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La Resistenza in Europa
La Resistenza in Polonia
KATYN,
TANTI TABU' PER UN MASSACRO
di Pierluigi Battista
Il libro di Victor Zaslavsky, Il massacro di Katyn. Il crimine e la
menzogna, comincia con queste parole: "La fucilazione di 15.000 prigionieri di guerra
polacchi da parte di reparti speciali del Nkvd (il Commissariato del popolo per gli affari
interni) nellaprile del 1940, nota come "massacro di Katyn", è soltanto
uno, neanche tra i più sanguinari, dei crimini del regime staliniano". Ma se non si
tratta di uno dei crimini "più sanguinari" del regime staliniano, allora
perché quella mole impressionante di menzogne destinate a resistere per decenni attorno a
un episodio quantitativamente "minore" della grande carneficina che ha macchiato
di sangue il secolo dei totalitarismi? Perché il cumulo vergognoso di reticenze e
censure, silenzi imbarazzati e depistaggi furbeschi che ha nascosto sotto una coltre di
ipocrisia latteggiamento dei Paesi dellOccidente nei confronti di un crimine
commesso dai comunisti di Stalin? Perché, sin dai primordi dellintricata vicenda di
Katyn, quel singolare e sconcertante rimpallo di responsabilità tra tedeschi di Hitler e
sovietici di Stalin, quasi un soprassalto di tardiva e insincera indignazione da parte di
due potenze artefici delle peggiori nefandezze, prima e durante e dopo il massacro dei
prigionieri polacchi? E inoltre, come viene inoppugnabilmente dimostrato dalla
ragguardevole documentazione inedita presentata da Zaslavsky, perché, persino durante la
glasnost di Gorbaciov, i dirigenti dellUnione Sovietica post-staliniana si sono
impegnati a occultare prove e documenti in grado di inchiodare i colpevoli
dellecatombe polacca?
Il libro di Zaslavsky ha il merito di illustrare con dovizia di
particolari e con invidiabile chiarezza argomentativa tutte le ragioni che permettono di
capire come mai un episodio - che in modo superficiale può essere interpretato come
"minore" - nasconda invece in sé la chiave per comprendere le dinamiche
"maggiori" che hanno portato il Novecento a partorire le ideologie e le tecniche
più perfezionate del massacro di massa. E a condensare tutti i temi-tabù che ancor oggi,
alla vigilia del passaggio di secolo e di millennio, suscitano passioni ed emozioni di
intensità tale da impedire una serena, equanime valutazione di un passato che con ogni
evidenza si ostina a non passare mai.
In questo singolarissimo concentrato di temi-tabù consiste il mistero
dellapparentemente ingiustificato imbarazzo che continua a offuscare la comprensione
delleccidio di Katyn.
Il primo tema-tabù consiste nel fatto che, temporalmente e
geograficamente, il massacro degli ufficiali polacchi allude alle concrete modalità della
spartizione dellEuropa centro-orientale fissata e sancita nelle clausole segrete del
patto che nellagosto del 1939, allimmediata vigilia dello scoppio della
seconda guerra mondiale, venne stipulato tra il ministro degli Esteri di Hitler e quello
di Stalin. Nella Polonia invasa dai sovietici, simultaneamente alloccupazione
nazista di unaltra porzione del territorio polacco, non si consuma soltanto nelle
forme più brutali latto di sopraffazione di uno Stato più potente ai danni di uno
più debole, ma si realizza con spietata meticolosità un fattivo scambio vicendevolmente
proficuo tra due sistemi politico-ideologici che la retorica storiografica, incardinata
sul cosiddetto "paradigma antifascista", vorrebbe divisi da una radicale e
inconciliabile contrapposizione.
Nelle terre europee dove il dispositivo del patto tedesco-sovietico
sembra funzionare con lubrificata precisione, proprio mentre la potenza
"borghese" di Winston Churchill si accolla in disperata solitudine il compito di
frenare lirresistibile espansione nazista, in quelle terre si assiste insomma a
uninquietante sospensione e cancellazione di quellepopea senza strappi e
fratture, così come viene descritta dai fautori dell"eternità"
dellantifascismo. I lettori di quella formidabile testimonianza sullabiezione
totalitaria, che è Prigioniera di Stalin e Hitler della Buber-Neumann, conoscono bene i
meccanismi dellosceno scambio di vittime che comunisti e nazionalsocialisti
realizzarono come compimento del patto che li terrà vincolati fino allaggressione
hitleriana dellUnione Sovietica del giugno del 1941.
Ma i lettori di Zaslavsky scopriranno altresì con precisione
documentaria come "tra la fine dellottobre e linizio del novembre del
1939 gli alleati tedesco e sovietico si scambiarono i prigionieri di guerra polacchi:
43.000 soldati polacchi, residenti nel territorio passato sotto il controllo della
Germania, venivano consegnati ai tedeschi mentre questi ultimi consegnavano ai sovietici
circa 14.000 soldati e ufficiali residenti dei territori orientali". Questo scambio,
spiega Zaslavsky, "testimonia non solo unattiva collaborazione, ma anche quel
fenomeno che col senno di poi si potrebbe definire una particolare "divisione del
lavoro" tra i regimi di Stalin e di Hitler": una divisione del lavoro, questo è
il punto, che fa da sfondo alla sequenza di fatti che porterà alla carneficina di Katyn.
