ascoltare la musica. Proprio perché pensava che appartenere
a un gruppo lo avrebbe escluso da altri». Sempre di corsa,
irrequieto, veloce. Piccolino, magro, biondo, coi capelli corti.
Nelle foto famigliari che la sorella Elena tiene in grembo
viene sempre di sbieco, di spalle, un po' mosso, in disparte. In
una ride caricandosi in spalla un amico alto il doppio di lui. In
un'altra appoggia la testa sulla spalla di un amico senegalese,
invitato a cena in casa. Anche lui grosso il doppio. Tutti erano
più grossi di Carlo.
«Aveva orrore della guerra e della violenza in genere. Se
vedeva due litigare, si metteva in messo a dividerli. In quindici
anni di scuola, mai una volta che abbia fatto a botte con
qualcuno. Odiava le sopraffazioni e le ingiustizie, piccole e
grandi». Il padre alza gli occhi calmi, e aspetta la domanda
inevitabile. Perché Carlo è morto su una scena violenta,
mentre con altri assaltava una jeep dei carabinieri? «Ho
timidezza a parlare di questo. Attendo che me lo dicano altri, i
magistrati. La mia è solo l'opinione di un padre. Mi dicano
come sono davvero andate le cose. Posso solo pensare che
Carlo si sia reso conto che i carabinieri stavano facendo
un'ingiustizia».
Carlo è morto poco dopo le cinque del pomeriggio. «Io l'ho
sentito l'ultima volta al telefono intorno alle 3. Era in piazza
Manin. Dove, ho saputo dopo, era successo questo: le forze
dell'ordine davano libertà di azione a frange violente, e
intervenivano pesantemente sulle persone pacifiche. Li ho
visti, poi, lì in piazza: erano i pacifisti della Rete Lilliput, una
follia considerarli violenti». Su «Diario» quattro persone
(Max, Simona, Lucia e Vito) ricordano di avere incontrato
vicino a piazza Manin questo signore con la barba: «Ci dice
che è un sindacalista della Cgil, che ha girato l'Italia, Torino,
Roma e poi Genova. Ci dice di evitare Brignole, ha sentito
che lì ci sono scontri». Cercava suo figlio Carlo? Lui risponde
solo: «Sono capitato lì. Avevo altri impegni. Altrimenti sarei
andato alla manifestazione, anche se non ho mai pensato che
il G8 fosse illegittimo».
Di manifestazioni i Giuliani ne hanno viste. Lui 28 anni nel
sindacato, lei maestra, del Pci tutti e due. «Ero al corteo in
difesa di Cuba, dopo la Baia dei Porci, quando venne ucciso
Ardizzone», racconta lui. «A Milano - continua lei - durante
una delle tante manifestazioni per il Vietnam, in mezzo ai
lacrimogeni vidi uno della Ps che con una bandiera stava
picchiando un tizio steso a terra. Gli ho chiesto: me la dà,
quella bandiera? Me l'ha data». Però nessuno dei due ha mai
visto cose tremende come quelle successe a Genova, quando
Carlo è morto. Lui dice: «In nessun modo ci può essere
giustificazione della violenza. Da nessuna parte». Lei dice:
«Ma è più grave se viene dallo Stato. Io credo che Carlo, se
fosse stato dall'altra parte, nei panni di quel carabiniere, non
avrebbe sparato».
Giuliano Giuliani è molto netto: «Il mio rispetto per le
istituzioni e per le forze dell'ordine attende di essere
confermato da comportamenti che consentano alle persone
pacifiche di manifestare il loro pensiero, e di isolare i violenti
da qualunque parte vengano. In un paese democratico la
violenza deve essere bandita. E' sbagliato anche tirare sassi
se si viene aggrediti». La madre ha più rabbia dentro:
«Qualcuno però ci si è trovato, a reagire». Lui insiste: «Non
porta da nessuna parte. La violenza isola. La scelta di una
possibile violenza riduce la possibilità di essere in tanti, di
mettere insieme anziché dividere».
Carlo non era un violento, ripetono. Il padre ricorda:
«Qualche anno fa io e Carlo siamo stati a Remagen, nella
valle del Reno. C'è un bellissimo monumento alla pace, sul
bastione del ponte che guarda a Ovest. C'è una parete dove
ogni piastrella ricorda tutte le guerre scoppiate dopo il ‘45.
Discutemmo molto, quella parete l'aveva colpito. Ogni volta
che c'era una guerra nel mondo, lui pensava che la colpa
fosse delle multinazionali e dei mercanti d'armi. Io gli dicevo
che, a volte, le cose sono più complicate». Si è sempre
discusso molto, in casa Giuliani. Elena, la sorella: «Mia
mamma, la svizzerotedesca, vietava la televisione. Da piccoli
ci raccontavamo storie, che erano l'Iliade e l'Odissea». «Si
parlava di tutto, con Carlo. Del G8, dei McDonald's: lui non
era né un consumatore di hamburger né un lanciatore di
sassi». Da un anno Carlo abitava altrove: «Ma ci telefonava
tutti i giorni, e ci vedevamo due volte alla settimana».
Carlo nato il 14 marzo del ‘78: «Portai a mia moglie in
ospedale la notizia del sequestro Moro». Carlo che scriveva
«limerick», poesie con solo due consonanti, oppure
monovocaliche, biglietti in rima alla mamma. «Ci ha insegnato
a vedere che cosa c'è nelle persone, oltre le apparenze». Le
sue foto di famiglia sono poche. Padre e madre guardano le
altre: «Nella prima, presa dal basso, sembra Maciste. Nelle
altre si vede piccolo com'era. Raccoglie quell'estintore. Gli
puntano la pistola. Forse non voleva lanciarlo». Chi fosse
Carlo, nelle fotografie non si è mai capito bene.

(la Repubblica, 19 agosto 2001)

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