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La Resistenza in Italia
Un'insurrezione politica
Le fabbriche furono concepite come vere e proprie fortezze del movimento
resistenziale
di Giovanni De Luna
La resistenza italiana modellò i suoi criteri operativi attraverso
approssimazioni successive, in un piccolo capolavoro di pragmatismo realizzato grazie alla
sua capacità di adeguarsi costantemente alle diverse "fasi" della lotta armata.
Nel periodo immediatamente successivo all'8 settembre la "guerra per bande" in
effetti appariva come una prospettiva nebulosa e remota. Si oscillava tra proposte
diametralmente opposte, come quelle emerse in seno al Comitato militare e che videro Parri
e i comunisti fronteggiarsi per tutti i mesi dall'ottobre al dicembre 1943. Per Parri si
trattava sostanzialmente di rilanciare la concezione mazziniana dell'"esercito di
popolo", scegliendo ancora come interlocutori privilegiati i resti dell'esercito
regolare sbandatosi con l'armistizio da potenziare con volontari civili, senza alterarne
strutture e modalità di impiego: un esercito patriottico e non partigiano, nazionale,
democratico, non politicizzato, pronto a condurre una guerra funzionale alle ipotesi
tattiche e strategiche degli Alleati, senza nessuna concessione al modello di
"guerriglia" della resistenza jugoslava. Si trattava di condurre "una
piccola guerra" al servizio della "guerra grossa" degli Alleati: imboscate,
sabotaggi, intralci alle vie di comunicazione o di rifornimento, rapidi colpi di mano. Le
bande vere e proprie dovevano entrare in azione solo in concomitanza con l'offensiva
finale degli angloamericani.
Anche quando questa impostazione fu superata e si scelse di formare unità militari legate
ai diversi partiti politici [alle Garibaldi, organizzate dal Pci fin dal 20 settembre
1943, seguirono le Formazioni "Giustizia e Libertà" volute dal Partito d'Azione
alla fine di ottobre], questa oscillazione rimase, attraversando al suo interno lo stesso
Pci.
In due diversi rapporti, da Roma e da Bologna, entrambi riferiti all'autunno del 1943, i
dirigenti comunisti di quelle città insistevano ancora sulla necessità di tenere in armi
piccoli nuclei di sabotatori e attentatori; da Bologna, vista l'impossibilità di
organizzare in montagna grosse formazioni, si indicava nelle azioni gappiste in città
l'unica iniziativa armata realisticamente praticabile.
Ma se ancora il 20 maggio 1994 il Comando centrale delle Garibaldi affermava recisamente -
in relazione ai criteri di impiego - "non possiamo difendere stabilmente o
vittoriosamente il possesso di nessuna vallata e di nessun villaggio", con la
liberazione di Roma e l'offensiva alleata dell'estate del 1944, le cose cambiarono
radicalmente.
Era arrivata l'estate delle zone libere, della maturità del movimento di resistenza,
delle grandi speranze per una rapida risoluzione del conflitto mondiale. All'impianto
delle "zone libere" corrispondevano ora grandi unità partigiane, pronte per
azioni su vasta scala. La trasformazione delle bande in brigate o in divisioni non fu solo
una questione puramente terminologica; fu il momento in cui il modello italiano di guerra
partigiana si manifestò in tutta la sua efficacia e fu anche quello in cui ci si
avvicinò maggiormente all'esempio jugoslavo. Con il cambiare dei criteri operativi
affiorarono anche gli elementi che consentono oggi una più puntuale ricognizione
storiografica delle specificità della Resistenza italiana.
Non si trattò di una guerra come tutte le altre. Fu una guerra politica, democratica in
duplice senso, in quanto fu democratico il suo metodo, e fu democratico il suo fine
ultimo, l'abbattimento di una dittatura e l'instaurazione di un regime fondato sulla
partecipazione popolare al potere: la "rivoluzione democratica" del PdA e la
"democrazia progressiva" del Pci, tanto per usare due formule che allora ebbero
molto successo. E fu a questo concetto che si legò l'identificazione della banda
partigiana con quella che Guido Quazza ha chiamato "un microcosmo di democrazia
diretta". Quando Dante Livio Bianco pensava alla "tuta" da operaio come
divisa ideale dei suoi partigiani si riferiva agli scritti di Rosselli sulla guerra di
Spagna, ma aveva in mente soprattutto dei partigiani caratterizzati "non solamente
come i campioni di un generico patriottismo, che mirano semplicemente a cacciare lo
straniero dal sacro suolo della patria, quanto piuttosto come il braccio armato e
l'avanguardia risoluta di un moto di rinnovamento generale che investe tutta la struttura
politica e sociale del paese".
