|  | la Repubblica, 1 maggio 2001 
 Quel che resta del socialismo. Un libro di Vittorio Emiliani su un
    partito e la sua fine
 
 di Nello Ajello
 Quarant'anni vissuti da socialista: ecco la trama d'un
    racconto dal vero, a suo modo avventuroso, pieno di nostalgia e di amarezza. Con il titolo
    Benedetti, maledetti socialisti, questo racconto autobiografico è appena uscito da
    Baldini & Castoldi (pagg. 400, lire 28.000) e porta la firma di Vittorio Emiliani,
    direttore del Messaggero fra il 1979 e il 1987, deputato dal '94 al 96, e ora membro del
    Consiglio d'amministrazione della Rai. Classe 1935 e nativo di Predappio, patria di Mussolini, poi emigrato nel Ferrarese e
    stabilitosi infine a Voghera (e, come sede universitaria, a Pavia), Emiliani esordisce
    politicamente negli anni Cinquanta, in province venate d'un riformismo all'antica. Una
    diffusa, e spesso proba, vocazione al lavoro nei municipi e nelle cooperative fa sì che
    scavalchi i decenni uno slogan ingenuo: «Se passa un socialista, passa un uomo onesto».
 L'iniziazione socialista, nel caso di Emiliani, venne tuttavia dopo una breve vicinanza ai
    radicali, appena germogliati in quanto partito su quel terreno della sinistra liberale il
    cui simbolo aggregante era Il Mondo. L'arrivo di numerosi reduci dal dissolto partito
    d'Azione aveva d'altronde trasferito nello stesso Psi una sensibilità inedita verso i
    temi di un'aggiornata «programmazione». Questa mentalità sospesa a mezz'aria (per
    adottare un traslato sintetico) fra Molinella e Harvard avrebbe poi distinto a lungo il
    partito di via del Corso. E comunque mentre il Pci guardava all'Est e il centrismo
    postdegasperiano appariva in agonia per un intellettuale che si presumesse moderno la
    scelta socialista si presentava
 abbastanza naturale.
 Così fu per l'Emiliani che qui si racconta; e in questo senso la sua vicenda assume, a
    tratti, un sapore generazionale. Il Psi è stato un partito centrale nella nostra
    democrazia, e insieme una formazione di frontiera tra le due chiese dominanti. C'è chi vi
    ha visto l'embrione di una sognata, ampia «terza forza». Le difficoltà che l'autore
    concentrando la sua ottica narrativa in quel «crocevia padano» che è il Pavese coglieva
    allora nel partito di Nenni alludono a un disagio assai diffuso. Molto condivisa era, per
    cominciare, la denuncia dei pochi «sussulti di autonomia» del Psi rispetto al maggior
    partito della sinistra, proprio mentre i comunisti si
 appropriavano benché, spesso, a parole dell'eredità del riformismo.
 Sembrava anacronistico il gusto di «spaziare», come fece troppo a lungo Pietro Nenni,
    «per i cieli della politica estera polemizzando a fondo con il Patto Atlantico» e
    respingendo le scelte del socialismo europeo. Suscitava perplessità l'acquiescenza dei
    socialisti rispetto ad ogni decisione della Cgil. Tutte deficienze che ostacolavano una
    vera «unità dialettica, competitiva a sinistra». Anche se, sostiene l'autore, questa
    competizione «la sentivamo come una necessità (e come tale la sentiremo a lungo, forse
    sempre)».
 L'attesa di un'unità democratica a sinistra che avesse come fulcro il socialismo su
    modello «mitterrandiano», si sarebbe detto si prolungava nel tempo. E comunque, anche
    così com'era, il partito di Nenni e De Martino presentava indubbi lati positivi. Il primo
    era che, lungi dal demonizzarle, ammetteva e praticava le correnti. Ma poi c'era il grosso
    di ciò che Emiliani chiama la «diversità socialista»: «il gusto della libertà, anzi
    delle libertà, anche a costo di vibranti indiscipline, un forte senso di tolleranza, un
    forte spirito laico e quindi critico, problematico, la
 volontà di dialogare e di capire».
 Per tanti socialisti morsi dalla euforizzante tarantola del riformismo con un accento
    speciale, è il caso di Emiliani, sulle questioni urbanistiche e territoriali la lunga
    stagione del centrosinistra, da Fanfani a Moro e oltre, segnò il passaggio del Psi da una
    subalternità all'altra (con rare schiarite a interrompere la transizione). Ed eccoli
    dunque, i riformisti, a mordere il freno. A fare di Riccardo Lombardi il loro idolo. A
    confidare in Antonio Giolitti e nella sua équipe di testardi programmatori. Fra tanti
    ostacoli, con la delusione sempre in agguato. Come una Caporetto era il
 riferimento storico preferito da Ugo La Malfa che erogasse a rate i suoi effetti
    catastrofici.
 La puntata successiva di questa fictionverità è intestata a Bettino Craxi: una speranza.
    Essa non contagiò soltanto i militanti come Vittorio Emiliani, munito di regolare tessera
    dal '58 al '78. Suggestionò anche quelle falangi di ex terzaforzisti che anelavano
    all'«alternanza». Il nuovo leader non era più il ragazzo «magro e capelluto» che
    l'autore aveva conosciuto a certi congressi dell'Ugi. Era lo si vide fin da quelle assise
    del Midas che, nel '76, lo incoronarono segretario un «acuminato cultore» del cinismo
    politico.
 E tuttavia piacque. Le «voci» relative al Craxi promettente agli occhi di un certo
    milieu di socialisti e di simpatizzanti in attesa del meglio vanno citate a titolo di
    promemoria: la «grinta» esibita verso i due partiti egemoni, gli accenni a una Grande
    Riforma, la battaglia sul voto segreto, il successo sulla scala mobile, per alcuni perfino
    il comportamento «garantista» tenuto durante il caso Moro. Ex socialista, Emiliani non
    lesina gli entusiasmi retrospettivi (ed è un suo merito), come non edulcora le passate
    polemiche a sinistra.
 La fase ascendente della parabola craxiana non fu, dopo tutto, neppure tanto
 breve da farla considerare una meteora. Ma poi? Il distinguere fra un Craxi
 «buono» e un Craxi «cattivo» ha la rocciosa perentorietà di quei luoghi comuni che è
    difficile smentire. Su questo discrimine anche Emiliani misura la portata della sua
    delusione. Gli addebiti che muove al capo socialista diventano presto martellanti. Lui e
    la sua «corte». Lui e il suo modo di imitare, nel peggio, la Dc. Lo «stile di vita»
    che praticano i nuovi dirigenti, fatto di «presenzialismo mondano» e di «consumi
    pacchianamente "affluenti"». La neutralizzazione di voci invidiate della
    cultura: vedi la rivista Mondoperaio diretta da Federico Coen. Il tramonto d'ogni
    dibattito all'interno del partito.
 Infine, il crollo. L'autore ha troppo criticato coloro che demonizzavano Craxi per
    mettersi ad imitarli. Ma non per questo la sua requisitoria perde in incisività. Anzi.
    Che in essa affiorino casi personali (al Messaggero Emiliani, direttore socialista, non si
    sentì sorretto dal suo partito) è umano. L'impressione finale è che egli abbia saputo
    filtrare attraverso di sé un capitolo della storia di tutti. Un capitolo controverso,
    certo. Ma chi se la sentirebbe di ripensare, senza soffrirne, alla morte del Psi e al
    tramonto di una speranza allora viva, l'unità a sinistra?
 
 
 
 
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