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RSI: l'occupazione tedesca
Italia, provincia del Reich
a cura di Enzo Collotti
La suggestiva formula dell'"alleato occupato", proposta da Lutz
Klinkhammer come chiave di lettura dell'esperienza dell'occupazione dell'Italia da parte
della Wehrmacht in un importante libro [L'occupazione tedesca in Italia 1943-1945
, Bollati Boringhieri 1993] uscito a trent'anni esatti di distanza dalla pubblicazione del
primo studio complessivo sull'argomento condotto sulle fonti tedesche dal sottoscritto [L'Amministrazione
tedesca dell'Italia occupata 1943-1945, 1963], sintetizza bene il doppio volto della
situazione nella quale venne a trovarsi l'Italia dopo l'armistizio dell'8 settembre del
1943. Tagliato in due dalle forze anglo-americane che avanzavano lentamente risalendo la
penisola dalla punta meridionale dello stivale e dal golfo di Salerno, la parte
centro-settentrionale del nostro paese fu occupata quasi senza colpo ferire dalle forze
tedesche. Il 12 settembre, la liberazione di Mussolini dall'improvvisato confino nel
gruppo del Gran Sasso, ad opera di una operazione più spettacolare che spericolata di
paracadutisti tedeschi, segnò il successo propagandistico del quale i tedeschi avevano
bisogno per coprire l'occupazione dell'Italia sotto la parvenza della continuazione
dell'alleanza tra fascisti e nazisti.
In effetti, la sorte dell'Italia fu racchiusa tutta nell'ambivalenza di una condizione
stretta tra le esigenze e la realtà dell'occupazione e la necessità
politico-propagandistica della sopravvivenza di una alleanza, il cui riconoscimento
effettivo si scontrava con condizioni di fatto che oggettivamente tendevano a negarlo. Al
di là dell'interesse personale di Hitler nei confronti della persona, più che del ruolo,
di Mussolini, la Germania era interessata a tenere l'Italia per arrestare l'avanzata
anglo-americana sulle posizioni più lontane possibili dal confine meridionale del Reich.
Quindi, non era in primo luogo il salvataggio dell'alleanza che aveva suggerito di non
abbandonare il territorio italiano e di farne viceversa teatro di una guerra combattuta
chilometro per chilometro, lungo la dispendiosa dorsale appenninica destinata a rendere
particolarmente dura la condotta delle operazioni ai due contrapposti schieramenti
operativi, oltre che alle popolazioni investite dai movimenti del fronte.
La seconda motivazione forte dal punto di vista tedesco a favore del tentativo di
conservare il controllo del territorio italiano era la possibilità di sfruttarne il
potenziale economico, industriale ed agricolo, tanto più in una fase di progressivo
abbandono dei territori occupati nell'est europeo che avevano costituito un'area di
indiscriminato saccheggio, e soprattutto la manodopera italiana che veniva liberata da
obblighi militari. Non era un mistero - e bene lo rivelerà tra l'altro il Diario di
Goebbels - che l'ipotesi della secessione dell'Italia dal conflitto già nei mesi
precedenti era considerata, da una parte almeno dei capi nazisti, quasi come la
liberazione da un peso morto e la prospettiva, finalmente, di potere incondizionatamente
utilizzare gli uomini italiani come lavoratori per lo sforzo bellico del Terzo Reich. La
cattura dopo l'8 settembre di quasi 700 mila soldati italiani non fu una semplice
ritorsione contro il "tradimento" dell'alleato, fu anche un piano premeditato
per il trasporto coatto in Germania di una manodopera che non sarebbe "stato
possibile procurare con metodi diversi".
Le vicende dell'arruolamento e del reclutamento di lavoratori dopo l'8 settembre, con il
fallimento pressoché totale del tentativo di indurre da due a tre milioni di italiani a
recarsi a lavorare nell'apparato della produzione bellica nazista, confermarono che
l'unico mezzo per potere ricavare manodopera forzata erano le razzie indiscriminate. Del
resto, prima ancora che entrassero in funzione le "agenzie" specializzate per il
reclutamento di manodopera, a cominciare da quella incaricata da Hitler di rastrellare
braccia da tutta Europa per la guerra del Reich affidata al "Gauleiter" Sauckel,
sin dal 16 settembre del 1943 il feldmaresciallo Keitel, capo del comando supremo della
Wehrmacht, aveva emanato un ordine draconiano per il trasferimento coatto con tutti i
mezzi possibili, nessuno escluso, del maggior numero possibile di uomini abili al lavoro
dalle aree minacciate dall'occupazione anglo-americana alla zona sotto controllo dei
tedeschi. L'ordine di Keitel indicava un obiettivo ma anche un metodo, che in linea di
massima non fu smentito neppure dopo la creazione formale della Repubblica sociale
neo-fascista.