Fu all'interno di questo modello che si elaborarono i progetti insurrezionali che
ispirarono il movimento partigiano nella sua fase finale. In questo caso, però, la
consapevolezza di come doveva essere condotta un'insurrezione appare precocissima, tale,
anzi, da passare sostanzialmente inalterata dall'inizio alla fine, sottraendosi cioè al
faticoso processo di adeguamento cui furono sottoposte le ipotesi iniziali della guerra
partigiana.
Addirittura già nel 1943, in una lettera da Roma alla direzione del Pci in Alta Italia,
si leggeva testualmente: "Pur rendendoci conto dell'importanza che vi sia una certa
preparazione per la sollevazione popolare di massa per il momento in cui gli inglesi si
avvicineranno a Roma, sarebbe un errore voler mantenere le nostre formazioni in riserva
sino a quel momento. Intanto alla sollevazione popolare di massa contro i tedeschi ci
arriveremo proprio nella misura in cui noi cominciamo a agire subito...
attraverso quotidiani episodi di lotta".
Ebbene, la vittoriosa insurrezione dell'aprile 1945 nelle città del Nord non si discostò
di molto da queste caratteristiche inizialmente delineate. L'insurrezione non fu lo
scoccare di un'ora X, un evento unico e istantaneo. Nelle direttive della direzione del
Pci del 30 gennaio 1945, la si definiva "non come una misteriosa praparazione per il
momento buono, per un'ipotetica ora X, ma come una guerriglia che deve colpire
permanentemente e con tutte le armi il nemico, ovunque si trovi".
Lo stesso "sciopero insurrezionale" era visto come "uno sviluppo crescente
di azioni offensive sempre più audaci, energiche, decisive contro i gangli essenziali
dell'organizzazione militare nazifascista". Erano i "quotidiani episodi di
lotta" del documento romano del novembre 1943.
Nell'Italia del Nord non c'era un Palazzo d'Inverno da conquistare, una Bastiglia da
distruggere. C'erano tante fabbriche da difendere dalle distruzioni dei tedeschi, tante
caserme da occupare per neutralizzare i fascisti e le brigate nere, tanti edifici
pubblici, dai municipi alle prefetture, da occupare per insediarvi il nuovo potere della
democrazia e della libertà.
"Sarebbe errato", affermava Pietro Secchia il 5 giugno 1944, "pensare
l'insurrezione nazionale come un'azione che debba aver luogo simultaneamente in tutte le
città e regioni d'Italia. E' assai probabile che l'insurrezione popolare a carattere
nazionale avvenga prima nelle regioni o provincie ove avrà luogo la lotta armata degli
alleati contro i tedeschi". L'insurrezione quindi non come momento militare,
concentrato nel tempo e nello spazio, ma come momento politico-militare diffuso nello
spazio e dilatato nel tempo. "Ci è sembrato", si diceva in un rapporto
dall'Emilia del 5 novembre 1944, "anche che, come ogni esercito in guerra, noi non
dovessimo legarci indissolubilmente ad un unico metodo di combattimento. L'insurrezione in
diversi momenti può seguire diverse vie; essa non consiste soltanto nel momento supremo
come nel 1848, ma in una lotta continua".
Su questo tronco, potentemente piantato fin dall'inizio, si innestarono poi i temi delle
successive articolazioni organizzative, arricchendo l'originalità e la specificità di
questo modello insurrezionale.
Fin dalla riflessione su una "insurrezione mancata", quella di Roma, fu chiara
infatti l'impossibilità di prescindere da una sua caratterizzazione "operaia".
