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La Stampa, 10 aprile 2001
Giustizia attraverso la memoria Wiesenthal: come tenere viva la
testimonianza
La sua voce è ferma, scandita come se con il tono stesso ambisse spiegare. Simon
Wiesenthal ha novantatre anni, è nato in Polonia nel 1908 e durante la guerra è
sopravvissuto a tredici campi di sterminio. Dopo, il mite «cacciatore di nazisti» ha
dedicato la vita al suo centro di documentazione, creato per il bisogno di conoscere e
pretendere una seppure simbolica giustizia per vittime e superstiti. Le sue ricerche hanno
contribuito alla ricostruzione di questo passato; la sua tenacia nel ritrovare i criminali
nazisti sparsi per il mondo non ha nulla a che vedere con la sete di vendetta, è
un'urgenza morale, un richiamo per tutti: guardate che cosa può ancora nascondere un
mondo civile. Al tema del perdono negato per senso di
giustizia - perché il perdono può concederlo chi ha subito l'offesa e nessuno può
arrogarsi il diritto di perdonare per conto altrui - è dedicato il suo libro più famoso,
Il Girasole, da poco in una nuova edizione presso Garzanti. Sentiamo il suo parere di
testimone ed «educatore» della coscienza. Qual è, Simon
Wiesenthal, il senso di una ricorrenza ufficiale sulla memoria dello sterminio nazista?
«La memoria è un elemento essenziale dell'educazione, in quella fascia di età compresa
fra i quindici e i venticinque anni, più o meno. È qui che bisogna agire insieme, in
piccoli gruppi guidati da qualcuno che sappia, che abbia visto.
So che, nella totale ignoranza della storia, molti giovani trovano oggi nel nazismo un
nuovo slogan da scandire, una bandiera da far sventolare. Questo perché i loro nonni non
hanno parlato, non hanno raccontato, o se l'hanno fatto è stato senza dar conto della
misura di ciò che era avvenuto. Fra le vittime e i carnefici c'è, non dimentichiamo, una
immensa «zona grigia» di testimoni: l'Europa stessa fu tacito
testimone». Quale sarà il posto della memoria fra, diciamo, cinquant'anni, quando i
testimoni saranno scomparsi del tutto? «È per questo che insisto sull'educazione,
sull'informazione, sulle gite ad Auschwitz purché fatte da piccoli gruppi di ragazzi
insieme a delle guide. I testimoni debbono parlare, continuare a farlo sì da lasciare il
più possibile alle generazioni future. Non c'è altra scelta. Devono parlare e farsi
ascoltare. Poi, quando non ci saranno più, resterà da leggere ciò che hanno lasciato.
È l'unica strada. La memoria va guidata così attraverso le generazioni». Lei ha
dedicato la vita a un bisogno di giustizia esercitato attraverso la memoria, alla
ricostruzione del passato allo scopo di emendarlo. Qual è il rapporto più profondo fra
giustizia e memoria? Ricordare è anche un atto che rende giustizia, oltre che educare?
«Nessuno può più restituire nulla alle vittime, né la condanna di un criminale né il
perdono elargito gratuitamente. Le vittime restano tali per l'eternità. La giustizia è
un bisogno del presente, prima che un atto di rispetto verso chi non c'è più. Guardi,
circa un mese fa è arrivata nel mio ufficio una vecchietta che in lacrime mi ha baciato
le mani (lasciandomi non poco confuso!) e mi ha detto grazie per quello che ho fatto,
perché ho dato un senso alla sua vita di unica superstite della famiglia. Scene di questo
genere capitano molto spesso qui, eppure sento che ho fatto molto poco, troppo poco, in
confronto al bisogno di
giustizia che esige ciò che è accaduto. Per me la storia è fatta di uomini e donne, di
nomi e persone, sono loro che chiamano questa giustizia attraverso la memoria e mi creda,
sento di aver fatto ancora troppo poco.[e. l.]
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