La Stampa, 14 aprile 2001

Il nuovo codice per i ricercatori
Ostaggi della Storia

di Elena Loewenthal


«CHI professa una fedeltà incorrotta al vero deve parlare di tutti senza amore di parte né odio»: sono parole di Tacito all'inizio delle sue Storie, ispirate dalla fiducia che un moderato distacco dall’oggetto sia garanzia di libertà e correttezza
metodologica. Tucidide si rassegna per parte sua all’impossibilità di «raccogliere notizie sicure e chiare» sui precedenti che condussero alla guerra tra Peloponnesi e Ateniesi, e si getta nello studio dei documenti. Per entrambi il passato, così come la memoria, è un magazzino di materiali indifferenti, da discriminare. Un’altra convinzione sembra invece informare il «Codice deontologico per storici e archivisti» appena pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, relativo al trattamento di dati personali per scopi storici. Esso prende avvio da un decreto legislativo introdotto già nel 1999, che impone regole e limiti alla pubblicazione di documenti; si stabilisce innanzitutto una sorta di «graduatoria» cronologica per i documenti riservati di politica interna ed estera consultabili solo dopo cinquant’anni, mentre i dati sensibili e giudiziari debbono aspettarne quaranta, e settanta quelli relativi allo stato di salute o alla vita sessuale. L'idea che soggiace a questa regolamentazione è quella di un passato concepito non tanto come un serbatoio di dati a disposizione del presente, quanto come una mappa entro i cui confini orientarsi con coscienza e circospezione. Quasi a dire che non è il passato ad appartenere a noi, ma viceversa: ne siamo ostaggi illusi. Questo senso di precarietà probabilmente giova al mestiere dello storico, sgomberando certezze e facili
verità. Il nuovo codice deontologico associa misure nell’ordine della tutela personale - sollecitando «cautele per la raccolta, l'utilizzazione e la diffusione dei dati contenuti nei documenti» - a rudimenti di carattere filologico che ogni apprendista dovrebbe tenere a mente, quale «la distinzione delle fonti originarie dalla documentazione successivamente acquisita». Spunti metodologici e etica professionale si combinano in questo documento che non è un semplice formulario di ordine tecnico bensì quasi un manifesto del mestiere di fare storia ed esplorare archivi. E ciò che qui può apparire astratto quando non banale, va saggiato nel confronto con l’esperienza vissuta. Come l’invito ad «utilizzare i documenti sotto la propria responsabilità e conformarsi agli scopi perseguiti e delineati nel progetto di ricerca», che per chi abbia mai avuto sotto gli occhi una lettera custodita in un archivio o un manoscritto rimasto tale per insondabili ragioni, evoca il tremore che prende ogni volta insieme al senso di violare irreparabilmente qualcosa, al solo leggere. 

 

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