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la resistenza romana
La Liberazione di Roma: 4 giugno 1944
di Rosario Bentivegna
La dura offensiva partigiana del febbraio e del marzo 1944, richiesta
dagli Alleati dopo lo sbarco di Anzio e condotta dai partigiani romani che operavano in
città contro le forze militari germaniche, i loro comandi, i loro trasporti, le loro vie
di comunicazione in città, nelle periferie e in tutto il Lazio, provocò inevitabilmente
un allentamento delle misure di cautela cospirativa proprie della guerra clandestina.
Bloccate da Kesserling le forze alleate sulla spiaggia di Anzio, i tedeschi e i
collaborazionisti repubblichini recuperarono con sanguinosi rastrellamenti e con
laiuto di infiltrati delle diverse polizie, pubbliche e private (le SS di via Tasso,
i banditi di Koch alla pensione Jaccarino, la Pubblica Sicurezza di Roma guidata dal
questore Caruso, le formazioni repubblichine Muti, Onore e combattimento, Roma o morte,
ecc.) il controllo del territorio, arrestarono e deportarono migliaia di romani, ne
fucilarono alcune centinaia, massacrarono nei dintorni di Roma le popolazioni civili
(ricordo, per tutte, la Pasqua di sangue della Sabina), riuscendo così a liquidare le
formazioni partigiane più efficienti e aggressive.
Anche i Gap Centrali caddero alla fine di aprile nelle mani del
questore Caruso, che li trasferì alla pensione Jaccarino e di qui a Via Tasso dove, dopo
un sommario processo, furono condannati a morte. Lesecuzione era stata fissata
proprio per il 4 giugno, che sarà invece il giorno della liberazione di Roma. Solo pochi
di noi, inquadrati nei Gap Centrali, riuscimmo a sfuggire alla caccia spietata che ci
veniva condotta (avevamo tutti, tra laltro, taglie miliardarie ai valori attuali
della moneta: "Spartaco", Carlo Salinari, il nostro comandante, fu "pagato
sullunghia", a chi laveva arrestato, un milione di lire del 1944)
Ai primi di maggio Francesco Curreli, ex combattente delle Brigate
Internazionali in Spagna, Carla Capponi e io fummo inviati dal nostro Comando Militare
nella zona che, da Cassino a Roma, era contenuta lungo le due strade consolari Prenestina
e Casilina, dove si svolgeva il massimo dei collegamenti tra i comandi di Roma e il
fronte. A me fu affidato il comando militare (si stava arrivando alla unificazione della
Resistenza, nel Corpo Volontari della Libertà) di tutte le formazioni militari della
zona, interne ed esterne al C.L.N., con il compito di attaccare in tutti i modi il nemico
e i collaborazionisti, anche ai fini di preparare le avanguardie partigiane, che, armate
dai lanci aerei degli Alleati, avrebbero dovuto precedere le formazioni anglo-americane e
partecipare alla insurrezione di Roma.
Analoghi compiti furono affidati a Mario Fiorentini, che aveva come
vice Lucia Ottobrini (eravamo gli unici, dei Gap centrali, che erano sfuggiti alla
cattura), nella zona di Tivoli, con in più il compito di preparare campi di lancio sul
Monte S. Gennaro per avere armi dagli Alleati da portare anche ai partigiani di Roma.
Il 15 maggio gli Alleati sfondarono a Cassino, e la battaglia per Roma,
bloccata dopo il fallimento dello sbarco di Anzio, ricominciò. Le nostre formazioni
ripresero con più intensità gli attacchi ai tedeschi (nella zona di Palestrina, per il
nostro orgoglio, furono affissi dai comandi nemici i famosi cartelli "Acthung!
Banditen!"), i tedeschi risposero con la nota brutalità, anche con rappresaglie che
ci colpirono direttamente (la famiglia Pinci il padre, i tre figli e le due figlie,
che facevano parte della nostra formazione - furono massacrati davanti alla vecchia
madre).
