La Repubblica, 5 luglio 2001

Ettore Gallo una vita difficile

di Adriano Sofri

Ho sentito dalla radio che Ettore Gallo era morto. Specialmente tristi sono le notizie tristi ricevute in galera. Per intervalli che si sono fatti sempre più radi, tengo un diario. Tre anni fa lo tenevo. Era giugno anche allora, il 12 giugno del 1998, ero in galera a Pisa da un anno e mezzo.
Ettore Gallo venne da Roma, rimanemmo a chiacchierare per un paio d'ore. Era
stato prigioniero delle SS e dei fascisti, da giovane. Parlammo della prigione, e della mia vicenda di processi. Faticai un po' a dirottare la conversazione fuori dal caso Sofri, che commuoveva lui e avviliva me, finché capitammo a parlare delle nostre infanzie. Gli raccontai di mia madre, che era triestina e combattuta fra una nostalgia asburgica e l'impegno a educarci secondo un patriottismo civico, ricordai la solennità con cui accoglievamo il Piave nei primi viaggi in treno, e il Piccolo alpino che leggevo da bambino. Fu lo spunto per un suo vivace racconto. Tornato in cella lo trascrissi, e lo ricopio, confidando che restituisca a chi non lo conobbe, e anche a chi lo conobbe, qualche tratto della sua biografia e del suo tono.
«Io mia madre l'ho perduta quando avevo 18 mesi, a Napoli, di tifo. Poco dopo, nel 1916, mio padre, che era avvocato a Napoli, venne richiamato come capitano di artiglieria. Andò a comandare una batteria sul Pasubio, erano valorosi. Gli austriaci, che preparavano allora la Strafexpedition del 15 maggio e non riuscivano a espugnarli, scavarono un tunnel dalle loro trincee fino alla batteria, e la fecero saltare. Pressoché ogni anno io sono andato a visitare l'Ossario del Pasubio, e a volte ho invitato personalità a partecipare alla commemorazione. Quello che ha fatto il miglior discorso, senza retorica, critico e appassionato, è stato Mino Martinazzoli. Era ministro, gli chiesi di venire, si schermì, gli dissi: "Lì è sepolto mio
padre". "Allora vengo". Una volta, durante il pranzo, due alpini portano, praticamente a braccia, un vegliardo di più di novant'anni, che si siede e comincia a raccontare, lucido. (Giolitti diceva che la vecchiaia prende o alle gambe, o alla testa: e additava Vittorio Emanuele Orlando: "Vedi come va avanti bello diritto"). Insomma il vecchio era stato telefonista sul Pasubio, trasmetteva gli ordini. Alla fine gli chiedo se avesse sentito del capitano Gallo. Altro che, risponde, gli telefonai anche l'ultimo giorno, e poi andai sul posto, uno spettacolo terribile, brandelli di corpi dilaniati e sparpagliati. "Dunque gli dico lei è stata l'ultima persona ad ascoltare la voce di mio padre". Fu scosso dalla commozione: "Il figlio del capitano Gallo!".
«Così, a nemmeno tre anni, ero orfano di madre e di padre. Della figura di lui ho solo un flash, forse di un passaggio in licenza, quest'uomo con la divisa, che era rimasto solo con quattro figli. Il più grande, adolescente, sarebbe morto di spagnola. Il secondo fa l'Accademia a Livorno, va a Pola, si sposa lì, stava bene ­ un giorno ci arriva una cartolina, dice: "Non posso restare qui mentre i miei amici sono impegnati nella base di Bordeaux, li raggiungo". A quei tempi si poteva pensare così. Nel ‘36 aveva fatto un'importante esperienza di circumnavigazione in sommergibile. Così si imbarca, sono due sommergibili che devono doppiare il Capo di Buona Speranza e raggiungere l'Oceano Indiano. Sono spariti. Non se ne è mai saputo niente, di nessuno dei due. Si pensò che fossero incappati in un campo di mine al largo del Capo. Gli inglesi hanno sempre detto di non averli incrociati.