La parte sovietica "arrestò e subito trasferì nei campi tutti gli ufficiali
consegnati dai tedeschi".
La nuova documentazione raccolta da Zaslavski, però, permette di
aggiungere tasselli raccapriccianti al mosaico di "favori" reciproci che hanno
scandito lalleanza tra Hitler e Stalin. Non ultimo, il fatto davvero inquietante
che, come si evince da una richiesta esplicita a Berija nellottobre del 39,
"nello scambio dei soldati, la dirigenza staliniana si rifiutò di accogliere,
nonostante i ripetuti appelli, la richiesta di ebrei e comunisti di restare in Urss
poiché temevano le persecuzioni dei nazisti". Dettaglio terribile, che rimanda a un
secondo tema-tabù, sotteso alle circostanze che portarono, a Katyn, a un massacro ancor
oggi rimosso dalla storiografia ufficiale.
Questo secondo tabù nasce, o meglio trova il suo compimento simbolico,
nel silenzio che il tribunale di Norimberga fu obbligato a mantenere attorno al massacro
di Katyn. Apparve subito chiaro, nella cornice di quel processo, che pure era stato
chiamato a giudicare crimini di smisurata entità per decretare la condanna del Male e
scongiurare per sempre la possibilità di una ripetizione di quei delitti immani, che non
era assolutamente possibile imputare ai tedeschi la responsabilità di quelleccidio,
ma apparve in maniera altrettanto chiara lassoluta impossibilità di sanzionare la
responsabilità dei colpevoli sovietici, essendo questi ultimi membri del tribunale che
avrebbe giudicato i crimini hitleriani. Scrive Zaslavsky: "Gli alleati occidentali
non erano in posizione di permettere che i sovietici fossero esplicitamente accusati di
aver perpetrato il massacro. I giudici alleati decretarono che, dal momento che il crimine
non era stato compiuto dai nazisti, la Corte non aveva il mandato per condurre
unulteriore inchiesta. Così il governo sovietico non riuscì a chiudere il caso
Katyn a Norimberga, perché il tribunale lo escluse dalla sentenza finale per mancanza di
prove".
I sovietici avrebbero voluto "chiudere il caso Katyn",
scrollandosi di dosso per sempre le responsabilità del massacro, ma non riuscirono
nellimpresa. In compenso, riuscirono perfettamente a "chiudere il caso
Katyn" nelle coscienze del composito schieramento che aveva contribuito a battere il
comune nemico nazista.
Larchiviazione del "caso Katyn" rappresenta
simbolicamente il solenne atto di nascita di quel particolarissimo atteggiamento di
distratta indifferenza nei confronti dei crimini comunisti, descritto proprio sulle
colonne di Ideazione da Alain Besançon e da Vittorio Mathieu. Da quel momento venne a
maturazione compiuta uninclinazione, ancor oggi non completamente esaurita, alla
minimizzazione obbligatoria dei crimini che solo con molti anni di ritardo avrebbero
rappresentato altrettanti capitoli del Libro nero del comunismo.
Linclusione del comunismo staliniano non, come era doveroso, nel
novero delle potenze che vinsero la seconda guerra mondiale attraverso il terrificante
tributo di milioni di vittime, bensì nellambito di uno schieramento che si riteneva
comprendesse, proprio in virtù di quellalleanza, le forze del Bene contrapposte al
Male assoluto incarnatosi nella belva nazista, non poté che generare una spasmodica
volontà di occultamento e, appunto, di minimizzazione degli immani crimini commessi dal
regime comunista. La prosa intimidatoria, con cui vengono trattati temi e autori
sbrigativamente e talora volgarmente liquidati e screditati come "revisionisti",
autorizza la sensazione che linsistenza per una valutazione "comparata"
dei crimini nazisti e di quelli comunisti miri in realtà a un ridimensionamento dei
crimini hitleriani e dunque a unattenuazione della condanna politica e morale per
quei delitti.
Dovrebbe essere, invece, abbastanza chiaro, anche sulla scorta di libri
lucidi e incisivi come questo di Zaslavsky, che si fa strada sempre più apertamente una
corrente storiografica che, attraverso la rilettura di fatti della storia comunista
sistematicamente rimossi da una storiografia omertosa e reticente, non intende assolvere
lassoluta negatività nazionalsocialista ma restituire unimmagine non
dimidiata del passato per raddoppiare (altro che attenuare!) la condanna degli orrori
ideologici del Novecento.
