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L'8 Settembre 1943
8 Settembre
Morte (e resurrezione) della Patria
Le testimonianze
di Tremaglia e Curzi
di Aldo Cazzullo
La Farnesina è deserta. Studio del ministro Mirko
Tremaglia. Riproduzione della Bocca della Verità. Sul tavolino, un libro, «Pinochet. Le
"scomode" verità». Un fascicolo con carte sull'8 settembre, alcune inedite.
Alessandro Curzi si è portato la pipa e «Liberazione», il giornale che dirige.
TREMAGLIA. Sessant'anni fa ero a Bergamo, a casa. Facevo la terza liceo. Appresi la
notizia dell'armistizio dalla radio. Fu peggio del 25 luglio. La caduta del Duce fu
dolorosa; ma allora avevamo creduto alla menzogna di Badoglio, avevamo davvero pensato che
la guerra a fianco dei tedeschi sarebbe continuata. Quella invece era la fine di tutto. Il
crollo totale. Il tradimento, la vergogna. Io ero orfano di guerra, mio padre era ed è
sepolto all'Asmara, dove sono stato ancora la settimana scorsa. Pensai subito che
bisognava riscattare tutto questo. Onore e fedeltà. Uscii per strada, vidi una bandiera.
Un tricolore non listato a lutto, ma agitato in segno di gioia. Come per un giorno di
festa. Mi sentii male fisicamente.
CURZI. A me le bandiere fecero un effetto uguale e contrario. Sventolavamo il tricolore
con un buco al centro: avevamo strappato via lo stemma dei Savoia. L'Italia eravamo noi.
Sentivamo che una pagina si era chiusa ed era arrivato il momento del riscatto. L'8
settembre '43 avevo girato per Roma tutto il giorno, insieme con Citto Maselli. Sentivamo
che c'era qualcosa nell'aria. L'annuncio ci venne dai romani che urlavano dalle finestre,
in via XX Settembre, di fronte al ministero della guerra: «Pace! Pace!». Il giorno dopo
accorremmo a Porta San Paolo, in tempo per veder ripiegare i granatieri e i popolani che
avevano tentato la difesa della città. Avevano dovuto cedere, ma avevano dato a tutti il
segnale che bisognava riscattare il fascismo, la guerra perduta, e anche lo spettacolo
doloroso dei soldati che gettavano le divise.
TREMAGLIA. Il disastro, l'umiliazione, l'ipocrisia furono totali. Il re e Badoglio
scapparono senza neppure predisporre un piano per la difesa di Roma. Non fu solo la morte
della patria, fu il disfacimento dello Stato. Non c'era più il capo dello Stato, non
c'erano più ordini. L'ha detto anche Ciampi, a Cefalonia, quando parlò di soldati
«rimasti senza ordini e colpevolmente abbandonati»; io c'ero, e mi sono congratulato con
lui. Oltre un milione di italiani cedettero le armi a 400 mila tedeschi. Qual era lo Stato
legale? La Repubblica sociale, che batteva moneta, o il Regno del Sud, che aveva le
amlire? La Rsi fu necessaria: evitò tragedie ancora più grandi. Lo prova il telegramma
di Hitler a Mussolini, citato da De Felice ne "Il rosso e il nero", il cui il
Führer minacciava di comportarsi in Italia «come in Polonia e anche peggio» se il Duce
non avesse accettato di andare a Salò. E poi avevamo un grande programma sociale, con la
partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle imprese.
CURZI. E com'è che ora fai il ministro di Berlusconi?
TREMAGLIA. Io faccio il ministro degli italiani all'estero.
CURZI. Anche noi avemmo la percezione dello sfascio, avvertimmo il senso della fine, del
crollo. Non era solo il fascismo o la monarchia, era un'intera classe dirigente a
collassare. Era il fallimento della borghesia. Capii subito che dovevo scegliere da quale
parte stare. Ma non fu una scelta facile.
TREMAGLIA. Vuoi dire che mancò poco che venissi pure tu con noi?
CURZI. Ero giovanissimo, avevo 13 anni, ero ancora alle medie. Alcuni ragazzi più grandi
andarono a combattere ad Anzio con i tedeschi, con la brigata «Roma o morte». Erano
figli di poveri, e io sono sempre stato portato a schierarmi con i deboli. Fu una scelta
che non mi lasciò indifferente. La rispettai.
TREMAGLIA. E ci credo! Il fascino di Mussolini. La crociera di Italo Balbo. L'Impero. Te
lo ricordi, l'Impero?
CURZI. Avevo appena sei anni, ma mi ricordo a scuola le bandierine italiane che segnavano
l'avanzata sulle mappe. Ero stato un balilla convinto. Dei miei due zii materni, uno era
un tranviere comunista, l'altro era stato squadrista e poi diplomatico. Ma poi prevalse
l'esempio di altri ragazzi più grandi, che si avvicinarono alla Resistenza e al partito
comunista. Così cominciai a diffondere l'Unità clandestina nella scuola, con la
complicità del bidello.
