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La Resistenza dei ferrovieri italiani: la memoria
vacante

a cura di Massimo Taborri
Nel commentare per un numero della rivista Rinascita del lontano gennaio 1965 un libro
dedicato alla Resistenza dei ferrovieri (la recensione non venne poi pubblicata, ma
apparve più tardi nel suo volume La Resistenza accusa 1945-1973 Milano, Mazzotta editore, 1973), Pietro
Secchia faceva notare che sfogliando i 23 bollettini di guerra del CVL pubblicati dal
giugno ’44 al marzo ’45, delle 5.571 azioni di sabotaggio complessivamente
verificatesi nel corso di tale periodo di cui vi si dava conto, oltre 2.000 avevano
riguardate linee ferroviarie, infrastrutture, locomotive o veicoli ferroviari in genere.
Sabotaggi prevalentemente concentrati in Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia e messi in
opera da bande partigiane e Gap, a cui - si può ragionevolmente supporre - non era
mancato il concorso almeno informativo di nuclei o di singoli ferrovieri.
Ma pur salutando positivamente
l’uscita di un libro dedicato al tema dei ferrovieri nella Resistenza, che tuttavia
prendeva in esame quasi unicamente quanto era accaduto in Lombardia (Edio Vallini, Guerra sulle rotaie, contributo ad una storia della Resistenza, Lerici,
1965), Secchia sottolineava l’urgenza di una ricerca complessiva ed estesa a tutta
l’Italia, tanto sul piano delle azioni di massa compiute dai ferrovieri (scioperi,
agitazioni), quanto sul piano delle attività di sabotaggio a loro attribuibili. Uno
studio del genere, scriveva Pietro Secchia, sarebbe stato indispensabile prima di poter affermare con fondamento storiografico - come faceva
nella sua premessa l’autore di quel libro – “che la lotta di Resistenza dei
ferrovieri italiani non è stata meno viva e meno combattuta di quella svolta dai loro
colleghi del Continente”. Ed aggiungeva - avendo premesso di muoversi su basi
empiriche - che a causa della diversa situazione essa non poteva “avere avuto lo
sviluppo e l’ampiezza raggiunti, ad esempio, nell’Unione Sovietica, in Polonia
ed in Francia”. In quest’ultimo paese - continuava Secchia - le dimensioni e
l’efficacia della Resistenza erano state tali che, alla vigilia dello sbarco in
Normandia, l’iniziativa dei ferrovieri (unitamente ai bombardamenti alleati) era riuscita a ritardare di due
settimane il trasferimento verso Nord di dieci divisioni tedesche. Nella giornata del 6
giugno 1944, data dello sbarco, nel solo Deposito Locomotive di Amberieu situato
ad est della Francia, nella regione Rodano-Alpi - tanto per fare un altro esempio - erano
state fatte esplodere ben 52 locomotive, ma sabotaggi e scioperi spontanei si erano avuti
ovunque, tanto nel sud del paese come nelle regioni del Nord. L’azione dei ferrovieri
era poi continuata nelle settimane che precedettero la liberazione di Parigi
dell’agosto del ’44 e poi ancora, quando il fronte arretrò verso la Lorena, lungo le linee che portavano al confine con la
Germania fino ai primi mesi del ‘45.
In Italia, al contrario,
malgrado i massicci bombardamenti alleati, il traffico ferroviario continuò ad essere
relativamente intenso. Nell’Italia centrale ad esempio fu solo dopo i mesi di
aprile-maggio ’44 che la linea dorsale (Roma-Firenze), come anche la Tirrenica
(Roma-La Spezia-Genova) e l’Adriatica (Pescara-Ancona-Bologna) vennero duramente
colpite dai bombardamenti alleati. Mentre invece, nell’Italia settentrionale –
secondo un rapporto del maggio ’44 del generale Hans Leyers responsabile del Rustung und Kriegsproduktion, (la Direzione generale degli armamenti e della produzione
nell’Italia occupata) – il traffico ferroviario da e per la Germania (carbone,
merci, materiale bellico e macchinari) era stato, nei mesi di febbraio, marzo ed aprile
‘44, complessivamente soddisfacente. Cosicché proprio in
Italia, il paese occupato in cui più ampi e possenti erano stati gli scioperi operai,
l’azione dei ferrovieri non era stata all’altezza della situazione e –
concludeva Secchia – “sarebbe [stato] interessante cercarne le cause un po’
più in profondità di quanto si sia fatto finora”.
