la Repubblica, 30 marzo 2001, pag. 46

Come Churchill riuscì a restare in guerra con Hitler

di Lucio Villari


Non fu il giorno più lungo, quel 4 giugno 1944 dello sbarco in Normandia, a
decidere le sorti della Germania e della Seconda guerra mondiale, ma furono
cinque giorni brevi, concitati, dal 23 al 28 maggio 1940, cinque giorni di
parole, di discussioni, di scambi epistolari, di polemiche tra Winston Churchill, appena diventato primo ministro, e alcuni suoi colleghi conservatori a segnare il destino dell'Europa e forse del mondo. La guerra dilagava ormai da otto mesi e sulla carta geografica del Nord e dell'Ovest del nostro continente si appuntavano numerose le bandierine con la croce uncinata. Nel resto del mondo, silenzio: la grande Russia sovietica osservava, tranquilla. Gli Stati Uniti d'America osservavano, attenti e lontani. I grandi amici della Germania, l'Italia e il Giappone osservavano in agguato. A Londra, nel salotto di Downing Street o alla Camera dei Comuni, dei signori discutevano e intanto la tenaglia germanica si chiudeva
su 250.000 soldati britannici e 140.000 francesi assediati nel porto francese di Dunkerque. Sul finire dei cinque giorni di parole, il 27 maggio, cominciava l'umiliante ricerca di salvezza per mare di questi uomini intrappolati. Navi per attraversare la Manica ce n'erano ben poche, la Francia era ormai in ginocchio (chiederà la pace alla Germania venticinque giorni dopo) e i gerarchi nazisti ridacchiavano: "Si spera che i Tommies sappiano nuotare", dichiarò quel giorno Hermann Goering, numero due del Reich. Fino al 4 giugno, l'impresa disperata di riportare in Inghilterra i Tommies e di salvare i loro compagni francesi fu compiuta con tutti i battelli possibili, fino ai pescherecci, alle barche a vela, agli yachts dei
ricconi, ma alla fine 88.000 furono fatti prigionieri. Anche in Normandia lo sbarco del '44 fu terribile per gli Alleati (ora i compagni degli inglesi erano gli americani), ma la Germania aveva i mesi contati. Alla fine di maggio 1940, nella angoscia di Dunkerque, erano invece la Francia e l'Inghilterra ad avere le ore contate. E noi storici ci chiediamo perché i capi militari e politici tedeschi non diedero il colpo di grazia alle truppe nemiche ammassate e disperate distruggendole con bombardamenti a tappeto. La risposta non può che essere una sola: la Germania stava vincendo la guerra e Hitler attendeva con calma la resa dell'Inghilterra; come di lì a poco avrà quelle della Francia e del Belgio. Ma di risposte ce n'è ancora una, la più interessante politicamente: Hitler attendeva l'esito del confronto di
opinioni, nel partito conservatore e nel governo inglesi, tra lord Halifax, ministro degli esteri, Neville Chamberlain (l'uomo di Monaco, il primo ministro che Churchill aveva appena sostituito dopo un altro clamoroso smacco delle truppe britanniche nella Norvegia invasa dai nazisti) e appunto Winston Churchill. Il confronto era tra i primi due, favorevoli alla ricerca di una strategia diplomatica, di un compromesso politico che permettesse un accordo di pace con la Germania e quindi la rapida risoluzione del conflitto, e Churchill, determinato a proseguire la guerra ma costretto, per così dire, a negoziare questa decisione sia in presenza della disfatta militare di Dunkerque, sia di fronte alla forte pressione rinunciataria
degli esponenti conservatori più conservatori degli altri, se non addirittura filotedeschi. La partita si giocò anzitutto nel Gabinetto di Guerra che sedeva quasi in permanenza a Downing Street, e in affannose conversazioni private intorno ad una operazione di tattica diplomatica di cui furono protagonisti Mussolini, e quasi contemporaneamente, Roosevelt. Ma cominciamo da Mussolini. A lui pensarono di rivolgersi Halifax e Chamberlain, stabilendo anche contatti con l'ambasciatore italiano a Londra, per convincerlo, in via riservatissima, a una iniziativa di mediazione tra la Germania e l'Inghilterra per giungere a una pace che non significasse né sconfitta né vittoria per i due paesi in guerra. L'Italia aveva infatti
dichiarato la non belligeranza e quei conservatori non sapevano (e non lo sapeva neanche Churchill) che in quei giorni di maggio Mussolini aveva già deciso in cuor suo di entrare nel conflitto a fianco delle armate tedesche. Dunque la manovra e le lunghe discussioni erano per costringere Churchill a servirsi della mediazione di Mussolini e a concedere qualcosa a Hitler (ad esempio, la sospensione degli armamenti britannici e la cessione di una parte della flotta o di basi navali inglesi) in cambio di un accordo che evitasse una guerra che si annunciava con distruzioni e disastri crescenti. L'offensiva "italiana" cominciò segretamente nel Gabinetto di Guerra coinvolgendo anche l'intero governo (il Gabinetto di Guerra era il nucleo
decisionale formato di pochi membri del governo) fin dal 23 maggio. Da Roma