TREMAGLIA. Ero ansioso di combattere, di riscattare il tradimento. La Rsi aveva nove
scuole ufficiali. Io andai a quella di Modena. Ma anziché al fronte ci mandarono a
Brescia, al comando della Guardia nazionale repubblicana, e da lì a Torino. Fronte
interno. Con i Rau, reparti arditi ufficiali. Noi protestiamo, un colonnello ci minaccia:
«Otto passi indietro traditori della camicia nera, chi se ne va sarà passato per le
armi!». Traditori a noi? Un'ora dopo siamo già sull'autostrada, verso Brescia. In
quattro proseguiamo per il Garda, c'è anche Livio Zanetti. Ci fanno consegnare le pistole
e ci arrestano per insubordinazione. Ma interviene il Duce, per farci liberare e mandare
finalmente al fronte, contro gli alleati. In Garfagnana. Supervolontari. La voglia di
combattere è tanta che facciamo l'ultimo tratto a piedi. Ma mi fanno prigioniero e
finisco in campo di concentramento, ad Aversa. Un giorno, l'8 agosto, ci fanno salire sui
vagoni piombati, 50 per ogni carro bestiame, e ci portano verso Nord. Tre giorni
senz'acqua. Una tortura. Ci fanno scendere a scudisciate. Al campo di Coltano.
CURZI. A Coltano andai anch'io. Anzi, andavamo tutti i giorni, finita la guerra, per
parlare con i fascisti che venivano liberati. La direttiva del partito era di conquistarli
alla nostra causa. Ripubblicammo l'appello di Togliatti ai «fratelli in camicia nera».
Prima avevamo tentato di arruolarci nelle truppe italiane che risalivano la penisola, ma
molti di noi furono respinti a calci perché troppo giovani. Allora ci radunammo nel
cortile della caserma e intonammo Bandiera rossa.
TREMAGLIA. Le condizioni di prigionia erano durissime. Eravamo 36 mila alla fame. Gli
alleati avevano viveri e ci passavano pillole. C'era un campo di punizione irto di sassi
appuntiti, dove ti facevano stare per ore senza scarpe, ne uscivi con i piedi e il sedere
piagati...
CURZI. Guarda che stai parlando con uno che è stato a via Tasso, dopo la partenza dei
tedeschi, che ha visto i segni e ascoltato i racconti delle torture...
TREMAGLIA. Noi stavamo con i tedeschi, e voi con Stalin. Siamo testimoni di un tempo
terribile, e dobbiamo conservarne la memoria senza strumentalizzarla con la politica.
CURZI. Ma con noi c'erano anche gli americani.
TREMAGLIA. Che avevano continuato, anche dopo la caduta di Mussolini, a bombardare, a
massacrare. Milano è stata massacrata ad agosto, una bomba cadde su una scuola e ammazzò
trecento bambini. Il trattato di pace contiene punti ignominiosi, come l'articolo 16, che
vieta di perseguire penalmente chi durante la guerra era stato al servizio dell'altra
parte. Segno che i traditori di cui parlava il regime c'erano.
CURZI. E' vero, il trattato aveva anche clausole segrete per cui l'Italia non divenne mai
pienamente autonoma nel dopoguerra. Ma cosa ci fa nel tuo studio quella targa con la
bandiera americana intrecciata al tricolore?
TREMAGLIA. E' un regalo degli italiani d'America.
CURZI. Comunque anche noi avevamo forte l'idea di patria. Quando arrivarono gli alleati a
Roma, io e i miei compagni eravamo lì, armati, con il fasciale del corpo di liberazione,
e non vedevamo di buon occhio quelli che chiedevano sigarette e cioccolata. Se ti rileggi
le lettere dei condannati a morte della Resistenza, vedi che anche i comunisti morivano
gridando: viva l'Italia!
TREMAGLIA. E' vero, l'ha scritto anche Bruno Gravagnuolo sull'Unità: non ci fu mai tanto
volontarismo come in quei giorni.
CURZI. I peggiori erano quelli che non sceglievano. Noi li chiamavamo i badogliani.
TREMAGLIA. I pescecani. Però Amendola, nell'«Intervista sull'antifascismo», fa notare
che la Resistenza fu una sorta di necessità logistica: i soldati che non volevano andare
in Germania andavano alla macchia.
CURZI. Io, che ero ingraiano, quel libro di Amendola l'ho letto e l'ho convidiso. La
Resistenza fu avviata da nuclei d'avanguardia, tra cui alcuni, piccolissimi, di comunisti,
che seppero trascinarsi dietro molti altri. Pensa alla divisione Gramsci, in Albania,
composta da uomini che Gramsci non sapevano neppure chi fosse, ma combattevano agli ordini
di un sottotenente comunista.
TREMAGLIA. I ragazzi e le ragazze che venivano da noi obbedivano invece a un impulso
immediato. E, certo, erano attratti dal fascino di Mussolini. Quali erano i miei pensieri?
Vincere. A 17 anni pensi di vincere. Avevamo fiducia nelle armi segrete di Hitler; e non
era un pensiero campato in aria, c'erano le V2, le ricerche sul nucleare... Rinnegare
qualcosa? E perché? È la mia vita. Non si può rinnegare la propria vita. Me l'ha
riconosciuto anche Violante: i valori per cui ci siamo battuti appartengono alla storia
del paese.
(lastampa.it, 8 settembre 2003) |