Di qui l'esaltazione delle "fabbriche come vere fortezze del movimento
insurrezionale", l'importanza data allo sciopero generale, non solo per colpire la
produzione bellica nemica, ma anche per formare - direttamente nella lotta - nuovi quadri
operai. A Roma l'insurrezione non c'era stata in parte per le manovre
"attesiste" del Vaticano, ma soprattutto per delle condizioni oggettive
complessivamente sfavorevoli. Le forze antifasciste capirono che non sarebbe stato
possibile nessun tentativo insurrezionale, proprio a partire dall'insuccesso dello
sciopero generale proclamato e fallito il 3 maggio 1944. Le fabbriche, quindi, non solo
come centri difensivi per la protezione del patrimonio industriale e produttivo del paese:
"tutta la nostra forza è concentrata nelle fabbriche", scriveva la nostra lotta
nel febbraio 1945, "dobbiamo uscire dalle fabbriche. La fase decisiva
dell'insurrezione si appoggia sulla lotta delle masse operaie nelle grandi officine, ma si
combatte fuori dalle officine". Lo sciopero generale doveva essere il detonatore del
movimento insurrezionale: "al momento opportuno per lo sciopero insurrezionale",
recitavano le direttive della direzione del Pci nel febbraio 1945, "l'atmosfera deve
essere rovente, preparata da tempo sulla base dell'esperienza di questi mesi di lotta...
Lo sciopero generale insurrezionale dovrà nella città formare il quadro
dell'insurrezione popolare per la cacciata dei fascisti e dei tedeschi e per
l'instaurazione di nuovi organi di potere popolare".
Alle fabbriche e allo sciopero corrispondevano -sul piano operativo - le "squadre
cittadine", le Sap i Gap.
Nell'insurrezione la loro iniziativa doveva intrecciarsi con quella delle squadre
"foranee", le bande partigiane che dovevano calare sulle città. E questo
intreccio fu un ulteriore distintivo dell'insurrezione italiana.
La scelta del "momento giusto" era quindi fondamentale per la realizzazione
pratica di questa impostazione teorica. Bisognava assecondare lo sforzo offensivo degli
eserciti angloamericani, senza restarne invischiati. L'ordine dell'insurrezione andava
dato né troppo presto, né troppo tardi.
Al Nord c'erano ben 8 divisioni tedesche e tutte le forze armate di Salò. Una decisione
intempestiva poteva essere il preludio di un massacro: "specialmente nelle grandi
città, quindi - ha scritto Pietro Secchia - l'insurrezione andava scatenata sempre
all'ultimo momento, mentre i tedeschi si ritiravano, ma assolutamente prima dell'arrivo
degli alleati. Bisognava evitare a ogni costo che il 25 aprile si trasformasse in una
replica del 25 luglio, magari con Mussolini che consegnava le chiavi di Milano nelle mani
del cardinale Schuster". Anche solo per poche ore le forze dell'antifascismo dovevano
insediare gli organi del potere democratico; l'insurrezione doveva sancire il fatto
compiuto di una rottura violenta e irreparabile con gli assetti istituzionali e politici
del fascismo per impedire che la crosta della continuità soffocasse gli slanci e gli
entusiasmi popolari affiorati nella Resistenza.
Le considerazioni di Secchia sugli obiettivi politici dell'insurrezione ne completano,
così, il modello teorico. Che esso sia stato rigorosamente applicato in tutte le
situazioni è oggi difficile crederlo. Lo stesso Secchia, ricordando vent'anni dopo quelle
giornate di aprile, affermava con molta autoironia: "tutto era stato previsto nei
piani, ad eccezione di ciò che realmente accade". E indubbiamente, rispetto a uno
degli elementi del modello, quello dell'azione simultanea concertata tra le formazioni
partigiane che calavano dalle valli e le squadre cittadine, Genova, Torino e Milano
rappresentavano tre soluzioni pratiche completamente diverse. Genova, al mattino del 24
aprile, quando fu dato l'ordine, era già insorta; a Torino, la saldatura tra i partigiani
e la Sap avvenne con un rischiosissimo ritardo; a Milano, le formazioni partigiane
arrivarono addirittura quando la città era già liberata.
