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16 ottobre 1943

Testimonianze

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Giacomo Debenedetti

"I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto risposta sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore fermo in gola".

 

Settimia Spizzichino (da "Gli anni rubati")

"Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini ... e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli... Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? "Campo di concentramento" allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager".

 

Perla Funaro (da Il Messaggero, 16 ottobre 2003)

Apre Il Messaggero, e vede la foto dei suoi zii e dei due cuginetti, che non sono mai tornati da Auschwitz; una foto che lei non conosceva. «Ero andata a leggere le due pagine sulla deportazione, perché quel giorno hanno portato via anche me, che avevo cinque anni, con i miei genitori; ho riconosciuto zio Leo, e sono scoppiata a piangere». Perla Funaro racconta una storia terribile, e anche terribilmente romana. «Mio padre, Cesare, aveva cinque fratelli: Ettore, Leo, Ada, Giuditta e Arnaldo. Noi vivevamo a Montesacro; ma zia Giuditta faceva l’ostetrica, e dopo le leggi razziali, poteva lavorare solo con gli ebrei; per questo, ci siamo trasferiti a via Arenula». Il 16 ottobre ’43, «presi tutti, meno Arnaldo che era nascosto. Portati a via della Lungara, alla Scuola militare; la sera, papà, mamma e io rilasciati: perché mamma era ariana, cattolica, e io anche. In quelle ore, papà ha detto a mamma: se ci liberano, facciamo un altro figlio. E così, nel ’44 nasce Dario». E quella foto? «Zio Leo, sua moglie Teresa Di Castro, i figli Dario ed Adolfo, allora 13 e 7 anni. Mai più tornati. Come gli altri miei zii: nel lager , io ho perso otto persone. I fratelli non si sono nemmeno salutati tra loro, a via della Lungara: chi poteva sapere che non si sarebbero rivisti mai più?».
La signora Perla è ancora scossa. Racconta di sua madre, Trieste Belardi («nonno era repubblicano; i figli li aveva chiamati tutti così: Oberdan, Anita, Balilla, Cesare»); di lei, che le zie volevano divenisse ebrea («mi avevano anche iscritta alla comunità, ricevevo Shalòm ; nel dopoguerra, mi sono cancellata: e se a qualche matto gli gira come gli è girato a quello lì...?»); della singolare vita in casa sua («papà non era molto religioso, come non lo erano mai stati i Funaro; però, il giorno di Kippùr digiunava da solo»). E di «zio Leo, che era rimasto a Montesacro, abitava al piano ammezzato; e quando arrivano, i nazisti credono che sia lui il portiere. Lui, che non era il portinaio, non apre; loro sfondano la porta, e gli spaccano la testa; è partito per Auschwitz tutto bendato, poverino». Indagini a fine guerra? «Abbiamo chiesto a qualcuno; ci hanno detto d’aver visto zio Leo che mangiava le bucce delle patate».
Quella mattina «non la dimenticherò mai. Sentiamo grandi rumori nella strada; ci affacciamo; uno, che vendeva abbacchi, ci urla: scappate, che arrivano i tedeschi. Non c’è tempo: suonano alla porta; cercano zio Ettore e portano via tutti. I nazisti spingevano la gente per il sedere, perché salissero più in fretta sui camion. Se ci fossimo incontrati a via della Lungara, magari mamma poteva portarsi via almeno i bambini, no?». E anche dopo, tanta paura: «Altri rastrellamenti; mio padre si nascondeva sempre dietro un armadio».

 

Michele Bolgia (da Il Corriere, 16 ottobre 2003)

