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La Resistenza in Europa
La Resistenza in Polonia
La
deportazione degli ebrei e la rivolta del Ghetto di Varsavia
Il massacro sistematico degli ebrei cominciò sin dallinizio
delloccupazione germanica. I nazisti procedettero anzitutto ad eliminare le
comunità ebraiche delle città meno importanti, trasferendole in massa nei grandi centri
abitati. In conseguenza di ciò, allinizio del 1942, il ghetto di Varsavia conteneva
400.000 persone, uomini donne e bambini che vivevano in spaventose condizioni per la
promiscuità e la miseria. Le autorità tedesche concedevano quattro libbre e mezzo di
pane a persona per un mese. Si otteneva così di sopprimere per fame migliaia di persone
tenendo le armi nei foderi. 130.000 ebrei prelevati nel ghetto di Lublino sparivano nel
campo di concentrazione di Belzec, uccisi nelle camere a gas. Durante i mesi di luglio e
agosto le stragi continuarono: ebrei condotti nei campi di Belzec, Salilor, Treblinka,
ricevevano lordine di spogliarsi completamente, venivano introdotti nelle camere a
gas, sepolti nelle fosse comuni scavate da mezzi meccanici nel folto delle foreste. Le
notizie agghiaccianti delle stragi giungevano nel ghetto di Varsavia facendo conoscere
agli abitanti la crudele sorte che li attendeva. Erano presi in trappola: non esisteva
altra possibilità tranne quella di scegliere tra la morte nelle camere a gas o
luccisione in combattimento. La notte del 19 aprile 1943, una compagnia di ss
penetrò nel ghetto, ma venne accolta da un nutrito fuoco di fucili e di mitragliatrici.
Certi di essere uccisi se presi prigionieri gli ebrei avevano deciso di morire con le armi
in pugno. Si difesero con furioso eroismo, sfidando per sette giorni dal lunedì di Pasqua
al sabato, il fuoco micidiale dei cannoni puntati a distanza ravvicinata contro le case
del ghetto, gli incendi applicati dai guastatori, le bombe lacrimogene. Alla fine di
maggio lultima casa fu distrutta, lultimo ebreo ucciso.
Varsavia 1943
di Titti Marrone
Alle 20,15 del 16 maggio del 1943 la fine della rivolta del ghetto di Varsavia risuonò
in tutta la città come unesplosione e un lampo di fiamme nel buio: annunciava lincendio
della sinagoga nella «zona ariana», decisa dal generale delle SS Jurgen Stropp perché
fosse chiara al resto degli abitanti della città la sconfitta dei ribelli imprigionati
dietro il muro. Finiva così, sessantanni fa, linsurrezione più ardita, la
sfida più eroica combattuta contro lesercito temuto in tutto il mondo da ebrei
armati solo del proprio coraggio. La mattina del 17 maggio, diradato loceano di
fuoco che aveva raso al suolo il ghetto, ne restavano solo le macerie. Più tardi Hannah
Arendt avrebbe aperto il grande tema dellinsurrezione del ghetto di Varsavia come
unicum nella storia della Shoah con queste parole: «Quellammasso di macerie che
racconta della lotta per la nostra libertà è un trionfo storico contro un nemico antico
e tenace del popolo ebraico: il ruolo di vittima».
Il ghetto di Varsavia fu luogo di una ribellione inaspettata per i nazisti, organizzata
lentamente, capillarmente, fin dallottobre 1942, quando nacque la Zob, lOrganizzazione
ebraica combattente guidata da Mordechai Anielewicz. A combattere furono migliaia di
ragazzi, vecchi, donne, bambini inermi. Tra i tanti ci furono Chana e Fruma Plotnickie,
due belle ragazze coraggiose come tigri, raffinate e bionde, ebree di Varsavia che tutti
avrebbero scambiato per ariane. Perfette per passare a testa alta con spavalda sicurezza
tra le guardie, facendo avanti e indietro in cerca di armi, aiuti, alimenti, spesso
scortate da agenti delle SS che, con ignara premura, si offrivano di portare le loro
pesanti valigie. Quando il ghetto fu tagliato fuori dal mondo degli uomini, Chana e Fruma
diventarono ufficiali di collegamento della resistenza degli ebrei di Varsavia al nazismo,
e trasformarono la loro bellezza, la giovinezza, la vita intera in armi contro in Reich.