Le osservazioni di
Secchia erano assai stimolanti, ma per quanto le sue intuizioni (risalenti a quasi
cinquanta anni fa) fossero e sono con tutta probabilità tutt’altro che destituite di
fondamento, continua a mancare uno studio complessivo sull’attività di Resistenza
dei ferrovieri italiani capace di verificarne l’attendibilità in rapporto alla
supposta maggiore efficacia della Resistenza di altre realtà europee.
Su tale tema, infatti,
non vi sono che rari studi di carattere regionale e qualche memoria lasciataci in eredità
da taluni protagonisti, che lasciano pensare come la Resistenza dei ferrovieri italiani
abbia avuto un proprio apprezzabile profilo, culminato in quello che fu forse
l’episodio più alto e più maturo, ovverosia il compatto sciopero dei ferrovieri piemontesi del settembre del ’44 (che tuttavia
non riuscì ad allargarsi alla Lombardia e alla Liguria). Qui e lì vi sono testimonianze
o riferimenti all’arruolamento di ferrovieri nelle bande partigiane che qualche volta
raggiunse dimensioni ragguardevoli (oltre quattrocento in Liguria con 44 caduti, come
ricorda una targa apposta nella stazione di Genova Principe). Sappiamo di azioni di
sabotaggio condotte in Lombardia, in Veneto e in tutta l’Italia del Nord-Est, non
solo lungo le linee di pianura e al di fuori dei centri abitatati, ma anche negli impianti
più importanti: come avvenne ad esempio nel luglio del ’44 presso il Deposito
locomotive di Milano Greco, laddove un nucleo di ferrovieri fece esplodere cinque
locomotive a vapore e due elettriche (in seguito a questo atto tre ferrovieri vennero
prelevati a S. Vittore dal comando tedesco e fucilati nell’impianto davanti a tutte
le maestranze). Conosciamo l’attività avutasi negli impianti del nodo di Roma, dove
non fu sparato un solo colpo d’arma da fuoco, ma si ebbe ugualmente una notevole
attività organizzata di sabotaggio (scambi, linee aeree, ritardo sistematico nelle
attività di manutenzione dei rotabili e soprattutto, in diverse occasioni,
l’apertura dei portelloni dei treni di deportati) in particolare nella stazione di
Tiburtina. Ma manca una visione integrata capace di puntualizzare ad esempio la dimensione
organizzata o al contrario spontanea dell’attività dei ferrovieri, la natura dei
rapporti intercorsi tra i ferrovieri ed il CLN, la dimensione prevalentemente
professionale o viceversa territoriale della loro mobilitazione.
Come premetteva Secchia,
si deve insistere sul punto che uno studio comparato non può naturalmente prescindere dai
diversi contesti storici nazionali ed anche dal grado di sviluppo ed organizzazione
raggiunto da ciascuna delle reti ferroviarie europee. Se si prende ad esempio a
riferimento la Francia - il paese per tanti versi più affine a noi anche relativamente a
quest’ultima condizione - è certamente vero che les cheminots furono capaci di dispiegare una larga
ed articolata Resistenza alle forze naziste e collaborazioniste, culminata
nell’attuazione del Piano Verde concordato con le forze della Francia Libera, il
quale prevedeva un lungo elenco di sabotaggi nei confronti di treni ed infrastrutture
ferroviarie da attuarsi prima, a ridosso e durante lo sbarco alleato. Ma i ferrovieri
francesi, al cospetto dell’occupante nazista, vennero a trovarsi da subito in
condizioni assai diverse rispetto ai loro colleghi italiani.
