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L'8 Settembre 1943
Piacenza resiste ai reparti tedeschi che intimano la resa
di Fabio Achilli
Piacenza, 8 settembre 1943. Verso sera - sono le 19,45 - il primo ministro
Pietro Badoglio annuncia alla radio che la richiesta italiana di armistizio è stata
accolta dagli alleati. Il comunicato è sibillino: parla di cessazione delle ostilità con
gli anglo-americani, ma anche di reazione ad attacchi di qualsiasi altra provenienza.
Non è ancora la pace, la gente lo sa bene ed è in trepida attesa degli eventi. Sono
terminati, in questo modo ambiguo così come erano cominciati, i 45 giorni
badogliani, durante i quali sono state avviate, in gran segreto, le trattative per
l'armistizio, inutilmente tirate in lungo nella speranza di chissà che cosa: in realtà,
Roosevelt, Churchill e Stalin hanno già stabilito anche per l'Italia la resa
incondizionata.
Dopo tanti tentennamenti, dunque, la decisione alla fine è stata presa: il generale
Castellano è stato inviato in Sicilia a firmare la resa. Il 3 settembre, a Cassabile,
presente Eisenhower, l'armistizio è stato siglato, ma con l'impegno di tenerlo segreto
fino allo sbarco alleato sulle coste della penisola. Ai reparti dell'esercito è stata
recapitata la memoria 44 OP, un confuso testo di disposizioni in caso di
attacco tedesco.
All'alba dell'8 settembre (è pomeriggio in Italia) radio New York dà finalmente la
notizia, confermata qualche ora dopo dal governo italiano. Nella notte gli alleati
sbarcano a Salerno. Il re, la famiglia reale, Badoglio, il governo e lo stato maggiore
fuggono da Roma, raggiungendo Pescara, da dove si imbarcano per Brindisi.
Vittorio Emanuele è re solo di nome. L'Italia è in mano agli eserciti stranieri e
spezzata in due: le regioni meridionali saranno amministrate direttamente dai comandi
militari anglo-americani, mentre al centro e al nord a comandare saranno i tedeschi. E' il
segno della scomparsa di ogni potere legittimo, in una Italia sul punto di smarrire la
propria identità nazionale. Nelle forze armate regna la confusione: gli ufficiali non
sanno come interpretare gli ordini, per i soldati la parola d'ordine è tutti a casa.
Quasi ovunque, i reparti tedeschi dislocati nella penisola possono così entrare da
padroni nelle piazzeforti italiane senza incontrare opposizione.
La resistenza armata riguarda pochi casi isolati, dovuti all'iniziativa autonoma di
singoli ufficiali o in concomitanza con focolai di lotta alimentati dagli antifascisti.
Come a Roma, dove alcuni reparti dell'esercito, spalleggiati da civili, si battono a Porta
San Paolo per contrastare l'ingresso dei tedeschi nella capitale; saranno costretti a
capitolare dopo due giorni. Mentre a Cefalonia, isola greca del Mar Ionio, i 10mila uomini
della divisione italiana Aqui rifiutano di consegnarsi ai tedeschi, pagando in gran numero
con la vita questo primo fuoco di resistenza. Si tratta, però, di eroici, quanto
sporadici episodi di resistenza. Tra questi pochi, vi è quello di Piacenza.
Nella mattinata del 9 settembre unità corazzate della Wermacht, partite dal campo
d'aviazione di S. Damiano e dislocate nei pressi di Rottofreno, sferrano l'attacco alla
città lungo la direttrice posta tra il Trebbia e la via Emilia ed intimano la resa al
comando del Presidio.
I due ufficiali più alti in grado, il generale Assanti ed il colonnello Paleari, decidono
di resistere, schierando reparti di due reggimenti di fanteria, uno di artiglieria, uno di
carristi, uno di pontieri, uno della Scuola artificieri dell'Arsenale, un battaglione
territoriale, un altro della Sanità ed aliquote di Carabinieri, della Guardia di Finanza,
dell'Aeronautica e della Direzione di Artiglieria.
Ai militari si affiancano gruppi di civili, esponenti dell'antifascismo che non si sono
rassegnati alla passività, anche dopo il diniego di consegnar loro delle armi da parte
della Questura, della Direzione di artiglieria e del comando del Presidio, presso il quale
si è recata una delegazione del Comitato antifascista.