E qui veniamo alle motivazioni politiche che impedivano alla Germania di abbandonare
l'Italia al suo destino. La Germania aveva bisogno dell'Italia non soltanto come terreno
di sfruttamento economico, ma anche come emblema e simbolo della sopravvivenza
dell'alleanza. Hitler doveva dimostrare ai popoli dell'Europa, nel momento in cui faceva
appello alla difesa della "fortezza Europa" come copertura per la difesa della
Germania e degli interessi esclusivamente tedeschi, che continuava a sussistere lo
schieramento dell'Asse e del Patto tripartito, addirittura rafforzato e non indebolito dal
"tradimento" di Badoglio [la propaganda tedesca, ricacciando tutte le
responsabilità su Badoglio, cercava di dare verso l'esterno una versione riduttiva
dell'uscita dell'Italia dalla guerra], grazie alla fedeltà all'alleanza del nucleo duro
dei fascisti repubblicani. Ma una motivazione ancora più forte consisteva nel monito che
contemporaneamente e implicitamente veniva lanciato all'indirizzo degli altri alleati
satelliti della Germania [in particolare Ungheria e Romania] che avessero voluto seguire
l'esempio dell'Italia. Il messaggio era evidente: nessuno sarebbe sfuggito alla sorte di
dover subire la reazione tedesca e di essere declassato al rango di territorio occupato.
Nel marzo del 1944 infatti l'Ungheria avrebbe subito una occupazione ancora più dura di
quella che fu riservata all'Italia.
A questo punto, anche a prescindere dalle ragioni che imponevano in ogni paese occupato la
necessità di ricercare collaboratori nel contesto locale, per esigenze funzionali e per
opportunità politico-propagandistiche [la ricerca di un consenso, per limitato che
fosse], a maggior ragione necessaria diventava la collaborazione in una situazione come
quella italiana in cui si voleva salvare almeno la facciata della continuità
dell'alleanza.
La problematica della Repubblica sociale italiana è così indissociabilmente legata a
quella dell'occupazione tedesca.
La Rsi svolse in questa fase un duplice ruolo: quello del collaborazionismo con gli
occupanti e al tempo stesso quello dell'antagonista delle forze della Resistenza [appunto,
le parti in causa della "guerra civile", in quanto protagonista del tentativo di
risuscitare il fascismo, anche attraverso una sorta di autocritica rispetto al fascismo
del ventennio ma sempre all'ombra delle armi tedesche. La presenza della Wehrmacht fu il
presupposto di questo tentativo di reviviscenza neofascista: quale che sia il ruolo che si
vuole attribuire alla Rsi, semplice creazione dei tedeschi o espressione autonoma di una
volontà di collaborare con i tedeschi nei limiti indicati, è all'interno di queste
coordinate e di questo contesto che va situata la sua collocazione.
Mussolini dovette avere ben presto la sensazione di essere costretto a recitare la parte
di un Quisling o di un "Gauleiter", ma era poco più che un ostaggio nelle mani
di Hitler. Non gli riuscì neppure il tentativo di salvare la faccia del nuovo fascismo
repubblicano. Animato a parole da volontà di pacificazione, nei fatti dovette cedere al
volto neosquadristico e truce del fascismo repubblicano. La fucilazione di Ciano e degli
altri gerarchi che gli avevano votato contro nella riunione del Gran Consiglio segnò il
prevalere della ragione di stato e dello spirito di vendetta su ogni altro comportamento.
Anche questo, con la crescente brutalizzazione nei metodi, con l'intimidazione della
popolazione o con la ferocia dei rastrellamenti antipartigiani, un aspetto di quella
nazificazione del fascismo di Salò che è una delle cifre per leggere la realtà di quei
terribili venti mesi.
