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Dibattito

Resistenza e revisionismo

"I partigiani dimenticati"

di Giorgio Bocca
 

L’Italia nemica o sorda verso la resistenza ha presentato il conto: chiede l'abolizione del 25 aprile come festa nazionale o il suo apparentamento bastardo con le foibe carsiche che sono tutta un'altra storia, vicina semmai ai conflitti etnici balcanici. Viene ufficialmente allo scoperto un rifiuto della guerra partigiana che si colloca nella opacità di fondo del nostro nazionalismo che - alle autoesaltazioni e autovalorizzazioni di altri nazionalismi europei (basti pensare all'inglese "right or wrong this is my
country") - preferisce o subisce le autodiffamazioni e la secolare "pace dei vescovi", per dire la pace all'ombra della Chiesa. 
E forse questo sarà il retaggio dei secoli bui, delle invasioni e delle occupazioni straniere, retaggio di impossibile analisi ma sempre incline a premiare la furbizia e il servilismo dello "stare alla finestra", tanto che Ciampi e Mancino hanno dovuto ieri prendere duramente posizione in difesa del 25 Aprile e contro i ricorrenti rischi di
razzismo e revisionismo. 
Chi ci è passato, ha vissuto per gradi questo rifiuto del partigianato di una parte degli italiani.  Prima della estraneità diffusa, di fondo, prima dell'anticomunismo da guerra fredda, c'è stata la restaurazione del vecchio Stato voluta anche dalle grandi potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. In una gara di "real politik" e di cinismo sono state
l'Inghilterra di Churchill, l'Unione Sovietica di Stalin e in parte anche gli Stati Uniti di Roosevelt a volere, a imporre il temporaneo ritorno della monarchia dei Savoia e di Badoglio, che per mille segni alla resistenza erano ostili: dalla proibizione al principe ereditario di raggiungere i partigiani, al disinteresse per le formazioni ribelli che pure erano facilmente raggiungibili, alla presenza a capo del governo del maresciallo
Badoglio evidente trait d'union con il fascismo. E proprio qui, con il regno del sud, cominciò il trasformismo di una parte della sinistra, l'adattamento alla restaurazione del partito governativo di Togliatti ostile al partito partigiano dei Longo e dei Secchia.
Voglio dire che ancor prima della guerra fredda e della spaccatura del mondo fra atlantici e comunisti, la emarginazione dei partigiani era evidente: esclusi o allontanati dalla polizia, tenuti fuori dagli alti comandi militari, subito presi di mira da una giustizia che tendeva a equipararli a delinquenti comuni.  Con la guerra fredda l'ostracismo alla resistenza divenne pratica normale: sostituiti i prefetti partigiani come il Troilo di Milano, esclusi dai ministeri chiave, processati a centinaia dopo l'attentato a Togliatti e l'insurrezione abortita. 
Dal '47 in poi, nell'Italia democristiana, partigiano divenne sinonimo di comunista, di quinta colonna sovietica e solo il largo consenso, le comuni memorie, la comune grande illusione dei partigiani di tutte le formazioni politiche poté impedire la demonizzazione e tenere in piedi un antifascismo da arco costituzionale. 
Ora siamo a una nuova fase della restaurazione moderata e a una nuova forma dell'anticomunismo, più morbida e ipocrita: quella del revisionismo storico che accomuna i comunisti rivoluzionari ai riformisti della rivoluzione democratica, azionisti e cattolici. 
Il revisionismo storico onesto, sia ben chiaro, è tutt'uno con la storia, è la storia rivisitata per purgarla dalle falsità e dalle retoriche: diciamo il revisionismo che nella guerra partigiana cerca di mettere a fuoco le differenze o le compromissioni fra guerra civile e guerra risorgimentale. Poi c'è il revisionismo falso o diffamatorio che ha il solo
movente opportunistico di mettersi dalla parte dei più forti, dalla parte da cui tira il vento. Da questa parte sta un revisionismo umorale, che risponde a incomprensibili (dagli altri) moventi personali, narcisistici, come quello di Indro Montanelli che a parlargli di resistenza - e non si sa il perché - è come toccargli un nervo scoperto e che anche di recente a Telemontecarlo si è messo a straparlare di partigiani occupati a spararsi fra di loro piuttosto che ai nemici: diffamazione pura - perché, salvo che a
Porzus, non ci fu scontro armato fra le formazioni - o falsità - perché la guerra ai nemici ci fu, eccome, come testimoniano persino i bollettini della Wermacht sulle grandi battaglie dell'agosto 44 in cui furono impegnate e logorate divisioni tedesche -. Dico pregiudizio incomprensibile per chi conosce l'intelligenza e la civiltà di Montanelli. 
Oppure c'è il revisionismo generico e cretino di quelli che dicono: la guerra l'hanno vinta gli alleati, non i partigiani. Certo non hanno vinto la "guerra grossa" con i carri armati di trenta tonnellate o le fortezze volanti che non avevano, ma la loro parte in quella piccola l'hanno pure fatta con decine di migliaia di morti e di feriti. 
O ancora il revisionismo che tenta anche storici onesti, che vorrebbe distinguere fra il partigianato combattente e la "zona grigia" degli italiani che stavano a guardare, che vuole dire non aver capito - o non voler capire - che i pesci piccoli della resistenza
potevano nuotare solo nel mare del consenso popolare. 
Tornando alla proposta abolizionista o pasticciata: esprimo un rifiuto netto alla parentela bastarda con le foibe. Non posso nascondere il mio stupore per un' Italia che rifiuta di capire che la Resistenza è stata il ponte fra il fascismo e la democrazia, quella che ha pagato il biglietto di ritorno alla democrazia, senza la quale saremmo
rimasti all'indecente voltafaccia del 25 luglio del '43: tutti fascisti la sera, tutti
antifascisti l'indomani a gettare nella polvere il busto di Mussolini e i distintivi.   Nessuna ricompensa ai partigiani che, fra l'altro, tolgono il disturbo per conto loro. Ma almeno un grazie. 

(da Repubblica, 26 aprile 2000) 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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