Le forze nemiche sono soverchianti, ma la resistenza è ostinata. Lo scontro più cruento
si ha nella zona di Rottofreno, dove lasciano la vita 27 militari italiani e 5 civili.
Altri combattimenti presso il ponte sul Trebbia, a S. Antonio, alla Galleana, presso il
ponte ferroviario sul Po provocano la morte di 14 soldati.
I tedeschi minacciano di bombardare la città con gli aerei di stanza a S. Damiano. Il
generale Assanti tenta di contattare Roma e Milano, per avere lumi dai comandi superiori,
ma non ha risposta; per cui è costretto ad accettare l'intimazione di resa.
Nel pomeriggio, dopo circa dieci ore di combattimenti, la divisione corazzata tedesca,
comandata dal generale Peiffer, entra in Piacenza e soffoca l'estrema resistenza,
occupando la caserma del IV Artiglieria e l'Arsenale. L'occupazione tedesca della città
è ultimata nel giro di tre giorni. E' costata in tutto 49 morti, di cui 5 civili. I
soldati italiani vengono ammassati nelle caserme, in attesa di essere spediti in Germania.
Molti però riescono a fuggire, nascondendosi nei conventi e nelle case attigue; di lì,
vestiti di abiti civili forniti dalla popolazione, riparano sui monti o raggiungono le
loro abitazioni.
Ai militari italiani allo sbando, ai tanti che transitano per Piacenza provenienti da
altre località, stanchi, affamati, vestiti alla meglio, si aggiungono i 400 prigionieri
alleati in fuga dai quattro campi di prigionia situati nella nostra provincia: a Veano
(destinato agli ufficiali inglesi); a Cortemaggiore (in prevalenza prigionieri jugoslavi);
a Rezzanello (civili greci); in città al Collegio Morigi (gli ammalati).
Una parte di essi fugge verso sud, attraverso l'Appennino, sperando di passare al fronte
alleato. La maggioranza, invece, vaga per la provincia. Di questi, molti raggiungeranno in
val Nure un piccolo nucleo antifascista (formato dalla famiglia Baio) che organizza
l'espatrio degli inglesi in Svizzera; altri (inglesi, iugoslavi, russi) si uniranno ai
gruppi di partigiani decisi a combattere sui monti.
Ai prigionieri rimasti in città o sparsi nei casolari di campagna provvede la
popolazione. Dure le disposizioni tedesche per chi aiuta i prigionieri alleati fuggiti; il
Comando militare di Piacenza offre, invece, 1800 lire di ricompensa a quanti
contribuiscono alla loro cattura.
Per l'antifascismo piacentino l'aria ritorna irrespirabile. Alcuni suoi esponenti lasciano
la città e raggiungono la montagna. A Peli, una frazione di Coli, si forma il primo
nucleo di bande partigiane, aiutate dal parroco del posto, don Bruschi. Chi resta in
città organizza, attorno al primitivo gruppo del Comitato antifascista, le file di quello
che sarà il CLN provinciale. Quanti si erano illusi che la libertà fosse vicina vengono
riportati alla dura realtà. Il quotidiano Libertà esce per qualche giorno con i larghi
spazi bianchi imposti dalla censura, fino a quando il direttore Filiberto Prati decide di
sospendere, l'11 settembre, le pubblicazioni. Dieci giorni più tardi riprenderà ad
uscire La Scure.
Sotto le possenti ali tedesche anche il fascismo piacentino ritorna allo scoperto.
Mussolini, liberato sul Gran Sasso da un commando di SS, annuncia da Radio Monaco, il 18
settembre, la costituzione di un nuovo Stato fascista repubblicano (la RSI) nelle regioni
del nord occupate dai tedeschi. A Piacenza, è il federale Pansera a riprendere in mano la
situazione, incitando i fascisti piacentini a rialzare il capo.
Agli sbandati viene imposto, dai fascisti e dai tedeschi, di presentarsi ai
rispettivi comandi militari. Una scelta drammatica - presentarsi o non
presentarsi? - attende tanti giovani e le loro famiglie. Per quelli che sceglieranno
la lotta armata di ribelli sui monti saranno altri stenti ed altri pericoli,
ma con la coscienza di fare qualcosa per il riscatto del Paese. Per tutti, ancora mesi di
paura e di sofferenza.
