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Dibattito

Resistenza e revisionismo

"Lettera a Ciampi.
Presidente, parliamo della Patria"

di Ernesto Galli della Loggia

Signor presidente,
in una lunga intervista-conversazione pubblicata ieri su
“Repubblica” , a commento del suo viaggio a Cefalonia, per rendere
omaggio ai caduti della divisione Acqui, ella esordisce con queste
parole: “Non ho mai capito cosa intendano i teorici della ‘morte
della Patria’, che indicano nell’8 settembre la data di questo lutto
senza ritorno. A sentir loro, la Patria, l’idea di Patria, che allora
sarebbe stata travolta, non è mai risorta. E noi cosa saremmo
dunque, oggi: italiani, cittadini senza Patria?”.
Ebbene, come forse ella sa, capita che proprio io sia uno di quei “
teorici” di cui lei parla (in ottima compagnia peraltro, a cominciare
da Renzo De Felice e lndro Montanelli), che proprio io abbia
ripescato l’ espressione “morte della Patria” da un vecchio testo di
Salvatore Satta, per farne il titolo prima di un mio saggio, poi di un
libro. Le cui tesi ella ha più volte, in questi ultimi tempi, contestato,
ma forse mai con la sommaria perentorietà che ha usato in questa
occasione e che, dunque, sollecita una risposta.
Come comprenderà, lo faccio con un certo disagio, infatti, io
insegno da molti anni Storia contemporanea in una università della
Repubblica, e non avrei mai immaginato, signor presidente, di
essere costretto, un giorno, a dover discutere i risultati della mia
ricerca con il capo dello Stato, di dover rendere conto a lui di quei
medesimi risultati; di doverli difendere dalle critiche della più alta
carica politica del mio Paese.
Ho sempre pensato e continuo a pensare, all’opposto, che in una
democrazia non è compito dei politici — in specie di chi vi copre
importanti ruoli istituzionali — dire la propria nel merito di complessi
problemi storiografici, né tanto meno esprimere le proprie personali
preferenze per questa o quella interpretazione del passato: con
l’eventuale, ma a quel punto logicamente inevitabile, conseguenza
di censurare, di fatto, i libri e i manuali che le divulgano.
Ma lei è, evidentemente, convinto del contrario, signor presidente,
e lo ha più volte dimostrato nella maniera più altisonante, come
appunto ha fatto ieri.
Leggendo con attenzione le sue parole, io non riesco a liberarmi dal
sospetto, tuttavia, che ella abbia frainteso le tesi dei “teorici” che
critica. Non le sarebbe sfuggito, altrimenti, signor presidente, quello
che è l’aspetto centrale e decisivo della questione della “morte
della Patria”. Che non riguarda affatto l’8 settembre, se non come
punto di partenza analitico, ma ha come oggetto, vero e principale,
i molti decenni che seguirono quella data: cioè il clima politico,
ideologico, culturale che ha caratterizzato almeno mezzo secolo di
vita repubblicana. Mi spiegherò con un esempio: lo sa, signor
presidente, che nel volume “ ;Una guerra civile” di Claudio Pavone
— il quale pure scrive, oggi, che Cefalonia fu “tra gli atti fondativi
della Resistenza” — ebbene lo sa che, in quel libro di 800 pagine,
uscito nel 1991, della strage di Cefalonia, di come essa avvenne e
perché, non si dice nulla? Che il nome del generale Gandin e quello
del capitano Pampaloni neppure vi sono ricordati di sfuggita? 
Ecco cosa è stata la “morte della Patria”, signor presidente. Il fatto
che — ancora dieci anni fa — nel libro pur, per molti versi, ottimo di
uno storico di valore, i morti dopo l’8 settembre del Regio Esercito,
morti spesso in nome del Re, godevano di un’attenzione e
considerazione minori (molto, molto minori: fino al silenzio) di quelli
dei partiti antifascisti, dei morti partigiani.
Dunque, quando nell’intervista a “Repubblica” ella chiede ai teorici
della “morte della Patria” in qual modo essi possano ignorare eventi
come Cefalonia, lei, signor presidente, si rivolge alle persone
sbagliate. Ad altri va rivolta quella domanda, o meglio andava
