|  | la Repubblica, 17 aprile 2001 
 Clandestina nel III Reich.
 L'odissea di una ebrea nella Germania nazista
 
 di Susanna Nirenstein
 
 La mattina del 26 ottobre 1941 un ufficiale tedesco ritirò le chiavi
    agliStrauss. In base alle leggi sulla degiudeificazione della Germania gli
 Strauss erano stati appena costretti a vendere gran parte delle proprietà.
 Da settembre portavano la stella gialla. Da anni vivevano in un universo di
 umiliazioni, costrizioni, divieti. Erano ricchi però, e i soldi che avevano
 lasciavano margini di vivibilità. L'ufficiale sigillò la porta. Il rigido e
 tedeschissimo, assimilatissimo, imprenditore Sigfried Strauss, già eroe
 della I guerra mondiale, la moglie Ine e i figli Richard e Marianne (ragazzi
 che i genitori nel 1939 non avevano voluto mandare insieme ai compagni di
 classe nell'Inghilterra che li avrebbe ospitati), si incamminarono a piedi
 verso Haumannshof, il punto di raccolta dove li aspettavano gli altri ebrei
 destinati al ghetto di Lodz. La prima deportazione in grande stile da Essen.
 Erano in coda davanti a un tram che li avrebbe portati alla stazione, quando
 due uomini della Gestapo li avvertirono che potevano tornare indietro.
 Niente Lodz per gli Strauss, almeno per ora. Un boato di odio si levò dalla
 folla. Ma perché, chi li aveva strappati, come disse lo stesso Sigfried,
 "alla vanga del becchino"? Non bastava essere borghesi, facoltosi,
 patriottici, osservanti delle leggi: molti ebrei come loro erano già stati
 portati via. E invece gli Strauss per altri due anni, fino all'estate del
 '43, rimasero a Essen. Il fatto sorprendente è che Sigfried e la sua
 famiglia, come altri pochi ebrei tedeschi - circa 200 in tutto -, furono
 protetti perché destinati in teoria a lavorare, appena fossero emigrati,
 come agenti del controspionaggio della Wermacht, l'Abwher. Abwher che
 peraltro cooperò con le SS nell'annientamento di centinaia di migliaia di
 ebrei, ma di cui avrebbero fatto parte gli alti ufficiali che attentarono
 alla vita di Hitler. Spie ebree per il III Reich: un marchingegno perverso
 forse dovuto, o forse no, solo all'intenzione di salvare degli innocenti,
 comunque destinato a essere spezzato dall'intervento della Gestapo sempre
 più sospettosa e ostile al progetto, e più tardi dello stesso Heichmann, che
 nell'agosto 1943 darà il via libera alla deportazione degli Strauss nel
 campo di Theresienstadt, e, infine, ad Auschwitz. Il libro di Mark Roseman -
 professore di storia all'università di Southampton -, Il passato
 nascosto/Fuga di una giovane ebrea nella Germania Nazista (Corbaccio, pagg.
 573, lire 36.000), è più di una biografia di Marianne Strauss - e in certo
 senso della sua famiglia. Questa sorta di detective story finisce per
 scoprire attraverso l' incontro con Marianne e una quantità incredibile di
 interviste successive condotte in Germania, Inghilterra, Argentina, Israele,
 Francia, Svezia, Stati Uniti, non solo la vita e le rimozioni, le
 alterazioni della memoria, i sensi di colpa della protagonista per essere
 sopravvissuta alla Shoah, ma anche una serie di fatti pressoché sconosciuti.
 Torniamo agli Strauss. Sotto choc - per la "perdita" dell'amata patria, di
 ogni convinzione, del proprio status, di tutto - passati altri due anni di
 fitte ed estenuanti corrispondenze con le istituzioni in cerca dei visti
 necessari ad emigrare in Inghilterra, negli Usa, a Cuba, in Svezia
 (tentativi lenti e infiniti che rispecchiano l'incrollabile e
 incomprensibile fiducia di Sigfried nella burocrazia tedesca), mentre il III
 Reich si svuota sempre più degli ebrei deportati ad Est, ecco che anche gli
 Strauss, per ordine di Eichmann, come dicevamo, perdono definitivamente ogni
 privilegio. Il 31 agosto 1943 due ufficiali vengono a prelevarli. Tutto
 succede in un attimo: Sigfried infila dei soldi nella tasca di Marianne;
 lei, diciannovenne, chiede di andare in cucina a prendere del pane e invece
 esce di casa: "Correvo a perdifiato, aspettandomi da un momento all'altro di
 sentire alle mie spalle un colpo di pistola. Andarsene in quel modo mi
 sembrava un destino molto migliore di quello inimmaginabile che poteva
 attendermi ad Auschwitz o a Lodz, a Treblinka o a Izbica. Invece nessuno
 sparò, nessuno mi inseguì, nessuno gridò ordini...". Ma una volta lontano da
 casa? Già questa che abbiamo appena raccontato è una storia speciale: dei
 250.000 ebrei che si trovavano ancora in Germania nel 1939, solo meno di
 3000 riuscirono a sopravvivere nascondendosi, e metà di loro vivevano nella
 grande Berlino. Ma Roseman va oltre, e ci fa una vera rivelazione: Marianne
 per due anni sopravvive grazie all'aiuto di una organizzazione
 semi-clandestina socialisteggiante di Essen, un gruppo considerato dedito
 soprattutto alla danza, alla ginnastica, alla natura e alla consapevolezza
 del proprio corpo (e per questo sottoposto solo a frequenti interrogatori,
 ma non a una repressione violenta), chiamato Bund e capeggiato dal sensibile
 Artur Jacob e sua moglie. Non il Bund (che vuol dire Lega, o gruppo) degli
 ebrei socialisti polacchi, si guardi bene. Un altro Bund (che non sappiamo