Come loro si ribellarono ebrei che erano stati padri, madri e figli di semplici famiglie
serene, studenti, scienziati illustri, medici, capi religiosi, tutti ridotti a una
manciata di disperati mezzi morti di fame e malattie e, nonostante ciò, risoluti contro lesercito
del Terzo Reich. Si ribellarono perché non avevano altra scelta e, insieme, perché non
avrebbero saputo scegliere altro.
Dallautunno 1940 gli ebrei di una delle comunità più numerose dEuropa erano
stati rinchiusi a decine di migliaia nel ghetto ricavato in unarea pari al 20% dellintera
città. Fu costruito un muro per isolarli, fu dato ordine a ciascuno di portare la stella
di David, fu introdotta la pena di morte per chiunque avesse tentato la fuga. Nel 1941 gli
ebrei reclusi nel ghetto erano diventati 450mila, e a ciascuno, secondo le tabelle
alimentari del Terzo Reich, spettavano 184 calorie al giorno. Il loro numero sarebbe
cresciuto fino a sfiorare il milione di persone. «Cè unindifferenza
raccapricciante verso la morte che, essendo onnipresente, non fa più paura a nessuno. Si
passa accanto ai cadaveri senza farci più caso», è la testimonianza di Emmanuel
Ringelblum, storico e attivista del ghetto. La morte era la seconda pelle che gli ebrei si
portavano addosso, mentre quella vera si assottigliava per la fame e le malattie, mentre
il sovraffollamento diventava ogni giorno più drammatico con i nuovi arrivi. «I nuovi
arrivavano a rimpiazzare i vivi, ma solo per un breve intervallo di tempo», ricordò
Michel Mazor, uno dei sopravvissuti. La morte diventò più vicina quando cominciò la
prima grande deportazione di massa dal ghetto verso il lager di Treblinka.
E furono le deportazioni e gli eccidi nella foresta di Nowogròdek-Wilno a innescare la
decisione dintraprendere la lotta armata. «I tedeschi potevano annullarci ma non
asservirci», continua Mazor nel suo racconto. «È per questo che nessun ebreo si
vergogna di raccontare ciò che ha subìto per mano dei carnefici. Egli non considera
quelle come sevizie inflitte da un uomo a un altro, ma come morsi di cani rabbiosi o
guasti provocati da un fulmine». La lotta contro i «cani rabbiosi» diventò unossessione
soprattutto per i giovani del ghetto. Studiosi della storia ebraica come Raul Hillberg non
sono mai riusciti ad appurare come mai trapelassero nel ghetto notizie come quella della
tentata autodifesa armata a Nowogròdek, ma tutte le testimoninaze concordano nel
ricordare come, dalla primavera del 42, si cominciasse a considerare la «bella
morte dignitosa» con le armi in pugno preferibile a quella passiva, da deportati nei
lager. Scrisse Antoni Slonimiski: «È possibile che gli innocenti sacrificati perdessero
non solo la vita ma anche la dignità e lonore?» Sapendo di essere comunque
condannati, gli ebrei del ghetto intensificarono le attività politico-associative interne
e i contatti clandestini con lesterno. La grande delusione venne dal rifiuto ad
assicurare il proprio appoggio della resistenza polacca. «Temevano che tutta Varsavia
potesse seguire la ribellione del ghetto senza essere preparata», è il ricordo di Stefan
Grajek.
E allora soli, a mani nude, i ribelli del ghetto di Varsavia scrissero la pagina di
«resistenza attiva» al nazismo cui lebraismo mondiale va più fiero. La rivolta
esplose il 16 aprile, nel giorno della Pasqua ebraica. Ci furono combattimenti fin nelle
fogne, con il ghetto difeso palmo a palmo in innumerevoli azioni eroiche. La rivolta fu
stroncata il 16 maggio, con un bilancio imprecisato di migliaia di morti e di 56.065
catturati e poi sterminati. Ai piedi del monumento bello e terribile che ricorda quei
giorni, nel centro di Varsavia, il 16 aprile scorso cinque sopravvissuti, tra cui lultimo
leader ancora vivo, lottantunenne Marek Edelman, hanno posto corone di fiori.
(Il Mattino, 14 maggio 2003) |