Pure, proprio il caso di Torino esprime in maniera paradigmatica il vero significato
politico dell'insurrezione. Qui, l'ordine - in codice "Aldo dice 26 x 1" - che
sanciva l'inizio dell'insurrezione per l'una del 26 aprile si combattè in periferia a
Pino, Superga, al ponte di Settimo, alla Barca, dove furono impegnati i partigiani
dell'VIII zona. Il 26 aprile fu liberata la Barca, ma la lotta divampava ancora solo in
città, intorno alle fabbriche: Lancia, Spa, Mirafiori, Elli Zerboni, Grandi Motori,
Nebiolo. Soltanto il 27 aprile le formazioni foranee forzarono le difese periferiche,
muovendosi verso il centro in aiuto alle Sap. Si combattè duramente il 28 e il 29. Il 30
Torino era libera. Ma al di là del succedersi convulso di ordini, contrordini,
combattimenti, manovre dilatorie degli Alleati, quelle giornate sancirono di fatto la
completa legittimazione politica del Cln regionale piemontese facendola scaturire
direttamente dalla concreta capacità operativa dimostrata nella conduzione della lotta
armata.
Sia nella loro veste unitaria come membri del Clnrp, sia come singoli partiti, per tutti
fu quello veramente l'esame più difficile. Lo fu il numero di uomini da preparare e da
guidare, per il tipo di impegno militare che comportava [una battaglia campale in uno
scenario urbano], per il confronto, questa volta diretto e ravvicinato, con i bisogni
vitali di un'intera città. Senza contare che - come ricordava Gianni Perona - "per
le forze che avevano impegnato i loro uomini nella clandestinità, la presenza
nell'insurrezione era anche la prima grande possibilità di far conoscere i nuovi quadri
politici e sindacali, quindi un punto di passaggio cruciale nel processo di legittimazione
che avrebbe messo a capo alle elezioni e avrebbe dovuto confermare l'autoinvestitura che
Cln e partigiani si erano dovuti arrogare nei venti mesi dell'occupazione". Un primo
esporsi, quindi, ai rischi di un consenso finalmente libero di estrinsecarsi alla luce del
sole.
L'operazione sostanzialmente riuscì. Migliaia di uomini furono impegnati in
combattimento. Le cifre ufficiali parlano, accanto ai circa 9000 uomini inquadrati nelle
Sap cittadini, dell'impiego di altri 7500 partigiani appartenenti alle formazioni
"foranee" [quattro divisioni "autonome", cinque "Garibaldi",
cinque "GL" e tre "Matteotti"]. Per quanto questi dati possano essere
gonfiati, non c'è dubbio che i protagonisti dell'insurrezione si contarono comunque
nell'ordine delle migliaia: certamente non pochi per una forma di lotta insidiosa e
totalmente anomala rispetto alle abitudini di chi aveva soltanto combattuto nelle proprie
valli. A tutti il Clnrp seppe dare ordini militarmente sensati e credibili, apprestamenti
logistici non precari, soprattutto delle motivazioni e delle spinte ideali che indussero a
marciare su Torino anche gli uomini "delle valli e dei monti", le cui case e le
cui terre erano già liberate e che non avevano più nessun interesse immediato a
proseguire la lotta. La popolazione civile fu tutelata, i servizi pubblici essenziali
garantiti. I partiti del Cln tentarono perfino, nella caterva di compiti pratici che
minacciava di sovrastarli, di lasciar emergere spunti programmatici alla ricerca di nuove
forme della politica e dell'organizzazione sociale, richiami e formule suggestive come la
"democrazia progressiva" o la "rivoluzione democratica".
La classe politica che le condizioni estreme della cospirazione cittadina e della lotta
partigiana avevano selezionato superò quindi l'esame finale. La sua autoinvestitura fu
finalmente confortata da una verifica probante. Pure, i venti mesi del suo rodaggio erano
stati troppi per i lutti e i morti che le erano costati, troppo pochi perché nel proprio
impianto potesse assumere come fondamento delle sue scelte quello slancio progettuale che
ne aveva alimentato i sogni e le speranze nella lunga notte della clandestinità.
(tratto da ilmanifesto.it)
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