|
Il Manifesto, 25 aprile 2001
Leggi razziali, l'ordine è già stato eseguito
Lo zelo persecutorio del capo della provincia di Grosseto, l'ambiguità del vescovo, la
complicità dei dirigenti locali di
Luciana Rocchi
La memoria degli italiani sulle persecuzioni antiebraiche nell'Italia fascista è stata
offuscata dal tempo e da complessi processi di rimozione. Ma la possibilità di una
ricostruzione storica non è poi così facile da quando siamo entrati in quella che è
stata definita "l'era del testimone" (Wieviorka), caratterizzata da un enorme
accumulo di testimonianze, raccolte da singoli o istituzioni (ultima la Survivors of the
Shoah visual history foundation, creata da Spielberg). Gli stereotipi nei quali spesso la
memoria si rinchiude possono agire come potente schermo difensivo
rispetto alla ricostruzione di quella verità, pur parziale e limitata, cui ogni storico
onesto tende.
In più, l'immagine, che la storiografia ci ha restituito per decenni, della moderazione
delle persecuzioni razziali fasciste, se messe a confronto con la crudeltà dello
sterminio nazista (De Felice, Poliakov) ha prodotto un senso
comune tendenzialmente assolutorio (anche la persecuzione nella Rsi, con oltre 6.000
deportazioni, è stata in molti casi letta come una necessità, imposta dall'alleato
tedesco a Mussolini); salvo, poi, essere in contraddizione con
quelle ricerche di storia locale che, ricostruendo la caccia all'ebreo attraverso fonti
d'archivio, svelano nomi e gesti di persecutori e perseguitati e fanno emergere, pur
accanto agli atti di solidarietà, un tessuto fatto di silenzi e complicità, che ha
attraversato dirigenti politici, funzionari del regime, ma anche la società. David
Bidussa parlava nel 1994 di "una curiosa discrasia tra una storiografia che tende a
stemperare presupposti e circostanze di ciò che furono le leggi razziali e una
'microstoria' che invece narra episodi di uccisioni, massacri... un altro paese, fatto di
delazione, di indifferenza, di egoismo e di cinismo". Lo stato attuale della ricerca,
grazie a lavori di storici come Collotti, Miccoli, Picciotto Fargion, Sarfatti, ha imposto
l'uso di categorie di analisi nuove, che tuttavia non hanno prodotto ancora una
modificazione del senso comune.
Dati questi presupposti, appare di grande utilità far crescere "le
microstorie", che coinvolgono le memorie personali, anche quando si crea un corto
circuito tra queste e il documento d'archivio, tale da far esplodere contraddizioni. Il
caso delle persecuzioni antiebraiche in provincia di Grosseto nel 1943-44 può essere
emblematico. Cosa dicono le fonti archivistiche?
In una provincia, che nel 1938 censiva 149 ebrei su una popolazione di 189.557 abitanti,
ridotti a 100 nel 1943, la "questione ebraica" non presentava elementi di
drammaticità, anche tenendo conto dell'assimilazione del nucleo ebraico con il resto
della popolazione e col regime, nell'unico centro, in cui esisteva una presenza ebraica
storicamente significativa: Pitigliano. Qui, come altrove, al censimento seguiva la
persecuzione, ma, al di là della speciale violenza della propaganda di regime - lo
documentano i durissimi articoli apparsi sul foglio d'ordini del Pnf
"La Maremma" - non emerge altra singolarità. Fino al 14 novembre 1943, quando
la Rsi decretò con la Carta di Verona che gli ebrei appartenevano "a nazionalità
nemica". Fu allora che il capo della Provincia di Grosseto, Alceo Ercolani
(ex-ufficiale decorato per meriti di guerra, ex-capo del Pfr), meritò di essere additato
come esempio dal Comando militare territoriale germanico per la tempestività con cui
aveva provveduto all'istituzione di un campo di
internamento, atto per cui fu invece richiamato dal ministero degli interni, per non aver
atteso disposizioni da chi di competenza. La cronologia è illuminante: l'ordine di
polizia n. 5, che prescrive sequestri e internamento, è del 30 novembre; Ercolani aveva
già emanato il primo decreto di sequestro di proprietà il 16 novembre; il 24 aveva dato
inizio ai lavori di ristrutturazione di un'ala della sede estiva del seminario vescovile,
a Roccatederighi, per internarvi gli ebrei; i primi arresti erano stati fatti il 27
novembre. Il perché di tanto zelo persecutorio è argomento complesso ma, frugando tra le
carte che documentano l'attività di Ercolani, è possibile rintracciare accenti di
singolare durezza, che in un caso approdano all'eccidio di 11 giovani inermi renitenti
alla leva; ed è anche possibile verificare, nei gruppi dirigenti locali, un quasi unanime
consenso. E' significativo che nessuno degli arresti di ebrei sia compiuto da soldati
tedeschi. Si aggiunga che, accanto ai gesti di solidarietà verso gli ebrei, attestati dai
documenti della
questura, si era creata intorno all'Egeli (Ente per la gestione e liquidazione immobiliare
dei beni ebraici sequestrati - nel gennaio 1944, 15 aziende agrarie per 13.000 ettari) una
fitta rete di complicità.