giunsero segnali di attenzione, ma Churchill resistette all'ipotesi dell'intervento di Mussolini. Halifax era il più deciso e Chamberlain dichiarò esplicitamente che Mussolini "play any part in the game". Qui avanzo l'ipotesi che il misterioso carteggio Mussolini- Churchill, di cui si parla inutilmente da decenni con racconti fantapolitici, non sia altro che il contatto, veicolato dal nostro ambasciatore a Londra Giuseppe Bastianini, con il governo italiano per questa strana mediazione che Mussolini non avrebbe comunque mai intrapreso sia perché sarebbe stata malvista da Hitler, sia perché stava per entrare in guerra anche contro l'Inghilterra. Ora, che Churchill fosse assolutamente contrario all'intervento di Mussolini questo
il Duce, in quei giorni, non poteva saperlo; anzi, provenendo l'offerta dal ministro degli Esteri britannico, questa, ai suoi occhi, non poteva che avere l'avallo del primo ministro, cioè di Churchill. Potrebbe - perché no? - essere questa l'origine della leggenda del misterioso scambio epistolare tra i due. Può anche darsi che tra le carte che Mussolini portava con sé nel 1945 vi fossero proprio i documenti diplomatici dell'invito britannico alla sua mediazione con Hitler. In caso di cattura da parte degli Alleati, sarebbero stati in qualche modo utili a una sua difesa basata sul rispetto che, ancora allo scoppio della guerra, egli godeva in Inghilterra.
A Mussolini Churchill preferì Roosevelt, rompendo anche l'atmosfera di antipatia che tra i due aveva creato l'ambasciatore americano a Londra Joseph Kennedy (padre del futuro presidente), amico segreto della Germania nazista. Churchill chiese a Roosevelt , bloccato dagli isolazionisti americani, di aiutare militarmente l'Inghilterra nella lotta senza quartiere contro Hitler, presentandogli la disfatta di Dunkerque come un segnale di un pericolo reale per la libertà e la democrazia. E Roosevelt non fu insensibile alla richiesta. Ma intanto la battaglia tra i conservatori
inglesi infuriava in un incrociarsi di opinioni che è ora possibile conoscere grazie alle ricerche di uno storico americano, John Lukacs, conosciuto e altamente apprezzato tra gli storici del mondo contemporaneo in particolare per le sue puntuali indagini sulla Seconda guerra mondiale e sull'Europa della guerra fredda. Lukacs ha lavorato negli archivi britannici e in particolare sui documenti del Gabinetto di Guerra oltre che su una vasta pubblicistica di diari e testimonianze di alcuni protagonisti. Ne è venuto fuori un libro, apparso negli Stati Uniti presso la Yale University Press, e ora tradotto in Italia presso le edizioni Corbaccio. È l'avvincente racconto dei Five Days in London. May 1940 (titolo italiano, Cinque giorni a Londra, pagg. 260, lire 29.000). Sono oltre duecento pagine che
ricostruiscono le intense ore di lotta di Churchill per mantenere l'Inghilterra in guerra contro Hitler e il nazismo, negando ogni possibilità di "appeasement" con la Germania. Senza questa tenacia forse la storia del mondo sarebbe stata diversa. In uno dei tanti documenti inediti che si snodano nel racconto di Lukacs, Churchill affronta i suoi colleghi di partito dicendo che la Gran Bretagna non può "ridursi a uno stato di schiavitù, né il suo governo essere una marionetta nelle mani di Hitler, né sottoporsi a Mosley (capo del partito fascista inglese) o a qualche altro
individuo del genere". Questa orgogliosa difesa della libertà fu ribadita nell'ultimo dei cinque giorni infocati, il 28 maggio, quando, giunta la notizia che il re del Belgio si era arreso ai tedeschi, Churchill dichiarò (e fu il colpo decisivo agli avversari e nemici interni): "La nostra unica speranza è la vittoria e l'Inghilterra non abbandonerà mai la guerra finché Hitler è vivo; o noi cesseremo di essere uno Stato". E Lukacs commenta così queste parole: "The italics are mine. Churchill had survived Halifax's Challenge. But his real opponent was not Halifax but Hitler". Un sottile, elegante giudizio storico che suona bene anche nella traduzione italiana: "Churchill era sfuggito alla sfida di Halifax. Ma il suo vero avversario non
era Halifax ma Hitler". Con questa ferma convinzione morale e politica, Churchill poteva così affrontare l'opinione pubblica inglese e mondiale in un grande discorso il 4 giugno; il primo di una serie di "greatest speeches" che hanno animato alla resistenza e hanno dato fiducia a quanti sentivano imminente la vittoria della Germania. A cominciare dal suo giudizio sulla Francia che si era arresa il 22 giugno: "... i francesi sono entrati in una china scivolosa, perderanno la loro flotta e alla fine la loro libertà". E Lukacs contrappunta con ironia le vigorose frasi di Churchill con le pagine del diario inedito dello sconfitto Lord Halifax, dove si parla delle "Winston's garrulouness..." e della impossibilità di reggere "cinque minuti
di conversazione col primo ministro". Certamente, la Storia è più grata all'"iper-garrulo" Churchill che al brillante e annoiato snob Lord Halifax.

 

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