La guerra infatti fu
dichiarata nel settembre del ’39, ma l’inizio delle ostilità con la Francia,
come è noto, si ebbe solo nel maggio del ’40. In questi nove mesi, conosciuti come
il periodo de la drole de guerre (la strana
attesa della guerra), la SNCF (Società Nazionale Chemin de Fer) fu chiamata ad uno sforzo
eccezionale per trasportare sul fronte con il Belgio milioni di uomini e migliaia di treni
carichi di artiglierie, armi, munizioni e vettovagliamenti. Un grande sforzo che già
prima della débacle dell’Armata francese
divenne sinonimo di sforzo patriottico, presto riconosciuto da tutta la nazione.
Ugualmente, dopo lo sfondamento tedesco, la rete e i ferrovieri vennero sottoposti ad un
sacrificio enorme: quando decine di milioni di francesi dettero vita ad un vero e proprio
esodo massiccio verso le regioni del Sud. L’occupazione tedesca della Francia del
Nord durò più di quattro anni. Un periodo temporale assai più lungo rispetto a quanto
si verificò, ad esempio, in Italia centro-settentrionale, durante il quale fu
evidentemente possibile maturare una superiore esperienza ed efficacia organizzativa che
portò allo sviluppo di numerose reti ed organizzazioni anche su base professionale e di
carattere unitario (come fu il “Nap-Fer”
Noyautage Administrations Publiques”) che raccoglievano ferrovieri di tutte le
regioni.
Vi sono poi tre
macroscopiche considerazioni da cui non si può ulteriormente prescindere volendo
accostare l’esperienza francese a quella italiana:
1) La Francia fu un paese
aggredito mentre l’Italia era in Europa un paese aggressore. Ciò fece sì che
l’elemento del patriottismo, della guerra di difesa della patria occupata e
oltraggiata dall’esercito invasore che calpestava il sacro suolo nazionale, divenisse
un elemento di mobilitazione potente, un grande denominatore per tutti i Francesi. I
ferrovieri francesi che avevano ora 40 o 50 anni, ne avevano avuti 20 quando si erano
battuti nel primo conflitto mondiale: erano tra quelli che la Francia aveva
affettuosamente chiamato i “poilus” (i
pelosi), i soldati con barbe incolte e baffi che spuntavano sotto le maschere antigas e
che avevano difeso la patria sulla linea Maginot.
Anche l’Italia subì
l’occupazione dopo l’8 settembre, ma fu occupata dal suo ex-alleato e a causa di
ciò, del presunto tradimento del patto contratto con la Germania e del venir meno della
parola data, si scatenò una guerra civile che si intrecciò ad altre spinte e
motivazioni. E’ vero che con l’armistizio del 22 giugno del ’40 - a poche
settimane dallo sfondamento del Fronte - anche la Francia ebbe il suo regime
collaborazionista, sottoscritto proprio dall’eroe di Verdun, il maresciallo Petain.
Ma i francesi che accolsero con sollievo l’armistizio
con cui si costituiva "il regime di Vichy" (e non furono pochi) pensavano che
esso fosse stato sottoscritto con un fine tattico e che – dietro la collaborazione
ufficiale con i tedeschi - Petain facesse in fondo il doppio-gioco: i tedeschi, i boches, come erano detti con disprezzo, rimanevano
i tedeschi.
2) Durante gli anni del fascismo l’Azienda
Autonoma delle Ferrovie dello Stato era stata sottoposta ad una spietata ristrutturazione
che aveva determinato, a partire dalla seconda metà degli anni ’20, il licenziamento
di oltre 40 mila ferrovieri antifascisti. Le ferrovie italiane rappresentavano per
Mussolini una sorta di fiore all’occhiello, un modello di efficienza e di perfezione
tecnica da esibire anche all’estero. Per questo, appena arrivato al potere, il
fascismo aveva azzerato il consiglio d’amministrazione della più grande Azienda di
Stato, affidandone la gestione ad un commissario unico nella persona di Edoardo Torre. Nel
corpo dell’Azienda, di conseguenza, fu introdotta una gerarchia di ferro e furono
imposte ai ferrovieri una serie di norme tecniche, organizzative e disciplinari
rigorosissime, come il Regolamento del personale del ’25, con cui si doveva giurare
fedeltà al Re ed all’esecutivo.
