|  | La Stampa, 5 aprile 2001 
 Giuliano, bandito in paradiso
 
 di Francesco La Licata
 PALERMO IL bandito Salvatore Giuliano chiese
    perdono a Dio per le sue malefatte. Riuscì anche a confessarsi e, forse, a prendere la
    comunione. Incontrò per due volte lo stesso prete, al quale affidò la propria crisi di
    coscienza e persino una buona parte di inconfessabili segreti. La storia inedita della
    «conversione» di Turiddu re di Montelepre, ricordato finora per la vocazione allo
    stragismo ante litteram e soprattutto per aver sparato - il 1° Maggio del 1947 - su un
    corteo di contadini a Portella della Ginestra, è contenuta in poche righe, una trentina.
    Si tratta di una lettera scovata nell'archivio storico dell'Arcidiocesi di Monreale, nel
    cui territorio ricade la parrocchia di Santa Rosalia di Montelepre. L'esistenza della
    lettera è stata confermata dalla Curia di Monreale, diretta dal vicario generale don
    Vincenzo Noto, un sacerdote molto conosciuto a Palermo per essere stato vicino al cardinal
    Salvatore Pappalardo e per aver fondato l'agenzia Mondo Cattolico di Sicilia e il
    settimanale Novica. Il documento - identificato come «Fondo Governo Ordinario», Sezione
    9, Busta 1, Serie 36 S - è firmato da un prete non siciliano, padre Agostino Reni, e
    porta la data di «luglio idi 1950». Proviene da via Pescara di Milano che,
    presumibilmente, deve essere l'indirizzo del religioso. Destinatario della missiva è il
    vescovo di Monreale, Ernesto Filippi. Il contenuto è semplice nello stile, anche se
    propone argomenti dibattuti più volte nel corso degli anni, mamai definiti. Nel caso di don Agostino Reni si tratta di una vicenda molto simile a quella
    avvenuta qualche anno fa a Palermo, quando il carmelitano della Kalsa, padre Mario
    Frittitta, fu arrestato per aver accettato di incontrare il boss mafioso latitante, Pietro
    Aglieri, ed aver celebrato la messa nel covo del ricercato. Il
 monaco in manette fece scalpore, e l¹intera parrocchia insorse contro i magistrati.
    Frittitta venne processato, condannato in primo grado ma assolto in appello con grande
    riesplosione delle polemiche.
 Anche la Chiesa non fu univoca: Frittitta venne difeso dal suo Ordine e censurato dalla
    Curia palermitana, mentre il dibattito teologico non ha sciolto il dubbio sulla
    «opportunità» di offrire i sacramenti a uomini praticamente scomunicati in quanto
    mafiosi. Cinquant'anni prima di Frittitta, don Agostino scrive al vescovo e lo informa di
    aver incontrato Giuliano: «Sono del continente e qui lo conobbi due anni addietro,
    perché mi cercò». L¹annotazione consente qualche riflessione a proposito della
    facilità con cui, allora come ora, riescono a spostarsi i latitanti. Ma c'è dell'altro,
    quando il prete afferma: «Confessò i suoi errori, dei quali era relativamente
    responsabile». Che vuol dire, don Agostino? Quale verità gli fu affidata, nel segreto
    del confessionale? E' azzardato ipotizzare che il bandito parlò delle complicità mai
    provate nei numerosi processi? Un secondo incontro deve essere avvenuto, come scrive il
    prete, «due mesi fa» rispetto al luglio 1950. E cioè qualche settimana prima che il
    bandito - nascosto nella casa dell'«avvocaticchio» Di Maria a Castelvetrano - venisse
    assassinato dall'unica persona che poteva avvicinarlo: il cugino Gaspare Pisciotta.
    Puntualizza il religioso: «...per salvare un'anima l'esaudii». Giuliano avrebbe voluto
    la comunione, ma ciò non fu possibile perché, scrive Reni, «non volevo essere troppo
    notato in Palermo». Il sacerdote,
 comunque, gli indica una «chiesetta» dove avrebbe facilmente ricevuto l'ostia. La prosa
    del documento non lascia spazio a dubbi sulla convinzione di don Agostino, a proposito
    dell'effettiva «conversione» del bandito: «Dio voglia che sia una pecorella del suo
    ovile ritornata in seno a Dio. Non sempre il giudizio degli
 uomini è simile a quello di Dio». In effetti Giuliano deve aver goduto di un certo
    ascendente sulla Chiesa, se è vero che la sorella, Mariannina, riuscì a sposarsi nella
    parrocchia di Santa Rosalia, a Montelepre, presente il latitante Turiddu. Le parole di don
    Agostino, rivelano una certa preoccupazione di Giuliano per la sorte della madre, Maria
    Lombardo. Un'ansia che risulta, però, incomprensibile a uno dei ultimi sopravvissuti di
    quella tragica stagione: il maresciallo Giovanni Lo Bianco, allora sottufficiale della
    squadra repressione banditismo e oggi novantaduenne. «L'unica volta - dice - che Giuliano
    si preoccupò della madre risale a quando scrisse una lettera all'ispettore generale
    Verdiani per pregarlo di intercedere presso il procuratore generale Emanuele Pili in
    favore della donna e della sorella Giuseppina». Lo Bianco aveva arrestato Maria Lombardo
    sulla strada fra Montelepre e Terrasini. Seduta sul sedile posteriore di un'auto,
    stringeva un fazzoletto pieno di gioielli acquistati nella premiata gioielleria
    Fiorentino. Era il tesoro destinato al genero Pasquale Sciortino, in procinto di emigrare
    negli Usa. L'archivio di Monreale non contiene altro su questa vicenda. Non sembra vi sia
    stata risposta del vescovo. Rimane il mistero: cosa spinse don Agostino a informare le
    gerarchie ecclesiastiche dei suoi incontri col bandito?
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