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RSI
Il processo di Verona
Alessandro Pavolini
Nel gennaio del '44 l'Italia è divisa in due; eserciti
stranieri ne calpestano il suolo. Nelle strade, nelle città e sulle montagne del centro e
del nord si combatte una guerra fratricida. Verona diventa improvvisamente protagonista. I
puri e duri della Repubblica Sociale intendevano vendicare il 25 luglio (giorno della
caduta del fascismo e dell'arresto di Mussolini) e punire i 19
gerarchi fascisti membri del Gran Consiglio del Fascismo che avevano aderito all'ordine
del giorno Grandi. La Repubblica sociale con una mostruosità
giuridica (il decreto 11/11/43, di fatto una norma penale con effetti retroattivi) aveva
voluto dare la formalizzazione giuridica alla vendetta, costituendo per l'occasione anche
un tribunale destinato solamente a giudicare coloro che avevano approvato l'ordine del
giorno.
Peraltro solo sei dei diciannove ricercati erano stati arrestati: gli altri era riusciti a
sottrarsi alla polizia fascista, che aveva però potuto mettere le mani sul personaggio
più ambìto, Galeazzo Ciano, che non aveva esitato a cercare rifugio in Germania,
convinto com'era che la sua parentela col Duce gli avrebbe assicurato limpunità.
Pavolini aveva personalmente compilato la lista dei giudici per
sottoporla all'approvazione del Duce: e già questa lista era significativa perché i
giudici, come del resto era previsto dalle norme istitutive del Tribunale Speciale,
dovevano essere "fascisti di provata fede" e in particolare erano da scegliersi
fra quanti "avessero avuto a patire per la loro fedeltà all'idea". L'esito del
processo era dunque scontato.
Il processo si celebrò dall'8 al 10 gennaio del 1944 nel
maniero di Castelvecchio, nel quale solo pochi giorni prima il Congresso del neonato
Partito Fascista Repubblicano aveva invocato a gran voce la morte dei "traditori
dell'idea".
Cinque condanne a morte, per Ciano, Marinelli, Gottardi, De Bono e
Pareschi e una condanna a trent'anni per Cianetti (che salvò la pelle per aver ritrattato
il giorno successivo la sua adesione all'ordine del giorno Grandi) conclusero una cupa
farsa giudiziaria.
La notte del 10 gennaio del 1944 le autorità della Repubblica Sociale
si trovarono tra i piedi un ostacolo che non avevano previsto: le domande di grazia.
Mancava, nel decreto istitutivo del Tribunale Speciale, la stessa previsione delle domande
di grazia: a chi andavano dunque rivolte, qual era autorità che poteva ancora decidere
della sorte dei cinque condannati? L'avvocato Cersosimo, istruttore del processo, suggerì
a Pavolini, per analogia con le norme che regolavano il funzionamento del vecchio
Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, di sottoporre le domande di grazia alla
massima autorità militare territoriale, il generale Piatti del Pozzo, comandante
dell'esercito a Padova. Questi però, con l'appoggio di un consulente legale, respinse
seccamente l'incombenza e Pavolini, che aveva con sè le domande di grazia, iniziò una
strana peregrinazione in compagnia di Cosmin, prefetto di Verona, di Fortunato, p.m. al
processo e del capo della polizia Tamburini. Andò dapprima da Pisenti, ministro della
Giustizia, che disse che avrebbe subito sottoposto le domande a Mussolini: esattamente
ciò che Pavolini non voleva. Disse che della faccenda si era occupato esclusivamente il
partito, e che il Duce non doveva essere posto di fronte ad una alternativa così
dolorosa.
Ma proprio lui, Pavolini, come massima autorità del partito, si
dichiarò incompetente a respingere le domande di grazia. Fu interpellato allora anche il
Ministro dell'Interno, Buffarini Guidi, il quale a sua volta ebbe la pensata di scovare un
comandante militare disposto ad assumersi la responsabilità dell'esame delle domande.
Dopo varie telefonate ed altre peregrinazioni, Pavolini riuscì a mettere le domande in
mano al console della milizia Italo Vianini, ispettore della V Zona, e quindi competente
per territorio. Così, con una procedura contorta (le domande non furono espressamente
respinte ma semplicemente "non inoltrate", e con lo stesso provvedimento Vianini
ordinava l'esecuzione della sentenza) i cinque condannati furono avviati alla morte.
Pavolini avrebbe potuto salvarli: nessuno, nella Repubblica sociale,
sapeva di preciso dove risiedesse lautorità. Soprattutto avrebbe potuto salvare il
suo grande amico, Ciano (gli altri imputati, con l'eccezione di De Bono, erano degli
sconosciuti al grande pubblico), l'uomo contro il quale era di fatto celebrato il
processo. Non si può certo ipotizzare che Pavolini nutrisse per Ciano l'odio, mai
nascosto, che avevano tanti altri fascisti: il genero del Duce era considerato infatti un
arrampicatore, un profittatore, tanto più meritevole di punizione ora, per i fascisti
"puri e duri" della Repubblica Sociale. Assumendosi la responsabilità di
accogliere le domande di grazia (era stato lui stesso a obiettare a Pisenti che "la
faccenda era di competenza del partito") Pavolini avrebbe potuto mostrare che il
nuovo stato fascista era in grado di punire, con la gravità della sentenza, ma anche di
essere magnanimo.
La sentenza dei cinque condannati presenti, veniva eseguita la mattina dell11 gennaio
1944.
approfondimenti:
Biografie
gerarchi fascisti
Il
25 luglio del '43
Nota: le notizie sono in gran parte
tratte dall'articolo di Paolo Deotto "Il dottor Pavolini e Mister Brigata Nera"
(storia in network)
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