Nell'Italia occupata le autorità tedesche si sovrapponevano sistematicamente alle
infrastrutture italiane. Gli organi dell'occupazione avevano bisogno della collaborazione,
ma non intendevano pagare che il prezzo minore possibile. L'autonomia che esse erano
disposte a lasciare alle forze collaborazioniste era in funzione delle loro esigenze, non
di quelle dei collaboratori. La misura dell'autonomia andava perciò rapportata a ciò che
la potenza occupante reputava funzionale ai suoi obiettivi; perciò, nel momento in cui
una autonomia troppo larga minacciava di mettere in discussione la subalternità
dell'occupato la potenza dominante restringeva l'area delle concessioni. In questi termini
la Germania gestì le modalità della collaborazione in tutta l'Europa occupata. Non c'era
ragione perché, con pochi adattamenti, lo stesso modulo non dovesse funzionare anche in
Italia. L'ultima parola non spettava a Mussolini o ai suoi collaboratori ma
all'ambasciatore Rahn, il vero capo del governo civile della Rsi, al gen. Wolff, il capo
della polizia e delle SS, al gen. Leyers, il capo della struttura preposta allo
sfruttamento dell'economia italiana, ai comandanti della Wehrmacht.
Le poche concessioni che il Reich fece a Mussolini furono di carattere prevalentemente
formale. Quando Mussolini si lamentò presso Hitler della nomina del gen.Toussaint a
comandante miliare in Italia, l'Okw lo accontentò modificandone l'incarico formale in
quello di Generale plenipotenziario della Wehrmacht tedesca presso il governo fascista
italiano. Ma la funzione degli organi tedeschi come "amministrazione di controllo nei
confronti del governo italiano indipendente" [secondo l'espressione di un documento
tedesco dell'epoca] non risultò in nulla modificata. La sovranità della Rsi non fu
limitata soltanto nell'esercizio di un potere, che generalmente era un potere esecutivo
per conto dei tedeschi o al più un potere da loro delegato: lo fu anche dal punto di
vista territoriale, nel senso che fu sottratta alla Rsi la possibilità di esercitare un
potere anche solo delegato in numerose provincie dell'ex regno d'Italia: la creazione
delle speciali Zone d'operazione delle Prealpi [province di Bolzano, Trento e Belluno] e
del Litorale Adriatico [la vecchia Venezia Giulia, la provincia di Udine e la nuova
provincia di Lubiana], gestite da Alti commissari tedeschi alle dirette dipendenze di
Hitler, preluse all'annessione intanto di fatto e in prospettiva di diritto di questi
territori al Grande Reich. Neppure le rivendicazioni di Mussolini in questa direzione
trovarono alcuna udienza. Allegando le inderogabili necessità militari, che esigevano il
controllo di quelle zone essenziali per il transito e il collegamento delle forze militari
tedesche, Hitler ribattè che nulla era possibile modificare del loro statuto. A lunga
scadenza, quelle aree erano destinate a far parte direttamente del Grande Reich.
Ma neppure sotto altri profili la Rsi riuscì a darsi gli strumenti operativi che
sottolineassero la propria autonomia. Il caso più rilevante fu certo il tentativo di
tornare in capo con una propria forza armata, che fu frustrato sia dai militari catturati
dai tedeschi l'8 settembre che nei campi di prigionia in Germania rifiutarono in massa di
entrare nell'esercito con il simbolo del gladio [un'altra non casuale coincidenza!], sia
dagli stessi tedeschi. Non fidandosi di ridare le armi a soldati italiani, i tedeschi
imposero drastici limiti quantitativi alle unità della Rsi, sicché dalle 25 divisioni in
origine richieste da Graziani si arrivò di fatto alle quattro divisioni accordate, da
addestrare per giunta in Germania e da destinare prevalentemente alla lotta
antipartigiana. Maggiore autonomia i fascisti di Salò ebbero nell'allestire la Guardia
Nazionale Repubblicana [nuova versione della vecchia milizia fascista] è nei reparti
speciali, che si distinsero in azioni repressive e in rastrellamenti di partigiani, di
lavoratori, di ebrei.
