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         | Carlo Giuliani Per
        il movimento un martire e un altare Dove
        è caduto Giuliani deposte le «armi» dei contestatori di Filippo
        Ceccarelli 
 Carlo, il morto, il
        caduto, il martire... Carlo: e basta. Non sono nemmeno dodici ore e capiscono tutti di chi
        si parla. Il nome risuona ormai con unintensità quasi familiare, in quel magma
        incandescente che sempre più è il movimento. «Il colpo che ha ammazzato Carlo», «la
        famiglia di Carlo» dice Agnoletto, con la fascia nera del lutto sul braccio;
        «lomicidio di Carlo», «il corpo di Carlo» dice Casarini, come se lo avessero
        conosciuto.  E così Carlo Giuliani - quello che
        per i politici e i mezzi di comunicazione è «il giovane ucciso» - nelle strade e nei
        campeggi è ormai solo e semplicemente Carlo, presenza sacra per migliaia e migliaia di
        ragazzi che, come Casarini e Agnoletto, non lhanno mai nemmeno incrociato, ma adesso
        che è morto ammazzato lo sentono «uno di noi». Anche se laltroieri non si sono
        battuti come lui, e anzi sono contrari ad assaltare le camionette dei carabinieri. Ma
        quando scoppia la guerra, è appunto la guerra. E quella foto di spalle, quel
        passamontagna, quelle braccia che scaraventano lestintore, quella pistola puntata,
        oltre a girare il mondo, resterà impressa nella memoria di questa nuova «generazione di
        piazza» che a Genova ha avuto il suo autentico «battesimo del fuoco».  E allora, per dire: quella foto, un
        hacker lha già spedita ad oscurare il sito internet della prefettura di Trapani,
        con la scritta sovrimpressa «Uno spiacevole inconveniente» (infelice frase
        berlusconiana). Mentre sui muri bruciacchiati di Genova si legge: «Cc assassini Carletto
        vive» e anche in spagnolo «Carlo te vengaremus». E il circolo sociale Askatasuna
        marciava sotto uno striscione: «G8 assassini forza sociale per vendicare Carlo». Carlo,
        e si alzano miriadi di mani durante il minuto di silenzio alla fine della manifestazione
        di ieri.  Ci sono anche altre foto, ancora
        più impressionanti, di Carlo Giuliani. Non sono foto di battaglia, ma di morte: le
        braccia e le gambe aperte, gli scarponcini, una pozza di sangue sullasfalto, una
        tuta bianca con le sue goffe imbottiture chinata sul cadavere. E insomma, per la più
        crudele e ordinaria dinamica della guerra, dopo una vita breve e tuttaltro che
        semplice, da morto Giuliani non solo è diventato in poche ore un simbolo, ma
        lemblema, il nome, il volto, il marchio a fuoco, il «martire», insomma, che
        mancava a questo movimento (cui sembrano mancare anche, per la verità, esperienza e
        buonsenso).  «Martire» è certo parola
        impegnativa, da commisurarsi a un universo complesso che nei movimenti collettivi si
        immagina non di rado governato da terribili scambi sacrificali o, per dirla più
        brutalmente, da sacrifici umani. Fatto sta che ieri la piazza dove è caduto Giuliani ha
        cambiato nome. Qualcuno è salito sul muro e al posto di Gaetano Alimonda, ha scritto con
        la spray rosso sulla targa di marmo: «Piazza Carlo Giuliani». E sotto: «ragazzo». A
        qualche metro di distanza, là dove questo ragazzo ha finito di vivere, è stato montato
        un inconsapevole altare, impressionante documento di sacralità neo-movimentistica. Sopra
        la segatura che ha raccolto il sangue tanti fiori rossi, anche presi dalle aiuole delle
        strade.  E poi le insegne, anche rosse, una
        sciarpa, una bandiera, la t-shirt con la scritta «Hanno ucciso un ragazzo nella piazza
        dove sono nato»; e le armi dei guerrieri di Genova: il casco di plastica, la corazza con
        la gommapiuma, la maschera antigas, un bastone e un candelotto lacrimogeno come
        candelabro. I segni eterni della morte in guerra, delimitati per un verso da
        unincongrua transenna dei gelati Sammontana e per laltro da un carrello mezzo
        rotto di supermercato, pieno di bottiglie di plastica, forse unorrida composizione
        contro il consumismo. Cera anche un amico di Carletto sul posto, ieri mattina, la
        faccia stravolta e una maglietta nera con su scritto «Versace Couture», debitamente
        intervistato dai tg. Diceva quello che dicono gli amici degli amici morti. Ce laveva
        con i giornali per il modo in cui avevano presentato Carlo. Diceva: non era così, non era
        così.  Quasi mai i morti sono come li
        rappresentano i giornali. Ancora più irriconoscibili sono i morti in battaglia. I media
        tagliano le persone con laccetta. Vai a sapere come era veramente Carlo Giuliani.
        Quali guai, quali passioni, quali libri, quanta tv, quale musica, quanti affetti. E
        un dubbio che vale per tutti i «martiri» schiantati a ventanni negli anni non a
        caso detti di piombo: i Serantini, i Franceschi, Giorgiana Masi, ma anche Mikis Mantekas o
        i ragazzi della sezione missina di via Acca Larenzia. Certo, desta sospetto che a poche
        ore da quei colpi di pistola, a Giuliani fosse già stata affibbiata la più scomoda delle
        appartenenze, anzi la più ripugnante nella scala dellapprezzabilità sociale:
        punkabbestia. Uno che vive in mezzo ai cani e chiede lelemosina. I punkabbestia
        sembrano figure letterarie o artistiche e di politico in verità hanno poco o nulla.  La loro «auto-animalizzazione»,
        più che antagonismo, esprime lestremo rifiuto, il ribaltamento delle convenzioni.
        Ora viene fuori che questo figlio ribelle di un padre sindacalista, viveva di lavoretti
        precari, né aveva cani. Per cui la questione potrebbe essere più insidiosa: quale
        movimento potrebbe riconoscersi in un punkabbestia? E ancora: con che cuore si può
        stabilmente classificare come punkabbestia, o anarchico, o tuta bianca, o nera uno di 23
        anni?  Limpressione, piuttosto, è
        che non Carlo vivo, ma Carlo morto in battaglia, Carlo in passamontagna, Carlo che non
        aveva documenti addosso e lhanno identificato grazie al telefonino, rappresenta
        parte di quel mondo giovane, povero e contraddittorio che si è visto per la prima volta
        nella «guerra di Genova» con le sue magliette, le sue birre, i suoi tascapani a
        tracolla, le sue telecamere digitali, le sue pietre. E un mondo avido di simboli che
        nessuno rappresenta. Ed è questo il guaio. Beata la protesta che non ha bisogno di morti.
         (la Stampa, 22 luglio 2001) torna a Speciale G8     |