 perché la traduzione in italiano consideri un vocabolo femminile, il Bund è
 sempre stato il Bund). Una rete di alcune decine di persone altamente
 morali, che ospitano Marianne (e circa altri 7 ebrei di Essen) nelle proprie
 case nella regione, spartiscono con lei il cibo concesso dalle tessere,
 raccontano ai vicini delle balle che mettono a rischio la propria vita.
 Donne soprattutto, quasi sempre appartenenti alla classe operaia. Un gruppo
 per il quale, dopo la stessa Marianne, anche Roseman, oggi, cerca di
 ottenere il riconoscimento di "giusti", assegnato dallo Yadvashem di
 Gerusalemme ai gentili che hanno aiutato gli ebrei durante il nazismo.
 Stupefacente, come lo sono i coraggiosi, è la stessa Marianne, che non vive
 "sepolta" in una cantina per due anni, ma, tinti i capelli di rosso,
 prendendo in mano anche la propria bellezza, si sposta continuamente per la
 Germania senza documenti, nascondendosi nelle toilette dei treni, facendo la
 seduttiva e la chiaccherona quando viene fermata, rispondendo "sono agli
 ordini diretti del Führer" a chi l'interroga, tornando a Essen ogni tanto
 per pigliare dai bauli lasciati dalla famiglia un po' di oggetti (tovaglie,
 lenzuola...) da vendere in campagna, fabbricando fiori di panno per alcuni
 negozianti che non le fanno troppe domande, andando nei ristoranti,
 affrontando addirittura tre ore di marcia allo scoperto per andare al cinema
 (al cinema!) nei giorni in cui si sente mancare l'aria. Non solo,
 stranissime sono anche le pagine di un suo diario in cui, più che un'ebrea
 perseguitata, Marianne sembra sentirsi una donna di fronte a una serie di
 problemi esistenziali, etici, alla gioia della natura, ai rapporti. Come se
 il suo fingersi un'ariana, in qualche modo influenzasse direttamente la sua
 stessa identità. Bisogno, urgenza di vita. Marianne riesce anche a non
 pensare, o a non pensarci troppo, né alla famiglia (di cui invece da un
 certo punto in poi conosce la fine nelle camere a gas), né all'amatissimo
 fidanzato Ernst, deportato nel ghetto di Izbica. E questo è un altro
 capitolo importante nel libro, innanzitutto per la commovente corrispondenza
 che i due riescono a tenere per tre quattro mesi, e poi perché, persino
 negli archivi dello Yadvashem, non si trovano molte informazioni su Izbica,
 mentre Roseman ha trovato in una cassa di Marianne una specie di rapporto
 lungo diciassette pagine scritto da Ernst a Marianne e non passato
 attraverso la censura: un prezioso documento che descrive, non a posteriori,
 la vita quotidiana, le differenze tra i gruppi etnici, la pena di morte per
 le sciocchezze, gli alloggi, le malattie, gli arrivi e le "evacuazioni" che
 tutti sanno nebulosamente dove vanno a parare, le letture (sì, qualche
 lettura e qualche incontro sorridente con le ragazze ci sono!), la fame...
 Ma quel che forse è ancora più interessante è quel che Ernst mangia, ovvero
 ciò che Marianne riesce a mandargli: infiniti pacchi che la posta continua a
 consegnargli, e, soprattutto il grande arrivo di cibo e vestiti guidato da
 Christian Arras. Chi è Christian? Uno che Marianne, dopo 50 anni, descrive a
 Roseman come una SS con molta voglia di avventura, uno spericolato che
 probabilmente ha fatto quel che ha fatto, ovvero aiutarla entrando più volte
 a Izbica carico di ogni ben di dio e riportandone le missive di Ernst, per
 amor di rischio e per interesse. Ma non è così: Roseman, quasi fosse un
 compito che gli ha affidato il destino, scopre che Arras apparteneva alla
 Wermacht e non alle SS e ripercorre attraverso le testimonianze le molte e
 ripetute "buone azioni" di Christian - che tra l'altro chiamerà sua figlia
 col nome di Marianne - e stabilisce, a futura memoria, che quell'uomo è un
 eroe. Ecco, questa Germania nazista di Roseman è più caotica,
 contraddittoria, di come siamo abituati a immaginarcela, fatta anche di
 microcosmi abitati da complessi rapporti tra alcuni ebrei - sempre i più
 privilegiati comunque - e non ebrei. E' una Germania dove Marianne va in una
 scuola (per ebrei, certo!) da cui riceve un "Diploma di Stato" ancora nel
 febbraio 1942 - un mese dopo l'incontro di Wansee che decise la "soluzione
 finale"; dove Sigfried, tutto d'un pezzo, a forza di carte e controcarte
 continua a contrattare con le istituzioni fino al giorno prima della
 deportazione; dove il III Reich, mentre le camere a gas funzionano a pieno
 regime, pensa ancora - per poco - di usare anche cittadini ebrei come spie
 all'estero; dove Marianne clandestina, seppure con una pasticca di cianuro
 in tasca per "controllare in qualche modo il mio destino", scrive intere
 pagine di diario dedicate alla Weltanschauung più che alla paura; dove
 lavora questo Bund sconosciuto fatto di una manciata di gente per bene; dove
 Christian Arras si aggira per la Ruhr nazista con i suoi pacchi e cerca di
 avvertire gli ebrei rimasti che scappino al più presto perché li aspetta
 solo la morte. Questa intricata Germania dipinta da Roseman, dicevamo,
 lascia col desiderio di saperne ancora di più.
 
 
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