Con le leggi speciali si
era inoltre proceduto all’azzeramento delle organizzazioni sindacali e della stampa
di categoria e imposto l’obbligo di iscrizione all’Associazione Nazionale
Ferrovieri Fascisti. A completare il quadro, nell’ambito delle ferrovie italiane, era
stato poi costituito il Reparto ferroviario della Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale, che alla vigilia della guerra contava circa 40 mila ferrovieri mobilitabili,
con poteri di polizia giudiziaria e compiti di vigilanza sulla regolarità del servizio,
ma anche di controllo politico sul comportamento dei ferrovieri loro colleghi. Solo nei
confronti degli ex-combattenti della Prima guerra mondiale il Regime aveva dovuto usare
qualche cautela, soprattutto nei confronti di quanti erano stati decorati al valore ed
ora, in vari casi, erano passati all’antifascismo più o meno attivo. Nel 1932 i
ferrovieri italiani che prima dell’avvento del fascismo assommavano ad oltre 230 mila
unità erano divenuti meno di 139 mila e qualche anno dopo un giornalista di grido come
Paolo Orano aveva potuto dare alle stampe un libro dal titolo “I ferrovieri per la rivoluzione delle camicie
nere” che glorificava l’avvenuta normalizzazione delle ferrovie e dei
ferrovieri italiani, senza essere poi così lontano dalla verità.
Niente di tutto questo
era avvenuto nelle ferrovie francesi che erano state, tra l’altro, nazionalizzate nel
’38, in anni cioè assai più recenti rispetto a quelle italiane (la cui
statizzazione risaliva al 1905). All’indomani dello scoppio del conflitto, inoltre,
per effetto dell’applicazione della giornata di 8 ore e della settimana lavorativa di
40 ore la SNCF era arrivata ad impiegare circa 500 mila cheminots (si tenga presente che l’estensione
della rete ferroviaria francese era pressoché il doppio di quella italiana). Anche in
Italia con gli scioperi del gennaio 1920 ed altre mobilitazioni successive i ferrovieri
italiani avevano ottenuto le 8 ore, ma queste erano state subito azzerate dal fascismo.
3) L’occupazione
tedesca in Francia fu feroce come in Italia: si calcola che almeno 90 mila resistenti o
patrioti e 76 mila ebrei furono deportati in Germania da ogni regione della Francia. Circa
cinquecento ferrovieri furono passati per le armi o morirono sotto i colpi della
repressione ed oltre mille furono i deportati in Germania. D’altra parte precise
norme della convenzione d’armistizio sottoscritto il 22 giugno del ’40,
accettavano di porre al servizio dei nazisti la rete e l’Azienda ferroviaria, anche
nei territori del Sud del Paese ricadenti nella giurisdizione di Vichy. I treni merci, di
materie prime, di vettovagliamenti od armamenti, recanti reparti tedeschi oppure uomini
deportati in Germania o carichi di ebrei razziati, dovevano viaggiare indisturbati e con
priorità assoluta sugli altri convogli, sia in ambito nazionale che tra le frontiere da e
per la Germania, da e per l’Italia. Per garantirsi tutto ciò migliaia di ferrovieri
tedeschi vennero spostati in Francia: in parte addetti alla Whermacht Verkens Direktion
(la direzione dei trasporti con sede a Parigi) ed in altra parte distribuiti negli scali e negli impianti strategicamente più
importanti, raggiungendo circa 34 mila unità nella primavera del ’44, quando –
in previsione dello sbarco alleato – si ritenne possibile da parte tedesca ricorrere
ad una gestione diretta della circolazione ferroviaria nelle regioni a ridosso della
Manica.
