Corriere della Sera, 31 marzo 2001

Il documento italo-sloveno.
Foibe, la memoria nel cassetto

di Giovanni Berlardelli


Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli inviti a non asservire la storia alla politica, a non valutare la ricostruzione del passato alla luce dei criteri e delle convenienze di una competizione elettorale. Tanto più sorprende, perciò, che il nostro ministero degli Esteri non si stia mostrando capace di seguire quegli inviti nel caso di una vicenda che è stata raccontata ieri da questo giornale. Forse per il particolare momento preelettorale, il ministero ha evitato la divulgazione della relazione elaborata da una commissione italo-slovena di storici nominati dai due governi, che pure è stata consegnata già da alcuni mesi. In questa relazione si parla sia della violenta politica nazionalizzatrice attuata dal fascismo nei confronti della comunità slovena, sia delle foibe e delle violenze attuate contro gli italiani, nel 1945, dai partigiani titini. E’ difficile capire perché un testo dedicato a fatti di oltre mezzo secolo fa dovrebbe turbare la campagna elettorale, o comunque quale altro
motivo osti alla sua pubblicazione. Tanto più che sulla questione delle foibe (le profonde fenditure carsiche in cui gli jugoslavi gettarono i corpi di alcune migliaia di italiani da loro seviziati e uccisi), a lungo rimossa dall’opinione pubblica del nostro Paese, ha cominciato a formarsi in questi ultimi anni l’embrione di una memoria condivisa. Il Partito comunista accreditò per decenni la versione jugoslava, che da un lato riduceva notevolmente il numero delle vittime di quelle violenze e, dall’altro, considerava in blocco quei morti come fascisti, dunque come oggetto di una «comprensibile» ritorsione per gli atti di violenza compiuti dagli
italiani nella regione.
Il Partito comunista accreditò per decenni la versione jugoslava, che da un lato riduceva notevolmente il numero delle vittime di quelle violenze e, dall’altro, considerava in blocco quei morti come fascisti, dunque come oggetto di una «comprensibile» ritorsione per gli atti di violenza compiuti dagli italiani nella regione.
Ma proprio i Democratici di sinistra, a metà degli anni Novanta, hanno partecipato
attivamente a un processo di ricostruzione che li ha portati a riconoscere la realtà dei fatti: cioè che, agli occhi dei partigiani jugoslavi, la principale «colpa» degli infoibati era quella di essere italiani e dunque di costituire per ciò stesso un ostacolo, da togliere di mezzo, per le mire annessionistiche di Tito sul Friuli, sulla Venezia Giulia e sull’Istria. Tanto che, fra le vittime, vi furono anche alcuni esponenti dei Comitati di Liberazione Nazionale di Trieste e di Gorizia.
La discussione sviluppatasi qualche anno fa avvenne alla luce del sole. Non sappiamo invece che tipo di discussione sia potuta avvenire, nell’arco di sette anni (tanto sono durati i suoi lavori), entro la commissione italo-slovena di cui si è detto.
Ma è lecito il dubbio che gli storici che ne erano membri si siano trovati coinvolti, in virtù della particolarissima natura di quell’organismo, in discussioni estenuanti sulle singole frasi e le singole parole per arrivare a una ricostruzione dei fatti che fosse accettabile dalle due parti, per licenziare una specie di versione ufficiale sulla quale tutti potessero concordare.
Non sappiamo quali ragioni abbiano indotto a suo tempo a costituire una simile
commissione, e ci piacerebbe anzi conoscerle.
Su di una cosa tuttavia abbiamo pochi dubbi: quelle ragioni, quali che fossero, avevano e hanno poco a che vedere con i metodi e gli scopi della ricerca storica, che dà luogo a un tipo di conoscenza sempre aperta e provvisoria, per definizione non ufficiale, e le cui ricostruzioni certo non si contrattano e non si votano, come supponiamo sia dovuto invece avvenire durante i lavori della commissione italo-slovena.
La vicenda si configura dunque come un caso di uso politico (governativo) della storia che sarebbe stato assai meglio evitare.

archivio rassegna home