La testimonianza
Bruno Gandolfi, pensionato, nato a Gropparello 82 anni fa e oggi residente a Piacenza
in via Beverora, l'8 settembre di sessant'anni fa, si trovò ad affrontare la scelta di
dover combattere a fianco dei fascisti o entrare nelle file della Resistenza. Gandolfi
come ricorda in un manoscritto a noi inviato, afferma che non ebbe dubbi, entrò a far
parte dei partigiani della divisione Valdarda, che era diretta dal comandante Giuseppe
Prati. Gandolfi in breve divenne vicecomandante di una delle brigate della Valdarda, la
brigata Oltrepo che, diretta dal comandante Gaboardi, operò durante l'ultima guerra nel
piacentino. Durante quel sanguinoso conflitto fra italiani perse il fratello Vittorio di
19 anni, fucilato dai fascisti, perchè anche lui partigiano.
«Non ho avuto dubbi sulla scelta che avrei fatto», spiega il vicecomandante. «L'otto
settembre mi ha sorpreso a Cerveteri, vicino a Roma, con un battaglione di studenti
universitari, eravamo stati dislocati alla difesa della capitale. In quel giorno il
comandante mi ordinò di predisporre un posto di blocco sulla via Aurelia e mentre mi
apprestavo ad ubbidire ricordo che mi si avvicinò uno studente che conosceva il tedesco e
mi disse: se vedete arrivare i tedeschi, dite loro di tornare indietro perchè a Roma non
si entra».
Gandolfi ricorda poi che al suo posto di blocco le armi erano scarse, un paio di mitra e
moschetti, con cui si sarebbe dovuto affrontare eventuali colonne tedesche.
«Dopo alcune ore - prosegue Gandolfi - dalle alture circostanti dove il colonnello aveva
dislocato il battaglione, le prime segnalazioni con megafono non dicevano nulla di buono.
Circolò presto fra i soldati la voce che il nostro colonnello vestito da buttero a
cavallo era stato visto fuggire nella campagna. La seconda compagnia del nostro
battaglione si era già disciolta.
Non ci è rimasto che rientrare nella nostra caserma a Cerveteri dove trovammo uno
spettacolo desolante. Il magazzino del battaglione era stato assaltato e svuotato di
tutto. Davanti a questo caos e senza più comando, io e altri studenti ci disperdemmo.
Ognuno prese strade diverse, nel tentativo di non cadere nelle mani dei tedeschi che
facevano prigionieri i soldati italiani ormai allo sbando. Alcuni si diressero al sud. Io
e altri cinque soldati puntammo a nord e ci incamminammo».
Gandolfi racconta delle stazioni ferroviarie bombardate, della difficoltà di trovare un
treno. «Riuscii a stento a salire su un treno per Bologna, assaltato da una folla di
disperati», prosegue l'ex vicecomandante. «Riuscii a salire a soltanto perchè appoggiai
ad un finestrino due pacchetti di sigarette, allora quelli nello scompartimento
abbassarono il vetro e a forza di braccia mi tirarono dentro il treno». Il viaggio del
soldato piacentino proseguì fino a S. Ilario Alto dove scese dal treno e raggiunse un
collegio dove riuscì a farsi consegnare abiti civili.
«Telefonai ad una società di pullman di Genova per sapere se c'erano corriere per il
nord e mi sentii rispondere in tedesco. Decisi così di proseguire a piedi per i monti
fino a Piacenza».
Monte Bello, Sant'Oberto, Torriglia, Ottone, Bobbio e infine Piacenza. «In città riuscii
a farmi prestare una bicicletta e con questa raggiunsi casa mia a Gropparello. Dopo
qualche tempo tornai a Piacenza per fare acquisti e mi fermò una pattuglia della Guardia
Nazionale Repubblicana, domandandomi come mai in qualità di ufficiale, non mi ero
arruolato nella Repubblica Sociale.
Risposi che ero solo un sergente allievo ufficiale e che a causa dell'armistizio non avevo
potuto fare il mese di prima nomina. Non vollero sentire ragione e mi portarono alla
caserma Farnese. Qui mi arruolarono».
Alla prima occasione Bruno Gandolfi disertò dalle file dell'esercito fascista per
raggiungere la montagna, si presentò al comandante Giuseppe Prati con il quale rimase
fino alla fine della guerra con il grado di comandante di distaccamento prima e
successivamente di vicecomandante di brigata.
(Libertà, 8 settembre 2003)
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