la Repubblica, 9 aprile 2001

IL MULINO. Compie cinquant'anni la rivista-laboratorio dell'Italia che cambia


di Nello Ajello

In questo mese la rivista Il Mulino compie cinquant'anni. La sua è una delle
storie esemplari della nostra editoria. Il titolo che si volle dare a quel
periodico bolognese, nell'aprile del 1951, è diventato infatti la «ragione
sociale» di una delle più importanti aziende di cultura che operino in
Italia.
La vicenda ha un esordio obbligatorio: in principio era il Galvani. In
questo liceo bolognese si erano incontrati, durante la guerra, Nicola
Matteucci, Luigi Pedrazzi, Pier Luigi Contessi, Antonio Santucci, Federico
Mancini, Gianluigi Degli Esposti. Erano nati fra il 1926 e il 1927. Troppo
giovani per andare alle armi, sfuggirono anche all'alternativa fra
proclamarsi fedeli al fascismo o vestirsi da partigiani. Gli toccò la
fortuna di potersi considerare «postfascisti».
Il termine, allora, odorava di futuro. E al postfascismo Matteucci dedicò un
articolo, venato di riflessioni autobiografiche, in uno dei primi numeri
della rivista chiamata Il Mulino. Era il «mensile di attualità e cultura che
i «galvanisti», usciti dall'università e versati in varie discipline
filosofia, letteratura, economia fondarono nel novembre del '51,
trasformando in «quaderno» quell'esile giornale «d'informazione
universitaria» di cui avevano fatto uscire, con lo stesso titolo, cinque
numeri fra la primavera e l'estate. Ora le pagine erano sessantaquattro. Il
prezzo, cento lire. Pur appassionato di politica, il gruppo non era legato
ad alcun partito. Proprio questo era il requisito che un altro dei padri
fondatori della rivista, Fabio Luca Cavazza, esibì di fronte all'avvocato
Barbieri, presidente degli industriali bolognesi e dell'editoriale «Resto
del Carlino», ottenendo che finanziasse l'impresa.
All'epoca, Bologna era dominata dal Pci. Aveva un sindaco celebre, Giuseppe
Dozza. Il Mulino era dunque una palestra culturale non comunista «in
partibus infidelium». Ma i suoi redattori diffidavano anche della Democrazia
cristiana al culmine del potere. Dove si collocava dunque, politicamente, Il
Mulino? «Era un incontro», rispondono i fondatori, «fra cattolici non
integralisti, socialisti non rivoluzionari e liberali non laicisti».
Appena nata, la compagnia s'infoltisce. Tra i fondatori figurano di diritto
intellettuali come Ezio Raimondi, Mario Saccenti, Carlo Poni, Gianni Scalia.
La rivista guarda anche fuori di Bologna. Suoi punti di riferimento
essenziali sono Giorgio Galli a Milano e Gino Giugni a Genova. Matteucci,
Pedrazzi e Santucci, frequentando da borsisti l'Istituto Croce, hanno
conosciuto a Napoli Francesco Compagna, Vittorio De Caprariis, Renato
Giordano, Gilmo Arnaldi cioè il futuro nucleo di Nord e sud oltre a Gennaro
Sasso e Roberto Abbondanza. L'asse BolognaNapoli si rivela vitale.
Assolutamente bolognese è l'umore del gruppo, il suo attivismo mimetizzato
in una bonarietà cordiale. Si racconta che nell'estate del 1953, quando la
rivista si vide assegnare il premio Viareggio per i periodici di cultura, un
giornalista domandò a Cavazza giovane di estroso talento e di grande
simpatia umana quali fossero i metodi di lavoro di quella équipe così
prestigiosa. «Più che altro facciamo delle cene...», fu la risposta (e posso
testimoniare che qualunque amico arrivasse da Napoli veniva subito convocato
intorno a un tavolo del «Pappagallo» o di «Amerigo»).
Ma ormai Il Mulino rompeva i suoi stessi argini. Tardò di appena tre anni la
creazione, intorno alla rivista, di una casa editrice.
«Avvenne per caso», così Pedrazzi racconta la nascita delle edizioni del
Mulino. Era intervenuta in realtà una circostanza fortunata: lo stabilimento
del Resto del Carlino soffriva di tempi morti tipografici, e i giovani del
Mulino se ne avvalsero per stampare alcuni «quaderni», fra i quali un saggio
di geografia elettorale firmato da Compagna e De Caprariis. Cavazza, il
manager del gruppo, aveva intanto fatto un lungo viaggio negli Stati Uniti,
entrando in contatto con intellettuali di area postrooseveltiana. Era appena