Stavamo in una situazione che non era certo invidiabile: infatti,
mentre combattevamo contro i tedeschi, subivamo insieme a loro i bombardamenti e i
cannoneggiamenti degli Alleati, ma, soprattutto con laiuto di una formazione di
carabinieri, riuscimmo a infliggere perdite al nemico, a catturare parecchi prigionieri e
perfino gli approvvigionamenti per un battaglione, che ci permisero di sfamarci e che
distribuimmo alla popolazione, disperata e dispersa nelle campagne.
Il primo di giugno, privo di collegamenti con il Comando e di notizie
sullandamento delle operazioni militari, decisi di rientrare a Roma per avere
notizie e ulteriori istruzioni dal Comando a proposito del trasferimento a Roma, in
appoggio dei partigiani romani, delle formazioni che erano al mio mando. Vennero con me
Carla Capponi e Dante Bersini, comandante militare della formazione di Palestrina.
Francesco Curreli, intanto, operava nella zona della Sgurgola e di Paliano, con il
compagno Giannetti, anche lui ex combattente delle Brigate Internazionali durante la
Guerra Civile, e comandante delle formazioni garibaldine della zona.
Il due giugno presi contatto con Valentino Gerratana, del comando
centrale garibaldino, il quale la sera del tre mi consegnò quattro pesanti batterie con
riflettori, che avrei dovuto portare a Tivoli, a Fiorentini, per essere utilizzati come
segnali luminosi dei limiti del campo di lancio sul Monte San Gennaro. La parola
dordine, che ci doveva pervenire da Radio Londra, era "La neve è caduta".
La sera in qui lavessimo sentita bisognava mettere in sito quei fari e attendere il
lancio. Si da il caso che quella missione aerea (lo seppi molti anni dopo) sarebbe stata
portata a termine da Ruggero Orlando, il noto giornalista televisivo, ingaggiato dagli
Stati Uniti.
La mattina del 4 rimandai Bersini a Palestrina, e, allalba, Carla
e io con due biciclette e due pesanti zaini in cui avevamo disposto i fari prendemmo la
via Tiburtina. Allaltezza di Ponte Mammolo fummo fermati da reparti tedeschi in
ritirata, disposti in posizione di combattimento. Un ufficiale ci chiese dove stavamo
andando. "Abbiamo il nostro bambino a Tivoli, dalla balia, gli dicemmo, e siamo molto
preoccupati: vogliamo raggiungerlo". "Impossibile, ci rispose, a due chilometri
ci stanno gli americani". Carla e io ci consultammo, non potevamo credergli. Ma come,
se ieri sera ci hanno dato le disposizioni per i campi di lancio, è chiaro che gli
alleati non saranno qui prima di dieci, quindici giorni. Insistemmo per proseguire,
lufficiale tedesco credette alle nostre giustificazioni, non ebbe nemmeno la
curiosità di controllare i nostri zaini, e ci lasciò passare.
Il fatto fu che dopo due chilometri incontrammo effettivamente gli
americani, e allora tornammo indietro, attraversammo di nuovo, questa volta verso Roma, le
linee tedesche e raggiungemmo il centro militare in Roma, cui demmo la notizia che gli
alleati stavano effettivamente arrivando, e che li avremmo visti in serata in città. Per
tutto il giorno, sulla via Tiburtina, dove ci eravamo fermati presso il comando di zona,
vedemmo sfilare i tedeschi in ritirata, e ci sembrava ancora un esercito imponente, con le
sue artiglierie pesanti e i suoi carri armati. Ma quando arrivarono gli americani, con le
loro attrezzature e le loro armi, i tedeschi che erano passati poco prima ci sembrarono
dei pezzenti, né riuscimmo mai a capire perché, malgrado lenorme sproporzione di
mezzi e la grande quantità di uomini che avevano a disposizione, gli Alleati ci avessero
messo tanto tempo ad arrivare a Roma.