Michele Bolgia lasciava ogni mattina i suoi due ragazzi a casa. La moglie Maria Cristina era stata mitragliata a morte da un aereo alleato mentre attraversava di corsa largo Preneste durante i bombardamenti del luglio ’43. E lui era dovuto scappare dal Prenestino con Giuseppe, appena dodicenne, e Sara, di poco più grande, diciassettenne. In quell’ottobre del 1943 Bolgia, riparato dopo alcuni mesi di odissea abitativa in un piccolo appartamento di via Borelli, usciva di casa per correre col suo orologio Roskoff da ferroviere nel taschino dei pantaloni verso la stazione Tiburtina. Là, come ferroviere guardasala, Michele Bolgia faceva spesso anche la notte. Turni lunghi, dalle 9 di sera alle 6 del mattino. Notti buie, da coprifuoco, con la città in mano in tedeschi... Michele Bolgia era un cinquantenne romano di statura minuta, figlio di un toscano venuto in città da Orbetello, con un antenato maremmano (Giovanni) che a Talamone, quando Garibaldi aveva fatto sosta per un giorno con i suoi Mille diretti in Sicilia, aveva detto ciao ai genitori e si era imbarcato allegramente con i garibaldini. Forse in Michele ribolliva ancora un po’ di quel sangue. Minuto di statura, imbacuccato sempre in un vestituccio grigio, simpatizzante socialista in fondo al cuore, il ferroviere Bolgia è l’uomo coraggioso che «spiombava» i carri pieni di deportati. In quei momenti lì non pensava certo ai suoi due ragazzi lasciati a casa ma a quei vagoni pieni di ebrei da deportare, carri allineati su quel maledetto binario uno della Stazione Tiburtina. E con le porte piombate. Che Bolgia a volte riusciva a riaprire facendo fuggire qualcuno. La maggioranza però rimase spesso su quei carri spiombati, non sapendo bene cosa fare e avendo paura di scendere da quei convogli terribili.

 

Mario Limentani (da Il Corriere, 16 ottobre 2003)

Mario Limentani, che è tornato dall’inferno di Mauthausen, era su uno di quei carri spiombati. «Eravamo ammassati dentro il carro, fermo sul primo binario della Stazione Tiburtina, quando ci accorgemmo che la porta era socchiusa - ricorda oggi - Qualcuno l’aveva riaperta, dopo che i tedeschi l’avevano sprangata e piombata. Non sapevamo che fare. Ci avevano detto che ci portavano a lavorare a Bologna. Eravamo incerti. Uscire poteva essere pericoloso. Restammo. Arrivammo poi a Bologna con quella porta ancora aperta. Lì i tedeschi se ne accorsero e la chiusero brutalmente con una manetta. Il nostro viaggio non era finito...».
Bolgia fu preso l’8 marzo del ’44, mentre scendeva dal tram 8 a piazza dei Cinquecento. Era una retata, i fascisti lo avevano già segnalato da un po’ di tempo, da quando era corsa voce che alcuni deportati erano riusciti a fuggire dallla Stazione Tiburtina. Fu portato a via Tasso, ci rimase due giorni, poi fu spostato nel terzo braccio di Regina Coeli. In cella era con due ufficiali, Solinas e Curatolo. «Venne lanciato dentro la nostra cella una mattina - ha scritto Curatolo - Si presentò a noi con un profondo inchino. Era un ferroviere. Ogni volta che gli si chiedeva l’ora, dopo aver consultato il suo monumentale Roskoff, riferiva l’ora, i minuti primi e i secondi...» Il I° ottobre di quell’anno quell’orologio fu ritrovato in tasca a una delle vittime delle Fosse Ardeatine. Era una delle 39 vittime prive della testa che era stata mozzata. Come il tenore Nicola Ugo Stame. «Lo riconoscemmo da quell’orologio e da un’agendina piccola piccola - ricorda il figlio Giuseppe, allora tredicenne - Povero papà, com’era ridotto...» L’orologio segnava le 15,30. Quando fu estratto da uno dei cumuli di morti era il corpo numero 124. Giuseppe crebbe poi in un «istituto» di Tor Marancia. Oggi ha 72 anni, un figlio che si chiama Michele e che insegna ai detenuti di Rebibbia, una pensione da ex impiegato Inps. E dice: «Medaglie a papà? Nessuno gliene ha mai concessa una...» .

 

Lia Levi e Giacomo Limentani (da il Manifesto, 16 ottobre 2003)

Undici anni lei, otto lui. Due bambini e basta. Lia Levi e Giacomo Limentani quella mattina del 16 ottobre se la ricordano bene. «Avevo solo otto anni - racconta Limentani - ma nel 1943, a quell'età, un bambino ebreo era come un diciottenne di oggi. Sembrerà esagerato ma era dal 1938 che avevo cominciato a capire cosa fossero le leggi razziali. Avevo anche tirato un pugno ad un bambino che mi aveva chiamato `giudeaccio', facendolo sanguinare. Era il figlio di un gerarchetto e la mia famiglia era terrorizzata.» Anche Lia Levi in parte sapeva: «Dopo che i tedeschi avevano fatto il `patto' dell'oro - cinquanta chili in cambio di noi - la comunità ebraica romana era ancora speranzosa, credeva a ciò che si diceva in giro: i tedeschi non avrebbero mai portato via gli ebrei sotto gli occhi del papa. La popolazione era sollevata ma i miei genitori interpretarono quel patto come il primo segno delle ostilità.