In tali condizioni anche
per la Resistenza dei ferrovieri francesi fu difficile muovere i primi passi, almeno fino
alla metà del ‘42. Tra l’altro, fino alla decisione hitleriana di invadere
l’URSS dell’estate del ’41, venne meno anche l’apporto dei comunisti
francesi che - in linea con le direttive dell’Internazionale intervenute a seguito
del Patto di non Aggressione dell’agosto ’39 – avevano ritirato
l’iniziale loro appoggio alla mobilitazione nazionale, cresciuta nel periodo de
“la drole de guerre”. Fu proprio a
seguito dei provvedimenti promossi dal governo Daladier (che ponevano il PCF fuori legge)
che il ferroviere comunista Pierre Semard, uno dei capi della Federazione sindacale dei
ferrovieri, fu arrestato dalle autorità francesi alla fine del ’39, e
successivamente consegnato alle autorità d’occupazione germaniche per essere fucilato come ostaggio nel marzo del
’42. Episodi di resistenza spontanea su base individuale o collettiva si verificarono
già nel ‘40 (lavorare a regolamento,
diffusione della stampa clandestina, favorire la fuga o il passaggio delle linee di
soldati francesi o britannici evasi dai campi di prigionia, di resistenti od ebrei tra le
diverse regioni del Paese), ma fu solo nell’autunno del ’42 - dopo il primo
grande sciopero ferroviario partito nelle officine di Oullins ed esteso agli altri
impianti ferroviari del Sud-Est - che la Resistenza dei ferrovieri si allargò e si
consolidò. La molla fu data dalla decisione di Pierre Laval, primo ministro del governo
di Vichy, di accettare nell’ottobre del ‘42 il trasferimento forzoso di oltre
dieci mila ferrovieri francesi in Germania, per lavorare direttamente alle dipendenze
della Reichsbahn (una decisione che precedette di un mese l’occupazione tedesca della
“zona libera”).
Fu da questo momento che,
nonostante gli arresti e le deportazioni degli elementi più attivi, le diverse
organizzazioni clandestine al Sud come al Nord intensificarono la loro attività e i loro
legami unitari. Ma la trama della Resistenza francese - ed è questa un’altra
condizione di profonda differenza con quanto avvenne in Italia - ebbe un punto di
riferimento diretto a Londra nel governo della Francia Libera (non mi pare possa dirsi lo
stesso del governo Badoglio). La Resistenza francese, anche quella dei ferrovieri
ricevette aiuti, indicazioni, mezzi. Agenti dei servizi di Intelligence, soprattutto inglesi, penetrarono
ripetutamente in Francia, organizzando reti di cospirazione o dedite al sabotaggio,
fornendo o ricercando l’aiuto sia tecnico che informativo, soprattutto dei
ferrovieri.
L’ultima
osservazione riguarda il diverso atteggiamento avutosi rispetto alla memoria. Anche a
causa del coinvolgimento di un notevole gruppo di propri tecnici e funzionari nella
Resistenza, all’indomani della Liberazione, la Direzione della SNCF (a cui furono
attribuiti gli alti riconoscimenti della Croce di guerra e della Legione d’onore) si
impegnò – unitamente al movimento sindacale – in un vasta opera di
ricostruzione e rievocazione dell’impegno profuso dai ferrovieri di tutti i profili e
di ogni grado (l’ingegnere Louis Armand, uno dei capi dell’organizzazione Nap-fer
fu il primo Direttore Generale del dopoguerra) contribuendo, per esempio, alla
realizzazione di un film simbolo quale fu la Bataille du Rail di Renè Clement, uscito nel ’46.
L’apertura degli archivi della SNCF e la disponibilità della documentazione nelle
mani dell’azienda delle ferrovie consentirono già allora la rielaborazione di una
memoria pubblica del ruolo dei ferrovieri che assunse aspetti epici (sebbene per tanti
aspetti retorica o fondata su caratteristiche di unanimità della corporazione dei
ferrovieri che oggi tende ad essere storiograficamente riconsiderata). Niente di tutto
questo è accaduto in Italia, nonostante già nel ’45 non mancassero impegni assunti
in tal senso dal primo direttore delle ferrovie italiane Giovanni Di Raimondo. Ad esempio
conosciamo l’albo dei caduti nel primo conflitto mondiale, ma non è mai stato
elaborato un albo dei ferrovieri caduti nella Resistenza. Le Ferrovie dello Stato sono
state oggi sostituite da Trenitalia e Rete Ferroviaria Italiana, ma chissà che non si sia
ancora possibile fare qualcosa.
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