Tornando a Katyn. Il merito principale del libro di Zaslavsky è proprio
quello di aver individuato, anche a proposito dello sterminio degli ufficiali polacchi, il
tema principale che ha sinora giustificato il tabù dell"incomparabilità"
dei due totalitarismi. Zaslasvkj, infatti, introduce, in relazione allo studio
delleccidio di Katyn, la categoria della "pulizia di classe", che è uno
dei concetti-base dellimpostazione storiografica ripudiata dalle correnti dominanti
della storiografia fondata sul dogma dell"incomparabilità". Uno dei
documenti più sconvolgenti, pubblicati dallautore del libro, riferisce che il 2
marzo del 1940 il Politburo "approvò la proposta presentata congiuntamente da Berija
e dal primo segretario del partito comunista ucraino di allora Nikita Krusciov di
"effettuare la deportazione nella regione sovietica del Kazakistan per un periodo di
10 anni di tutte le famiglie di prigionieri di guerra che si trovano nei campi per
ex-ufficiali dellesercito polacco, agenti di polizia, guardie carcerarie, gendarmi,
agenti segreti, ex-proprietari terrieri, imprenditori e alti funzionari
dellex-apparato statale polacco, per un totale di 22.000-25.000
famiglie"".
Si tratta, è bene specificare, dei documenti che precedono la decisione
di fucilare in massa gli ufficiali polacchi a cura dei reparti speciali del Nkvd "che
contavano alcune decine di migliaia di "esecutori di sentenze" professionisti,
specificamente addestrati per uccidere i condannati e nasconderne i corpi". Una
competenza che a Katyn si confermò di altissima precisione: "La stragrande
maggioranza delle vittime erano state fucilate con un solo proiettile sparato in un
particolare triangolo nella parte posteriore del cranio. Molto raramente si era verificato
limpiego di due proiettili. Gli atti indicano anche che vi furono vari casi in cui i
militari cercarono di opporre resistenza. Molti ufficiali avevano ferite provocate da
baionette e alcuni avevano le mani legate dietro alla schiena con un nodo speciale, unito
a sua volta al cappio intorno al collo della vittima: i tentativi di slegarsi le mani
avrebbero causato lautosoffocamento". Una crudeltà raffinata che, però, non
spiega esaurientemente il perché della "ferocia inaudita della punizione" nei
confronti "delle mogli, dei figli, degli anziani genitori e dei fratelli dei
prigionieri di guerra individuati sul territorio sotto il controllo sovietico".
Perché la punizione delle famiglie tutte intere? Perché
quellinsistere su "proprietari terrieri" e "imprenditori" e
"alti funzionari" nellindividuazione della base sociale degli ufficiali
condannati dal potere sovietico? Zaslavsky fornisce una risposta mostrando tutti i
passaggi (comprese le stringenti investigazioni degli aguzzini sulle origini sociali delle
vittime), che portano inevitabilmente a includere il massacro di Katyn tra gli episodi
dellinterminabile "pulizia di classe" intrapresa dal potere bolscevico fin
dai primordi della rivoluzione sovietica. Zaslavsky cita lormai nota disposizione
del 1918 ai collaboratori della Ceka: "Non stiamo lottando contro persone singole.
Stiamo sterminando la borghesia come classe. Durante linchiesta non bisogna cercare
la prova che laccusato abbia agito con azioni o parole contro il potere sovietico.
Le prime domande che bisogna porsi sono: a quale classe appartiene? Qual è la sua origine
sociale? Qual è la sua istruzione o professione? Ed è la risposta a queste domande che
deve decidere il destino dellaccusato. In questo risiedono il significato e
lessenza del Terrore rosso".
Si tratta di un passaggio fondamentale di quel vasto sistema ideologico
totalitario che, per Zaslavsky, procedeva inesorabilmente secondo questa logica:
"Ogni membro della società era visto non come individuo, bensì come rappresentante
di una classe, di una categoria sociale, la quale a sua volta era sempre percepita nei
termini della sua collocazione nella lotta di classe in atto". Un criterio che impone
la categoria dello "sterminio" delle classi che "oggettivamente" si
pongono come ostacolo sulla strada della società perfetta e che, soprattutto, privilegia
la categoria dell"appartenenza" rispetto a quello della "colpa"
o della "responsabilità specifica".
Gli ufficiali polacchi sterminati a Katyn non sono stati uccisi per ciò
che singolarmente avrebbero potuto commettere contro il potere sovietico ma per ciò che
"erano", per il solo fatto di esistere e dunque di rappresentare, semplicemente
per il fatto di esistere, un intralcio al cammino verso il radioso avvenire senza classi.
È la fine della responsabilità soggettiva come criterio di condanna
che viene meno con limporsi dei sistemi totalitari. Ed è questa peculiare
cancellazione della "colpa", allo scopo di conservare come unico criterio di
classificazione degli uomini l"appartenenza", che giunge a perfezione nei
sistemi totalitari del Novecento.
Il merito di Zaslavsky è quello di gettare una nuova luce su un
episodio che poteva apparire di "ordinaria macelleria" e di includere Katyn tra
i simboli di quel dispositivo feroce ribattezzato "pulizia di classe". Ora il
volontario oblio non è più possibile.
(IdeAzione novembre-dicembre 1998) |