Il fascismo della Rsi fu umiliato anche negli aspetti con i quali tentava di darsi una
fisionomia originale e di esprimere con una accentuata polemica antiborghese, meramente
parolaia e demagogica, l'autocritica rispetto al fascismo del ventennio. Il caso più
clamoroso di conflitto con le autorità tedesche fu rappresentato dai progetti di
socializzazione dell'industria proclamati nel gennaio del 1944, allo scopo fra l'altro di
convogliare verso il fascismo di Salò il consenso delle masse di lavoratori, e
segnatamente degli operai, soprattutto del triangolo industriale. L'opposizione delle
autorità tedesche a questi progetti, nel timore che riforme per quanto superficiali
avviate nel mezzo della congiuntura bellica potessero compromettere lo sforzo di trarre il
massimo profitto possibile dallo sfruttamento dell'apparto produttivo italiano, fu così
esplicita che gli stessi industriali italiani preferirono di fatto trattare direttamente
con i tedeschi e ricorrere alla loro protezione contro gli interventi minacciati dalla Rsi
Al di là della volontà di evitare ogni misura che potesse turbare il funzionamento delle
fabbricazioni di interesse bellico, già soggette a numerosi fattori di rallentamento [non
soltanto lo scarso e irregolare rifornimento di materie prime, ma anche il sabotaggio e le
ripetute astensioni dal lavoro nel quadro di un movimento quasi ininterrotto di
agitazioni], le autorità tedesche non manifestavano alcun interesse al rafforzamento del
partito fascista repubblicano e della sua immagine. come in altri contesti del sistema di
occupazione, esse erano interessate ad assicurarsi ai fini della collaborazione la
continuità di un apparato amministrativo in loco, piuttosto che la rinascita di una forza
politica specificamente fascista. Oltre tutto, la sorte del fascismo, dissoltosi il 25
luglio come neve al sole, era stato oggetto di sprezzanti e feroci commenti nell'entourage
nazista; Hitler e i suoi non cessarono di rimproverare a Mussolini la corruzione che aveva
caratterizzato la gestione del regime fascista, ma soprattutto il dualismo di potere che
aveva consentito la sopravvivenze e la coesistenza con il regime della monarchia e della
stessa Chiesa cattolica. Tuttavia, il ritorno alle origini del fascismo di Salò, con il
suo repubblicanesimo dell'ultima ora [a spese fra l'altro del povero Mazzini, finito anche
sui francobolli della Rsi] nel quadro di quel processo di nazificazione al quale
alludevamo prima, non poteva ingannare neppure i tedeschi. Nessuna comprensione venne da
parte loro nei confronti degli sforzi di ricostruire un nuovo partito fascista. I rapporti
locali delle autorità tedesche sono pieni di giudizi liquidatori nei confronti del nuovo
fascismo repubblicano. Lo stato d'animo dei tedeschi, che non di rado giudicarono il nuovo
partito fascista addirittura un fattore di disturbo e di intralcio dello stesso ordine
pubblico, fu espresso con la massima drasticità in un rapporto della propaganda tedesca
dell'inizio di novembre del 1943, che definiva l'esperienza del fascismo di Salò come
null'altro che "vino vecchio in un otre nuovo". Una formulazione tanto
pittoresca quanto demolitoria.
Dove poi la collusione con i tedeschi si rivelò, si può dire, totale fu nella caccia
agli ebrei. Sin dal Manifesto di Verona del fascismo repubblicano del 9 novembre del 1943
la caccia agli ebrei era entrata in una fase di ulteriore accelerazione [al punto 7 si
diceva: "Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra
appartengono a nazionalità nemica"]. L'invio degli ebrei in campo di concentramento
ordinata dal ministro degli interni di Salò agevolò la loro deportazione da parte dei
tedeschi, che già da soli avevano iniziato il 16 ottobre, con la deportazione degli ebrei
romani, l'attuazione anche in Italia della "soluzione finale".
Klinkhammer ha documentato come nella primavera del 1944 gli ordini repressivi emanati da
Kesselring e dai comandi tedeschi per fare fonte alla crescente consistenza della minaccia
partigiana preparassero il terreno "per la radicalizzazione della lotta contro la
guerriglia". E ciò non significava soltanto repressione antipartigiana ma anche
intensificazione delle rappresaglie contro i civili, in altre parole la politica delle
stragi che insanguinò la marcia della Wehrmacht che risaliva lentamente l'Appennino sotto
la pressione alleata. Un terreno, anche questo, nel quale le forze tedesche poterono
contare sulla collaborazione delle unità di Salò. Del resto, la consonanza della Rsi con
i tedeschi era nei fatti. Il 28 marzo 1944, Il Messaggero diretto da Bruno
Spampanato aveva definito la strage delle Fosse Ardeatine un atto di "esemplare
giustizia tedesca".
(dal sito ilmanifesto.it)
approfondimenti:
L'amministrazione
militare tedesca e la Rsi (anpi.it)
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