Il primo incontro con loro, che lì fecero sosta, fu la sera sul
piazzale Tiburtino, e Roma esplose in tali manifestazioni di gioia, dopo nove mesi di buio
e di fame, di paura e di morte, che possono essere descritti solo dalle immagini dei cine
giornali, e tornarono a vedersi per le strade della città i ragazzi e gli uomini a
rischio che Roma aveva nascosto e protetto per ben nove mesi. Fu un secondo 25 luglio,
alla faccia di quei quattro sgallettati, più o meno in camicia nera, che parlano della
guerra di liberazione solo in termini di guerra civile.
I partigiani romani avevano avuto lordine di non attaccare: erano
appostati, armati dentro i portoni o dietro gli angoli delle vie secondarie, pronti a
reagire ad eventuali tentativi dei tedeschi di aggredire in qualche modo la popolazione
civile. Tra i piani farneticanti di Mussolini e del generale Wolff, vero padrone della
cosiddetta Repubblica Sociale e comandante in capo delle SS, erano state elaborati piani
di punizione dei romani, che avevano così duramente resistito ai tedeschi soprattutto con
una straordinaria rete di solidarietà per i perseguitati e con la più intransigente
disobbedienza civile (solo il 10 per cento dei romani chiamati alla leva militare e del
lavoro risposero ai bandi nazisti, contro il 40 per cento dellItalia occupata).
Nella città e nei suoi dintorni si era sviluppata inoltre una guerriglia che, nei primi
nove mesi della Resistenza, e cioè fino al giorno della liberazione della città, era
stata la più intensa di qualsiasi altra città dItalia. Dollmann, comandante delle
SS in Roma, scrisse dopo la guerra, nelle sue memorie, che Roma era stata la Capitale
dellEuropa occupata che aveva dato più filo da torcere ai tedeschi occupatori.
Mahlausen, console tedesco in Roma, sempre nelle sue memorie, riporta che Kappler aveva
paura dei romani, e lo stesso Kappler, per giustificare la fretta e la segretezza con cui
aveva portato a termine la strage delle Ardeatine, disse durante il processo che gli fu
intentato dal Tribunale militare di Roma che non si poteva fidare dei romani, che non lo
avevano mai aiutato contro i partigiani, malgrado le promesse di consistenti premi in
denaro, e che quella segretezza era dovuta alla paura delle reazioni dei romani e della
Resistenza ove fossero stati a conoscenza del delitto che i nazisti stavano per
commettere.
I partigiani romani hanno lasciato sul terreno, dall8 settembre
del 43 al 4 giugno del 44 circa 1700 caduti; oltre diecimila sono stati i
romani deportati in Germania. Senza dubbio la ritirata frettolosa dei nazisti da Roma,
frutto di probabili accordi presi tra gli Alleati, il Vaticano, i nazisti e il governo
italiano di Badoglio, fu dovuta anche alla combattività dimostrata dai romani, di cui si
stupisce perfino Kesserling nelle sue memorie, dagli stretti rapporti tra la resistenza
passiva, disarmata, della popolazione, e la durezza degli attacchi militari e dei
sabotaggi condotti dai partigiani in città e nel Lazio.
Comunque il piano di Mussolini e di Wolff, di difendere Roma casa per
casa e di deportare tutta la popolazione maschile valida dalla città fu abbandonato come
irrealizzabile anche per la risposta che i romani avevano dato, oltre che con le armi dei
loro partigiani, con la protezione offerta ai combattenti e ai perseguitati di qualsiasi
colore, avendo non solo impedito ai repubblichini di sviluppare una qualche iniziativa
politica, ma anche avendo isolato gli occupatori nazisti da ogni contatto umano con la
popolazione. I nazisti ebbero tutto il tempo di capire che uniniziativa antipopolare
di massa sarebbe finita, a Roma, molto peggio che a Napoli.
Fu anche per questo che se ne andarono con la coda tra le gambe, non
senza, però, lasciare dietro di loro la consueta striscia di sangue, con i massacri della
Storta e del mercato di Poggio Mirteto.
(da "Liberazione", 5 giu. 2001)
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