Germania
Rosenstrasse, marzo 1943: la Resistenza delle donne
tedesche a Hitler contro le deportazioni
di Simonetti Fiori
Sfidarono il Führer, lo sconfissero, eppure la loro vicenda è scivolata
nelle pieghe della storiografia ufficiale, talvolta mortificata a pie' di pagina,
per mezzo secolo ostinatamente amputata di voci e di volti. Sono le donne di Rosenstrasse,
una folla anonima e multiforme di madri, mogli, zie e sorelle che nel marzo del 1943, in
una Berlino prostrata dalla guerra, misero in scena un gesto assolutamente straordinario
nella Germania imbrigliata da Hitler: una protesta pubblica contro la reclusione dei
famigliari ebrei destinati alla deportazione "verso Est". Dimostrazione quasi
dissennata per il carico di rischio, che per di più ebbe un epilogo felice, con i
prigionieri presto in libertà. Aristocratiche e operaie, sprovvedute e combattive,
fragili o audaci, motivate o inconsapevoli, le donne di Rosenstrasse scoprirono la
solidarietà occupando il marciapiede a due passi da Alexanderplatz, davanti all'ufficio
amministrativo della Comunità ebraica dove le SS avevano condotto i loro mariti - ma
anche fratelli, figli, cognati o semplici conoscenti -, tutte loro mogli
"ariane" di coniugi ebrei o madri di ebrei "mezzosangue". Per due
settimane, in centinaia, stettero lì, ad aspettare. Prendendosi a braccetto per
farsi coraggio, o camminando avanti e indietro "come galline > spaventate",
racconta una delle protagoniste. Talvolta gridando con forza: "Ridateci i nostri
mariti", "Ridateci i nostri figli", oppure tacendo spaventate. Finché i
famigliari - oltre un migliaio - furono rispediti a casa, senza vittime né spargimenti di
sangue. Una dimostrazione unica nella storia della Resistenza tedesca, per il carattere
pubblico di ribellione, il tratto di spontaneità e per l'esito non funesto. Una pagina
riaperta in Germania dopo un prolungato silenzio, che arriva ora in Italia grazie
all'interessante lavoro documentario della giornalista Nina Schröder, Le donne che
sconfissero Hitler (traduzione di Paola Quadrelli, Pratiche editrice, pagg. 287, lire
34.000), un libro che, pur senza ambizioni storiografiche, ha il merito di dar voce a
quelle eroine inconsapevoli e dimenticate. Resistenza del cuore, l'ha definita con
un'efficace formula lo storico ebreo di Harvard Nathan Stoltzfus nel suo saggio Resistance
of the heart, il primo studio scientifico su quell'evento. Il fascino di Rosenstrasse, tra
le molte storie minori della guerra nazista, è anche nel velo di omissioni che,
fino a qualche tempo fa, l'ha tenacemente avvolta. Una "rimozione collettiva",
denuncia Nina Schröder, che può destare qualche sospetto: «Nessuno in fondo ha voluto
riconoscere ciò che quelle donne avevano dimostrato: cioè che non tutti gli atti di
opposizione fossero impossibili e condannati sin da principio al fallimento». Anche Gad
Beck, ottuagenario arguto che nel marzo del 1943 trascorse otto giorni nell'edificio
di Rosenstrasse, ne è convinto: «Nessuno s'è occupato di quella vicenda perché la
stessa possibilità di una protesta avrebbe finito per privare i tedeschi della loro pace
interiore». Il lungo silenzio è imputabile anche ad altre ragioni: grazie alla
manifestazione berlinese si salvò dalla deportazione soltanto un gruppo
"privilegiato" (se così si può dire), costituito da quel migliaio di ebrei che
poteva ripararsi dietro un genitore o un coniuge di "razza ariana", mentre tutti
gli altri ebrei arrestati durante la retata ordinata da Goebbels nelle fabbriche - la
cosiddetta FabrikAktion - furono spediti nei lager. «I fatti di Rosenstrasse», commenta
Miriam Beck, un'ebrea catturata nel marzo del 1943, «furono messi in secondo piano
da atrocità ben più terribili. Eppure è stata la prima e unica protesta pubblica contro
la deportazione degli ebrei». Alla prolungata rimozione contribuirono le omissioni degli
stessi protagonisti, più rivolti al futuro che verso quel passato di pura sopravvivenza.
