La Stampa, 10 aprile 2001

I medici di Hitler fanno ancora la scienza

di Elena Loewenthal

«C'è il dovere della memoria, indiscutibile, ma dovrebbe porsi in alcuni casi anche il richiamo dell'oblio. Esiste una malattia neurologica congenita dell'infanzia che porta il nome dei suoi scopritori, Hugo Spatz e Julius Hallevorden. Il primo descrisse la malattia per la prima volta nel 1922. Il secondo, suo allievo, lavorò
in quest'ambito fra il 1939 e il 1942. Sapeva benissimo da dove arrivava quell'inaudita quantità di cervelli di bambini, che considerava materiale meraviglioso. Accettava con entusiasmo quei cervelli da studiare, dichiarò dopo la guerra, la cui provenienza non era affar suo». Il professor Francesco Monaco, direttore la clinica neurologica dell¹Università Amedeo Avogadro di Novara, si domanda (e domanda ufficialmente alla comunità degli scienziati) quale giustizia stia nel fatto che una tale esperienza di ricerca venga ricordata nel nome di questa malattia. Hallervorden sfruttò a piene mani quel progetto tedesco eufemisticamente detto di «eutanasia attiva» che prevedeva l'eliminazione di malati mentali e «subumani» in generale, nel contesto di una purificazione della specie ariana. Di lì agli esperimenti di ipotermia a Dachau e sui gemelli ad Auschwitz, il passo fu tremendamente breve. La questione di fondo è: come ricordare tutto questo
rispettando un barlume di giustizia? Che senso ha onorare la memoria di uno scienziato complice del nazismo? D'altro canto anche la scienza va rispettata. Fin dove può giungere la sua neutralità, dov'è che essa diviene colpevole, complice o anche solo testimone? Il professor Monaco spiega che nel primo ventennio del secolo scorso il mondo di lingua tedesca era all'avanguardia negli studi di medicina, e in particolar modo nel campo della neurologia. Com'è possibile, ci si domanda, che una tale civiltà abbia prodotto il nazismo o anche soltanto assistito senza reagire ai suoi orrori? Com'è possibile che tanti luminari abbiano visto così da vicino quanto stava accadendo senza che la loro coscienza ne venisse
intaccata? L'anatomista Eduard Pernkopf (1888-1955) era preside della facoltà medica di Vienna e ne spazzò via tutti i docenti ebrei, poi sfruttò il terrore nazista per ottenere «campioni di ricerca». Ne è risultato un manuale di riferimento della sua disciplina ampiamente tradotto e ancora oggi adottato - con la precauzione di rimuovere dal frontespizio le icone naziste di cui l'autore andava così fiero. Non è certo auspicabile la censura di questi materiali, i manuali restano manuali e non sono strumenti di propaganda né documenti storici, ma la medicina attende ancora una presa di coscienza di questo passato pericolosamente vicino. Il processo di Norimberga conteneva anche una sezione dedicata ai crimini della scienza, che vide ventitré imputati di fronte alla corte. Ci lavorò soprattutto Leo Alexander, un medico ebreo nato a Vienna nel 1905, fuggito in tempo negli Stati Uniti e tornato subito dopo la guerra per una commissione d'inchiesta che interrogò scienziati e sopravvissuti. Ma tanti, fra cui Hallervorden, Pernkopf, Voss, non furono mai
processati ed anzi dopo la guerra ripresero indisturbati la loro brillante carriera accademica. La scienza esige autonomia di lavoro e indipendenza dalla politica, come si rivendica in questi giorni con sacrosanta ragione. È questo un indiscutibile dettato di civiltà, accanto al quale si pone l'interrogativo sull¹incontro fra il libero cammino della ricerca e la coscienza. Per questo è stata lanciata la proposta di istituire una giornata di «lamento per le vittime della scienza medica» d'ogni dove, da far cadere nel primo lunedì dopo il nove di dicembre, data in cui si aprì il processo medico di Norimberga, affinché accanto ai nomi «illustri» si depositi la memoria di quei tanti senza nome passati sopra i tavoli dei loro laboratori. 

 

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