Già, il patto e la comunità romana. Limentani ricorda: «La mattina del 16 ottobre - dopo quella storia dell'oro che io avevo vissuto con lucidità mentre vedevo portare via da casa le nostre picccole gioie - la paura c'era. Nel mio palazzo abitava anche un ufficiale della milizia che ci aveva fatto capire che qualcosa di grosso sarebbe successo di lì a poco. Ma gli ebrei romani non sapevano ancora chi fossero veramente i nazisti né cosa fossero le persecuzioni. Di soluzioni finali, a a Roma, non se ne capiva un fico secco: eppure avremmo dovuto aspettarcelo. Eravamo stati censiti presso l'ufficio della razza e c'erano i nostri elenchi anche negli archivi della comunità. La nostra fortuna fu che quella mattina una zia di mia madre ci buttò fuori di casa. Aveva avuto la notizia del rastrellamento al Portico d'Ottavia».

«Eravamo tre sorelle - io, Gabriella di nove anni e Vera di sei. Il 16 ottobre eravamo già nascoste in un convento. E lì arrivarono gli echi del rastrellamento: improvvisamente il convento si riempì di bambine e le suore decisero di attrezzare una camerata speciale. Sapevo, non sapevo?. Non so. Ricordo solo un grande rancore verso i miei genitori che ci avevano rassicurate: `non succederà niente', ci dicevano. E invece succedeva». Nove mesi, Lia Levi e rimasta in quel convento dove nessuno le ha mai chiesto esplicitamente di convertirsi: «Era l'atmosfera che creava in noi dei dubbi. Le suore ci dicevano `Nella vita c'è sempre un'occasione per cui tu vieni in contatto con al verità'. Pensavo che quella fosse la mia occasione, ho avuto una crisi di identità spaventosa».

Non così Giacomo Limentani: «Scappammo e così ebbi il modo di capire cosa fosse una retata, scappammo sul filobus e all'altezza del portico vidi buttare, dal primo piano, sui camion dei bambini. Duecento di loro non sono piu tornati. Con mia sorella, ci andammo a nascondere nell'ufficio di mio padre che tanto valeva restare a casa: sulla porta c'era una targa enorme con il nostreo nome e chiunque avrebbe potuto trovarci. Rimanemmo lì, per tre mesi, scalzi e con le finestre chiuse; poi per una settimana fummo accolti nella casa di un grande amico cattolico di mio padre. Poi scappammo ancora e ci nascondemmo purtroppo in un convento. Dico purtroppo perché la strada avrebbe dovuto essere quella della montagna. Ora ricordo solo una città buia, scura, senza sole. Nove mesi di oscuramente: è una sensazione che ho ancora e sempre davanti agli occhi».

Buio, tedeschi, fine dello stato. «Mio padre era figlio di un caduto in guerra, aveva il senso dello stato, dello stato liberale. Al censimento dichiarò che eravamo ebrei. I tedeschi? Sì, me li ricordo. Il nostro convento confinava con una villa di ebrei dove la Wermacht aveva stabilito un suo comando. Non erano le Ss e ogni tanto scavalcavano la siepe per giocare con noi. Non sapevano che eravamo ebree. Io temevo di vedere dei mostri e invece vedevo persone normali anche gentili. E' l'altro lato.

Adriano Ossicini (da Il Messaggero, 16 ottobre 2003)

