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la Repubblica, 12 aprile 2001
Non è morta la prima Repubblica di Lucio
Caracciolo
Anticipiamo un brano dal libro di Lucio Caracciolo Terra incognita (Laterza,
pagg 115, lire 15.000) che esce nei prossimi giorni.
In quale Repubblica siamo? La Prima Repubblica, di cui tante volte abbiamo
celebrato le esequie, pesa tuttora su di noi. Come una sorgente radioattiva
in via di lento esaurimento, continua a irradiare l'ambiente in cui viviamo.
La sua fine non è finita. Forse un giorno potrà essere archiviata da una
Seconda Repubblica ancora da inventare. La quale, come tutti i nuovi regimi,
provvederà a costruire un nuovo passato e vi collocherà anche la Prima
Repubblica. Fino a quel momento saremo immersi in un'età incerta. Non però
una fase di transizione, come spesso si legge. L'idea di transizione suppone
il compimento di un percorso. Da un ordine all'altro. È una visione in sé
postera, di chi ha raggiunto l'altra sponda e ripercorre il guado con
l'occhio della mente.
Noi non abbiamo ancora guadagnato questo punto di vista. Non sappiamo se
alla Prima Repubblica succederà una Seconda. La storia è aperta e ha molta
più fantasia di noi.
La «transizione» potrebbe essere infinita o finire con la scomparsa dello
Stato Italia, frantumato in più staterelli o sussunto in uno Stato europeo.
Potrebbe concludersi in un regime non più democratico o al contrario in una
democrazia più efficiente. Già oggi, il regime interno e la costellazione
internazionale con cui esso interagisce hanno subìto mutamenti tali da
rendere l'attuale Repubblica quasi irriconoscibile rispetto a quella sorta
dal referendum del 1946. Né si può escludere una combinazione dei due
mutamenti di specie, che tocchino sia la costellazione geopolitica sia
quella politica, in forme e modi assai vari. Fantapolitica, forse. Ma è
utile tenere ferma l'indeterminazione del futuro, negata nel termine «Prima
Repubblica», che ne implica un'inesistente Seconda.
Logicamente e cronologicamente incongrua, la definizione «Prima Repubblica»
è criticabile anche sotto il profilo euristico. In parole povere, non ci
aiuta a capire di che cosa stiamo parlando. Il termine è neutro. Enuncia una
collocazione in un'ipotetica sequenza di Repubbliche italiane e null'altro.
Se tuttavia qui lo utilizziamo, è solo in omaggio alla consuetudine, con
tutti i caveat accennati e che accenneremo, e in senso puramente
descrittivo. Non intendiamo stabilire se tale regime fosse buono o cattivo,
un'età dell'oro o una cleptocrazia, il migliore dei regimi possibili nelle
condizioni date o un'oligarchia putrescente - a prendere le
definizionilimite nella pubblicistica corrente. In queste pagine la Prima
Repubblica ha un significato in quanto esprime due caratteri peculiari.
Sotto il profilo geopolitico e della sua collocazione nel sistema
internazionale, essa è un semiprotettorato; sotto l'aspetto
politicoistituzionale, è una democrazia consociativa.
Per quanto attiene alla cronologia, tale regime si prolunga per quasi mezzo
secolo, dal 1946 al 1992, anno in cui entrambi i citati caratteri perdono
irrevocabilmente di pregnanza, tanto da generare nella percezione pubblica
un clima da passaggio d'epoca. Non una censura netta, che può darsi solo
negli alambicchi degli scienziati della storia.
Epperò il sentimento, confortato da una corposa fenomenologia, che il doppio
paradigma - semiprotettorato e democrazia consociativa - sia decaduto (il
primo più del secondo).
Scegliamo il 1992 come spartiacque per le ragioni che approfondiremo e che
qui accenniamo per titoli. Nel mondo, è il primo anno senza Urss. In Italia,
è l'annus mirabilis - o horribilis - di Maastricht (trattato sull'Unione
Europea, 7 febbraio), di Mani Pulite (che espande a macchia d'olio dopo
l'arresto del tangentiere socialista Mario Chiesa a Milano, 17 febbraio),
dell'assassinio mafioso dei magistrati Giovanni Falcone (23 maggio) e Paolo
Borsellino (19 luglio), dalla contemporanea liquidazione politicogiudiziaria
dei tre capi del «Caf», Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani,
tra i quali, fino al maggio di quell'anno, restava solo da stabilire chi
dovesse salire al Quirinale, chi occupare Palazzo Chigi e chi accomodarsi in
sala d'attesa.
Questo vortice di emergenze - Tangentopoli, mafia e, sullo sfondo,
Maastricht - porterà due esponenti della Prima Repubblica a gestirne il
trapasso. Il candidato democristiano ufficiale alla presidenza della
Repubblica, Forlani, e quello in pectore, Andreotti, sono bruciati. Il 25
maggio, con i voti del quadripartito (Dc, Psi, Psdi, Pli) e di Pds, Verdi,
Rete e Lista Pannella, viene eletto alla suprema magistratura un notabile
democristiano di seconda fila, noto per la probità personale e l'estraneità
alle correnti: Oscar Luigi Scalfaro. Il 28 giugno il socialista Giuliano
Amato insedia un governo formalmente di centrosinistra (Dc, Psi, Psdi, Pli),
che in condizioni normali sarebbe stato presieduto dal leader del Psi,
Craxi, ormai nel mirino della Procura della Repubblica di Milano.
Parlamento e sistema dei partiti sono sotto lo scacco di Tangentopoli,
paralizzati dalle inchieste giudiziarie e dalle parallele campagne di
stampa. Il governo Amato è già oltre il vecchio regime perché la crisi di
legittimazione e di leadership dei partiti di maggioranza lo sottrae al loro
controllo. Esso fruisce dei privilegi e soffre dei vincoli dello stato di
eccezione. Agli amanti delle partizioni nette offriamo perciò volentieri
quel 28 giugno 1992 come data di morte presunta della Prima Repubblica.
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