Particolare attenzione merita l'istituzione del campo. Esiste un regolare contratto,
stipulato tra il vescovo di Grosseto, Paolo Galeazzi, e la Provincia, che prevedeva un
affitto mensile di L. . 5.000, più 300 lire al giorno per le suore e 600 per gli uomini,
addetti ai servizi. L'affitto non fu mai pagato, se il vescovo, in una lettera del
settembre 1944, a liberazione avvenuta, ne reclamò la riscossione dall'Amg. La forma
dell'affitto poteva anche servire (suggerisce Bruna Bocchini Camaiani) ad allontanare i
rischi di un esproprio, come la presenza del vescovo e di
sacerdoti accanto agli internati poteva - come è stato - servire ad alleviarne le pene.
Ma va sottolineato che la concessione del seminario è giustificata dal vescovo nel
contratto come "prova di speciale omaggio per il nuovo Governo" (diverso
sembrerà il tono del vescovo, nel settembre 1944, quando sosterrà di aver subito suo
malgrado pressioni e minaccia di requisizione), governo mai formalmente riconosciuto dalla
Santa Sede.
Giovanni Miccoli ha descritto l'ambigua posizione della Santa Sede e delle gerarchie
cattoliche, che alternano la persistente diffidenza nei confronti degli ebrei e l'assenza
di "una rottura netta, inequivocabile, con le tendenze discriminatorie in atto",
all'invito a porgere aiuto "ai singoli, agli indifesi, ai deboli e ai
sofferenti". In questo contesto s'inscrivono certo scelta e comportamenti del vescovo
di Grosseto. La sua biografia è ancora da scrivere, ma appare già oggi un personaggio
interessante, se suscitò un incidente diplomatico tra Vaticano e addetto Usa presso la
Santa Sede, nel giugno 1943, con la scrittura di un articolo forte su un bombardamento
americano, che i cardinali Maglione e Tardini definirono inopportuno, perché
"politico"; e a seguito del quale ricevette dal S.C. Consistoriale "un
rebuffo".
Questo dicono le fonti archivistiche. Che cosa ha conservato la memoria locale?
Quando a Grosseto fu esposta una mostra sulle persecuzioni antiebraiche nella provincia,
quasi nessuno che non avesse avuto diretto contatto con il campo ne conosceva l'esistenza,
quindi protagonisti e testimoni non ne avevano tramandato memoria. Nella pubblicistica
locale, due sole tracce restano: una pubblicazione sulla Resistenza, che contiene il breve
diario di un internato e, in un volumetto di storia del paese di Roccatederighi, scritto
da un sacerdote, una citazione dell'episodio del campo, utile a ricordare quello che
l'autore definisce "gesto
eroico" del vescovo, che protesse gli internati. Alcune interviste fatte a
sopravvissuti grossetani offrono informazioni utili, ma danno anche la rappresentazione di
una forma di elaborazione della memoria comune. Conservano il ricordo della presentazione
spontanea di alcuni ebrei grossetani all'invito delle autorità nel novembre '43, di una
vita al campo sufficientemente serena: si poteva uscire, svolgere attività varie,
intrattenere rapporti cordiali con gli abitanti del paese e persino con i militi di
custodia. Nello stesso senso si esprime oggi un sacerdote, allora studente di teologia
residente nel seminario; la sua memoria si conclude con una "testimonianza di
ammirazione sull'operato del direttore del campo... per la sua sensibilità e
umanità". Unici momenti drammatici, quelli della scelta degli internati avviati a
Fossoli per essere deportati in Germania. 33 furono deportati; solo 4 tornarono. Tra
questi, molti ebrei stranieri, qualche italiano, nessun grossetano. Certo non fu una
coincidenza fortuita, ma il risultato di una rete protettiva, che ha lasciato nei
sopravvissuti gratitudine verso chi ha salvato loro la vita, ma insieme il dolore, ancora
lacerante, per il sacrificio degli altri. Impossibile, con i protagonisti, ma anche con
alcuni testimoni, tentare passaggi che vadano oltre l'elaborazione dell'esperienza vissuta
e le cristallizzazioni che la loro memoria ha consolidato - grazie a una lettura più o
meno consapevolmente selettiva - e ora trasmette, narrando.
Così, compito dello storico è quello di mettere insieme i documenti e le memorie, far
parlare quelli e misurarsi con delicatezza e rispetto con queste, ma per arrivare a una
conclusione, che non tradisca le regole del suo mestiere.
Perché la memoria si costruisce nel ventre della storia, ma anche la storia deve
contribuire a produrre memoria. Compito arduo, dunque, quello dello storico, ma oggi tanto
più necessario, quando sempre più spesso le ragioni della storia si debbono confrontare
con quelle del suo uso pubblico e chi, pur accettando con convinzione una storia "che
rivede", non si associa al revisionismo estremo che finisce per confondere le
differenze tra fascismo e antifascismo, può rischiare l'accusa di conservatorismo o di
voler perpetuare una storia ideologizzata.
|