Gli elmetti delle SS luccicavano al chiarore dei fari, i soldati si muovevano a gruppi, un ragazzino tentò di scappare e fu subito ripreso.
«Si sentivano le urla, i pianti delle donne, il rumore dei camion militari - racconta l'ex ministro Adriano Ossicini, 83 anni, uno dei testimoni di quella notte - Vedevo le divise dei tedeschi e gente che tentava di scappare dal Ghetto verso l'Isola Tiberina. Era una scena spaventosa, una cosa apocalittica». Era, in altri termini, l'alba del 16 ottobre 1943 e i soldati del Reich rastrellavano gli ebrei romani del Portico d'Ottavia. Ossicini, allora laureando in Medicina ma già comandante partigiano, poi medaglia d'oro alla Resistenza, aveva solo ventidue anni e stava facendo pratica all'ospedale Fatebenefratelli. «Quello che era terribile - racconta - erano quegli ordini rabbiosi, gridati in una lingua straniera, che rimbombavano tra le case. Gli ebrei, ci sembrò subito chiaro, erano destinati ai lager. Fu un incubo».
Ossicini, presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, tuttora professore di Psicologia alla Sapienza, per trent'anni parlamentare come indipendente di sinistra, ex responsabile della Famiglia nel Governo Dini, vide tutto «da una finestra del reparto Sala San Pietro dell'ospedale». «Stavo facendo un'endovenosa a un paziente - dice l'ex ministro, che ha accennato in un libro, “Un'isola nel Tevere”, agli eventi di quella notte - Era l'alba. Dopo la caduta di Mussolini (il 25 luglio del 1943, ndr ) ero uscito da Regina Coeli dove ero stato rinchiuso come sovversivo, e, pur essendo ricercato, facevo avanti e dietro tra Roma e Viterbo, dove guidavo una formazione partigiana. Saranno state, più o meno, le cinque e mezzo del mattino, quando mi accorsi che al di là del Tevere, dalla parte del Ghetto, c'era movimento di truppe e gente che scappava».
E allora cosa fece?
«Vedevo le divise, gli elmetti che rilucevano. Uscii dall'ospedale. Ero in camice e andai verso il punto dove c'era più trambusto, all'inizio del ponte che collega il lungotevere all'Isola Tiberina. Fu lì che incontrai Giulio Sella, guardiano del dormitorio di Santa Maria in Cappella, a Trastevere, un uomo che aveva già aiutato molti ebrei. Mi disse: “Dammi una mano, cerchiamo di salvare qualcuno di questi poveracci”».
Quale era la situazione?
«C'era gente che scappava dall'interno del Ghetto. Alcuni, probabilmente, non erano membri della comunità, ma soldati in borghese che si erano nascosti e adesso fuggivano. Era chiarissimo, comunque, quello che stava accadendo. Sella si era già inoltrato nel quartiere e si era reso conto che stavano razziando gli ebrei. “Razziando”, disse così. Andammo un po' più avanti e vedemmo la scena».
La gente che veniva caricata sui camion...
«Famiglie intere (i deportati furono, solo in quella notte, 1.022, ndr ). Quello che mi colpì è che nessuno tentò di ribellarsi. In quel momento pensavo che forse io, morto per morto, avrei cercato di fare qualcosa. Ma c'era la minaccia delle armi... Resta il fatto che fu apocalittico vedere tutte quelle persone, impotenti, che salivano sui camion. Un bambino tentò di scappare uscendo dalla fila e fu subito riacchiappato mentre i soldati lanciavano, in tedesco, urla bestiali. Le donne piangevano».
E voi?
«Tornammo verso il ponte e avviammo quante più persone possibile verso l'ospedale. Non abbiamo mai saputo quanti fossero in realtà gli ebrei. Ma in quel momento era impossibile fare distinzioni. Chiesi a un certo fratel Raimondo, un prete, di nascondere tutti. Furono messi in un ambulatorio. Il primario, Giovanni Borromeo, in quel momento non c'era, ma sapevo che sarebbe stato d'accordo, perché aveva già ricoverato diversi ebrei nei reparti facendoli passare per malati».
Cosa pensò in quel momento?
«Che quelli catturati sarebbero morti e che tutta la vicenda era assurda. Il rastrellamento arrivò inatteso. Il 28 settembre gli ebrei romani avevano versato cinquanta chili d'oro ai tedeschi come richiesto dal comandante Herbert Kappler e si sentivano, in qualche modo, al riparo. Tra l'altro il rastrellamento era in palese contrasto con il fatto che Roma fosse stata dichiarata ”Città aperta”».
E i rifugiati del Fatebenefratelli? Come finirono?
«Quella mattina stessa tornai nel viterbese. Restai fuori alcuni giorni. Seppi poi da Sella che una parte furono ricoverati, mentre altri erano stati nascosti nel Palazzo della Cancelleria (vicino a piazza Farnese) e nel dormitorio di Santa Maria in Cappella, dietro a via dei Vascellari. Si salvarono tutti. Quando rientrai in ospedale, mi dissero della loro riconoscenza per Borromeo, il primario. La decisione di tenerli in corsia, in fondo, l'aveva presa lui, dopo essersi consultato con il cardinale vicario, Marchetti-Selvagiani. L'ospedale, non bisogna dimenticarlo, è religioso ed era stato sentito anche il Vaticano. Racconto oggi queste cose solo perché credo che l'ottanta per cento dei protagonisti non ci sia più. Non mi sono mai piaciuti né i premi né le medaglie. Ma certi fatti sono storici ed è giusto che la città li conosca, per non dimenticare mai la tragedia di quella notte».

 

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