«Carnefici e vittime», commenta Gerhard Braun, «hanno effettivamente una cosa in
comune: tendono a rimuovere». Berlino, 27 febbraio 1943. I camion della Gestapo si
fermano davanti a diverse fabbriche in cui gli ebrei sono costretti a lavorare. I metodi
di reclutamento sono noti: echeggiano nell'aria anche gli schioppi d'una frusta, un
testimone riferisce di donne gravide spinte a calci sul camion da uomini delle SS irritati
per la loro goffaggine. La retata è il regalo di compleanno di Goebbels per il
Führer: una Berlino perfettamente "disebreizzata". Oltre un migliaio di quegli
operai ebrei - gli imparentati con gli "ariani" - viene recluso in Rosenstrasse.
La notizia si sparge per la città. Strappate dalle più diverse occupazioni,
centinaia di mogli e mamme si riversano nella Strada delle Rose. Sono le stesse
donne che avevano subito ogni genere di pressione perché si separassero dai mariti ebrei.
«Quante ingiurie, quante minacce, botte, sputi hanno sopportato», annota Victor
Klemperer nel suo diario. «Eroismo desolato e silenzioso», lo definisce. La resistenza
del cuore. Un monumento, ordinato nel 1993 da Honecker alla scultrice Ingeborg Hunzinger,
le ritrae oggi a Berlino con i volti rabbiosi e guerreschi. Fisionomie che stridono con le
voci confuse e ignare raccolte dalla Schröder. Le testimonianze restituiscono una sorta
di banalità del bene, il gesto coraggioso ed estremo vissuto con assoluta normalità,
frutto di una pulsione primitiva di conservazione - la conservazione della propria
famiglia - piuttosto che gesto consapevole di protesta politica. "Una necessità
vitale", la definisce una testimone di quei fatti, Ursula Braun, il cui marito finì
nella rete della Gestapo. «Le donne si riversarono in piazza perché lì erano reclusi i
loro compagni e figli! Che cercassi di portare un pacchetto a mia sorella, quando venne
deportata nel 1942, o che me ne stessi lì in piedi in Rosenstrasse: erano sempre slanci
improvvisi, atti momentanei, mossi da un obbligo interiore ad agire». Nessuna intonazione
eroicizzante: «Correvamo avanti e indietro come galline spaventate. Avevamo paura, molta
paura...». Ma il terrore ha una soglia estrema oltre la quale «si manifesta una specie
di vuoto in cui si fanno le cose più incredibili». La baronessa de Witt ricorda le
minacce dei poliziotti, addirittura "le mitragliatrici delle SS" piantate dietro
sacchi di sabbia. «Ma con la paura che avevamo addosso, non ci facemmo caso», commenta
sobriamente Ursula. Per alcune di loro fu un disvelamento improvviso: la sensazione che
finalmente si potesse far qualcosa. «Dopo Rosenstrasse», raccontò a Gad Beck sua madre,
la protestante Hedwig Kretschmer, «scomparve in me ogni traccia di passività». Fu
l'insurrezione delle donne a salvare gli ebrei reclusi? Le congetture sono innumerevoli.
Di certo c'è che Joseph Goebbels non gradì quella ribellione. Nel suo diario la liquida
come "spiacevole". Secondo una testimonianza del suo aiutante personale, Leopold
Gutterer, non gli rimase che "la soluzione più semplice": liberare i
prigionieri. E fu così che un manipolo di mogli riuscì a piegare gli uomini di Hitler.
(la repubblica, 12 settembre 2001)