rivolta: dal momento che oggi anche i dimentichi di ieri, anche loro,
hanno scoperto Cefalonia e la resistenza militare, affrettandosi a
dargli il rilievo che l’una e l’altra meritano. Oggi, però. Controlli,
signor presidente: vada a vedere quante volte e come è ricordata
la strage di Cefalonia nei libri sulla Resistenza che uscivano fino a
qualche anno fa. 
Proprio ricordando la strage di Cefalonia e quella di Porzus; via
Rasella e il dramma del confine orientale; l’assenza del Mezzogiorno
e la presenza di una massiccia “zona grigia”: proprio ricordando
quanti fatti del 1943-45 siano stati poi dimenticati o
“addomesticati” per anni, dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla
sinistra; proprio ricordando a quali e quante pochezze, divisioni e
contraddizioni laceranti la Resistenza dovette in realtà assistere;
proprio su tale base, qualcuno è arrivato a concludere che essa —
pur con tutto l’afflato patriottico di chi vi prese parte — non riuscì,
né poteva riuscire a produrre il radicamento, nell’ltalia repubblicana,
di un forte sen timento nazionale, in sostituzione di quello andato
distrutto con il fascismo e la sconfitta bellica.
È accaduto così che, per cinquant’anni, l’ltalia sia stata una
democrazia senza nazione, senza “patria”, appunto. Un Paese in cui
la patria era morta. Non lo crede anche lei, signor presidente? 
Davvero lei pensa che, invece, nel nostro Paese ci sia stato un
vero sentimento patriottico, un vero e diffuso sentimento
nazionale? Ma — mi chiedo e rispettosamente le chiedo — da quale
singolare spirito nazional-patriottico era animato, un Paese in cui
metà dei cittadini ha temuto per anni di essere arrestata,
deportata e magari fatta fuori dall’ altra metà? In cui nessuna
scelta di politica estera è stata fatta con il consenso di tutti? Che
“patria” era quella in cui influenze straniere hanno potuto fare quasi
tutto ciò che volevano? Dove l’esercito e le forze di polizia sono
stati considerati — per decenni, da molti, da moltissimi — non
simbolo di unità bensì ; di divisione e di pericolo per la democrazia?
Dove, dalla memoria della Resistenza, erano virtualmente espulsi i
morti politicamente sgraditi o indifferenti al Cln, ma caduti anch’essi
in nome dell’ltalia? E del resto, signor presidente, se per mezzo
secolo avessimo davvero avuto una patria, se per tutto questo
tempo ci fossimo tutti davvero riconosciuti in un inno e in una
bandiera, animati da un vero spirito di solidarietà nazionale, se
tutto ciò — come bisognerebbe desumere dalle sue parole — fosse
stato vero, a che pro allora il suo lodevole sforzo, dal momento in
cui è entrato in carica, per riaccreditare bandiera e inno,
monumenti e sentimenti della patria? A che pro questo continuo
parlare che lei fa di nazione e di Italia? E che senso avrebbero mai
la novità e il merito che, per tutto ciò, l’opinione pubblica volentieri
le riconosce, se da sempre avessimo dimestichezza con gesti come
quelli che lei compie, con parole come quelle che lei pronuncia?
Come italiano, penso che sia una fortuna che lei oggi possa
compiere quei gesti e pronunciare quelle parole. È il segno che,
forse, è finalmente finito il lungo dopoguerra ed è iniziata un’altra e
nuova stagione ; che, caduto il comunismo, tutti i muri sono
caduti, anche quelli che cosi a lungo ci hanno separati dalla nostra
Patria.
Ma tra i doveri degli storici non c’è quello di essere patriottici. Gli
storici hanno semplicemente il dovere di studiare il passato, di
salvarlo alla memoria ricostruendolo secondo la loro capacità e la
loro coscienza, senza farsi influenzare dalle mode e dalle necessità
dell’oggi, senza prestare ascolto alle suggestioni dell’ora. E
naturalmente hanno il dovere di non farsi condizionare dalle
polemiche aggressive di chicchessia, fossero anche le sue, signor
presidente. Con il massimo rispetto.

( “Corriere della sera”, 4 marzo 2001)

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