«Da piccoli, orfani, eravamo stati smistati ciascuno in una famiglia di parenti. Separati: d'altra parte era inevitabile. Avevo uno zio, tornò dalla Macedonia, non sapeva nemmeno che suo fratello fosse morto. Mi prese con sé, a Villafranca di Verona. Così diventai veneto, a tre anni. Non credevo che esistessero altre lingue fuori di quel napoletano che parlavo, e quei bambini di Villafranca mi chiesero: "Ti te se todesco?". Tanto tempo dopo, quell'elegante scrittore che fu Cesare Marchi mi festeggiò in una dedica come "il nostro todesco". L'altro mio fratello superstite aveva fatto il concorso al Ministero degli Interni, nel dopoguerra era vicequestore a Modena, e decise di non averne più voglia. Troppa tensione, questi sparano
sugli operai. Venne da me. Io ero stato alla Nunziatella, poi mi ero laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, ed ero diventato magistrato».
Poi Ettore Gallo fu ufficiale, entrò nella Resistenza e aderì al Partito d'Azione, fu a capo di una divisione partigiana, venne arrestato dalle SS, e rilasciato solo alla liberazione di Padova: di questo quel giorno non parlammo.
«Finita la guerra, volevo continuare gli studi universitari. Lasciai la magistratura e aprii uno studio di avvocato a Vicenza: e presi con me mio fratello. Ebbe due figli. Uno insegna storia della musica a Firenze, ma si era laureato anche in giurisprudenza: ha ingegno e preparazione. Sua figlia, mia nipote, sposò un assistente universitario, ebbero un bambino, lui una mattina si alzò e restò ucciso da un malore, di colpo. Il giorno dopo arrivò la comunicazione che aveva vinto il concorso a cattedra. Sì, tante storie di morti nella nostra famiglia»
Lo dice, ho scritto negli appunti, come se ci pensasse per la prima volta. Parlammo di Vicenza.
«Io ho avuto e amato un suocero vicentino, grecista autorevole all'università pisana, che era nato povero in un paese, Chiampo, schiacciato dalla povertà e dalla pellagra: e ora Chiampo figurava al primo posto nel miracolo industriale del NordEst. A Vicenza mio suocero aveva avuto per allievo Rumor. Anch'io conobbi Rumor da giovane. Alla fine fu spinto a responsabilità che eccedevano un po' i suoi mezzi. In quei primi tempi repubblicani nei comizi elettorali era ammesso il contraddittorio, avevo un gruppo di amici, ex azionisti, li inseguivamo per metterli in difficoltà. Rumor mi vedeva da lontano e diventava muto. Quando fui nominato accademico della sua Accademia Olimpica, gli dissi: "Sei diventato facondo". Sono persuaso che fosse personalmente onesto, non gli vidi cambiar vita».
È incredibile pensare a quella Vicenza mutata oggi in roccaforte leghista. Di molte altre cose chiacchierammo. Del delicato lavoro della commissione sull'operato di militari italiani in Somalia, che aveva appena presieduto. Di persone pubbliche e delle persone di famiglia. Di sua figlia Donata, della signora Ebe, che è una donna di gran cuore e una pittrice dilettante ed elegante: Gallo si lamentava un po' dell'insofferenza di sua moglie per gli aiuti domestici. «C'è una sola donna che viene solo la mattina, e anche quella la segue e ne ripassa l'opera». La bella casa alla Salita del Grillo, disse, «è diventata troppo grande per noi».
Quando le conversazioni del carcere finiscono, anche quelle che sono state più affabili e quasi allegre, c'è un momento difficile: perché si va insieme a un doppio cancello, ci si saluta, e uno va da una parte e uno dall'altra.
Quando ci abbracciammo, Ettore Gallo era molto commosso. Era un uomo di 85
anni, un maestro del diritto, che era stato presidente della Corte Costituzionale, e ora, salutando un amico in galera, doveva ricordarsi di essere stato un prigioniero. L'anno dopo, quando un falso movimento mi portò precariamente fuori per un supplemento di processo, non lo incontrai, perché proprio allora dovette sottoporsi a un'operazione impegnativa, nel suo Veneto. Lo sentii tante volte al telefono. Seguiva con una passione e uno scrupolo intatto i miei casi. La parola grazia, con me, non la pronunciò, se non una volta, per dirmi: «Tanto non mi ascoltano: si vede che devo restare disgraziato». La uso io la parola, appena ritoccata, la parola più dovuta e più bella da pronunciare: grazie.

 

 

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