passata una legge per finanziare iniziative di cultura americana all'estero.
Cominciarono a uscire così, per la nuova casa editrice, classici della
democrazia moderna, testi di storiografia e sociologia d'Oltre Oceano. Per
il resto, la continuità con la rivista era rigorosa: storia, filosofia,
politica, sociologia, letteratura.
Centocinquanta titoli, fra italiani e stranieri, dal 1954 al 1964: non è
disprezzabile il bilancio del primo decennio. Ma proprio nel ‘64 le edizioni
del Mulino sfiorano la crisi. Spaventati dalle simpatie della casa editrice
per il centrosinistra, i finanziatori si ritirano dall'impresa. E' un
frangente grave. Con alla testa Pedrazzi, che proprio in quei mesi ha
ricevuto un'eredità, gli intellettuali del Mulino si quotano. Il gruppo
bolognese del quale fanno ora parte una grande figura della democrazia
italiana, Altiero Spinelli, e un giovane manager, Giovanni Evangelisti, che
sarà poi l'anima dell'azienda diventa padrone in casa sua.
La continuità della casa editrice viene subito assicurata da un meccanismo
ingegnoso. Al suo vertice c'è l'Associazione del Mulino che, presieduta da
Ezio Raimondi, detiene il pacchetto di controllo dell'Azienda e, fra
l'altro, nomina ogni tre anni (rinnovabili) il direttore della rivista.
Nella Società Editrice, il consiglio di amministrazione è affiancato da un
consiglio editoriale che esprime pareri sui testi da pubblicare. C'è poi
l'Istituto Carlo Cattaneo, un autorevole centro di ricerca. Dopo la morte
prematura del primo direttore Pier Luigi Contessi, Il Mulinorivista ha visto
al suo vertice Matteucci, Pedrazzi, Galli, Pietro Scoppola, Arturo Parisi,
Gianfranco Pasquino, Giovanni Evangelisti. Ora la dirige Alessandro Cavalli,
docente di sociologia a Pavia. Sono vicini al gruppo Beniamino Andreatta e
Romano Prodi, che è stato anche presidente del Consiglio di amministrazione.
Nella galassia culturale del Mulino rientrano studiosi del calibro di
Giuliano Amato, Stefano Rodotà, Enzo Cheli.
Nei cataloghi del Mulino, che dagli esordi ha pubblicato intorno ai
quattromila libri, spicca una frase ricorrente: «L'interpretazione del
cambiamento». Che cosa significa? «Che ci sforziamo di contribuire nella
maniera più empirica alla comprensione dei fenomeni sociali» risponde
Evangelisti. Ed esemplifica: «Pochi libri sulla teoria del valore e molte
ricerche sui fenomeni rilevabili ogni giorno». Ventisei miliardi di
fatturato e centocinquanta nuovi titoli l'anno. Ci sono opere uscite in
anticipo sulle mode: un Marcuse, pubblicato nel '66. Altre, hanno fatto
epoca: dal Bipartitismo imperfetto di Giorgio Galli alla Giungla retributiva
di Ermanno Gorrieri. Fra i maggiori successi di vendita figura, oltre alla
Storia economica dell'Europa preindustriale di Carlo Maria Cipolla, un
libretto deliziosamente ilare dello stesso Cipolla, Allegro ma non troppo.
Per quale pubblico lavora Il Mulino? I pubblici, in verità, sono tre. Ci
sono i testi destinati ai ricercatori: una quarantina di titoli l'anno.
Quasi altrettanti sono i titoli per gli studenti. Il resto sessanta,
settanta titoli è costituito da opere per un pubblico più ampio.
Sono trentotto le riviste stampate dal Mulino. Si va dalla storia al
giornalismo, dalla filosofia alla linguistica, dalla politica al marketing.
Fra le testate più antiche, Lingua e stile. L'ultima rivista in ordine di
apparizione è Mercato concorrenza regole. La dirige con grinta e assiduità
Giuliano Amato.
I tempi del Mulino, smilzo «mensile di attualità e cultura» sembrano (e
sono) lontani. Ma quando si chiede a Evangelisti se il pluralismo persista
nella mentalità di chi lavora per l'azienda, eccolo rispondere: «Per stare
insieme non c'è bisogno di essere d'accordo». E cita le accese discussioni
che talvolta divampano all'interno dell'Associazione del Mulino fra
Gianfranco Pasquino, e Angelo Panebianco, fra Beniamino Andreatta ed Ernesto
Galli Della Loggia; direttore, quest'ultimo, di quella collana «L'Identità
italiana» che prende il titolo da un'opera dello stesso Galli Della Loggia.
Il quale, autore con Laterza del volume La morte della patria
 

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