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Corriere della Sera, 19 luglio 2001
DONGO Lultimo tabù negli archivi comunisti. Dove finirono i tesori custoditi dalla colonna che nel 45 portava il
Duce in Svizzera? Il racconto di Caprara, ex segretario di Togliatti
Un furto colossale. Una scia di sangue legata alla spartizione del bottino con almeno
dieci morti assassinati. Se fosse stato un giallo di ordinaria criminalità si sarebbe
probabilmente giunti da tempo a una compiuta ricostruzione e alla scoperta (e condanna)
dei colpevoli. Essendo, invece, un mistero in cui la criminalità sintreccia
strettamente con le ragioni della storia e della politica è più di mezzo secolo che il
caso dell«oro di Dongo» - denaro, assegni, lingotti e gioielli sequestrati a
Mussolini, ai suoi gerarchi e agli ufficiali tedeschi in fuga - si trascina senza
approdare a una soluzione completa. Si sa che cosa avvenne nella sostanza: gran parte del
patrimonio della Repubblica Sociale in liquidazione finì, attraverso vie illegali e a
volte violente, nelle casse del Partito comunista. Ma restano oscuri importanti retroscena
e manca una verità conclamata sulle responsabilità. La storiografia sè impegnata
poco nellapprofondimento, per lo più demandando snobisticamente la materia alle
indagini giornalistiche.
Omissione rilevante, specialmente se valutata dallosservatorio di oggi, a cavallo
tra prima e seconda Repubblica, perché la vicenda avrebbe offerto una facile chiave per
individuare alcuni tra i principali difetti del corso politico postfascista: connivenza
delle ex forze resistenziali (con i comunisti in posizione di forza o, comunque,
dinterdizione), manipolazione della giustizia (linsabbiamento fu tanto
accurato, nonostante decine di rinvii a giudizio e ripetuti processi, da non consentire
mai una sentenza definitiva), uso strumentale - peraltro ancora attualissimo - del mandato
parlamentare (i probabili organizzatori dei delitti si sono sottratti grazie a reiterate
elezioni).
Masssimo Caprara è uno di coloro che hanno meritoriamente dedicato attenzione
alloro di Dongo e ai colpi di mano connessi al trafugamento e lha fatto, oltre
che da storico, da testimone, essendo egli stato segretario di Togliatti prima di divenire
un intransigente liberale. «E un caso illuminante - dice - sul Pci comera e
come io lho conosciuto. Dedizione, segretezza, determinazione. Vigeva una morale su
misura, indiscussa e indiscutibile. Ci si adeguava alla consuetudine cominternista di
tacere comunque i nomi delle "operazioni bagnate", ossia delle esecuzioni
capitali, e la linea di condotta verso lesterno era di negare sempre e
tassativamente». Non per nulla Togliatti, in unintervista all Unità , poi
acquisita dal tribunale di Padova durante uno degli inutili processi, affermò: «E
uninvenzione la circostanza che la
colonna di Mussolini fosse carica di valuta italiana e straniera».
Il denaro, invece, cera, in grandissima quantità, come cera il resto del
tesoro. A parte la valutazione globale - si va dalla stima dell Office of Strategic
Services americano di circa 230 miliardi a calcoli successivi che fissano lammontare
sui 610 miliardi (valori attuali) - esiste un elenco di quanto fu ammucchiato, il 26 e 27
aprile 1945, nel municipio di Dongo dopo che gli autocarri della Flak erano stati
bloccati su quelle sponde del lago di Como: lire 1.045.880.000, franchi svizzeri
2.820.000, dollari 65.000, franchi francesi 19.558.000, pesetas 1.000.000, sterline oro
2.590, marenghi oro 21.229, lingotti oro 42 chili, oro in gioielli 66 chili, argenteria 35
chili.
Manca, però, ed è sempre mancato un inventario generale che sommi tutto ciò che
fascisti e tedeschi si portavano davvero dietro nella ritirata: cioè le riserve della
Rsi, i fondi dei ministeri, il denaro ritirato in diverse banche milanesi prima della
fuga, il fondo personale di Mussolini, i 100 milioni probabilmente appena incassati per la
vendita della sede del Popolo dItalia , i soldi ottenuti da Pavolini per le sue
Brigate nere (almeno 340 milioni), i patrimoni di ministri e funzionari e delle famiglie,
la dotazione degli ufficiali tedeschi e il denaro da loro razziato in caserme e uffici
(oltre limponente mole di documenti e larchivio di Mussolini, che
costituirebbero un secondo filone del giallo). Escluse le proprietà personali per le
quali si fosse eventualmente riconosciuta la restituzione, il grosso spettava allo stato
italiano.
Ma a Roma arrivò soltanto una minima quota. Mentre oro e soldi cominciavano a imboccare
decine di rivoli (singole appropriazioni, nascondigli e lanci nel lago), il Pci avviò la
grande operazione di rastrellamento e recupero. «Ad agire - dice Caprara - furono i
quadri intermedi, ma sicuramente dietro ordini del gruppo dirigente, Secchia e Longo in
particolare. Togliatti, certo informato, era ancora fuori Italia. I vertici comunisti
consideravano scontato che il tesoro di Dongo dovesse diventare bottino di guerra del
partito in quanto il partito aveva avuto un ruolo preponderante nella lotta partigiana,
era stato il più impegnato e combattivo e avrebbe continuato a esserlo». Il
raggiungimento dello scopo non fu, tuttavia, pacifico. Una parte era finita in mano a
partigiani non comunisti, che non volevano saperne di consegnare, e tra gli stessi
militanti del Pci emergeva più duna resistenza. E poi il tesoro così comera,
in buona misura formato da assegni, valute straniere e oro, non risultava facilmente
spendibile.
Ecco entrare in scena, in fasi successive, gli uomini-chiave delloperazione,
eccezionali per decisione e abilità, che Massimo Caprara definisce, con icastica
classificazione alla Quentin Tarantino, il «trafugatore» e il «monetizzatore». Il
primo è Dante Gorreri, detto «Guglielmo», emiliano, idraulico, segretario della
Federazione comunista di Como, il quale sinforma, ispeziona, interroga, minaccia. E
recupera, recupera ogni giorno e con ogni mezzo, perfino attraverso irruzioni in banca e
dirottamento di convogli portavalori. Il clima di terrore instaurato dallimplacabile
funzionario è tale che lispettore di pubblica sicurezza Ciro Verdiani scrive in un
inascoltato rapporto: «Cè la minaccia di morte incombente su chiunque troppo
sappia, o voglia sapere, o dica, sulla destinazione e possesso del cosiddetto "oro
del Duce"».
Il «monetizzatore» è un personaggio di maggior fascino ma di uguale, ferrea fedeltà al
partito, Renato Cigarini, avvocato matrimonialista, ex legionario fiumano, ex ufficiale di
cavalleria. «Lo conobbi bene - ricorda Massimo Caprara -. Veniva ogni quindici giorni a
Roma e si fermava a chiacchierare con me in attesa che Togliatti fosse libero. A ogni
visita compiva una singolare triangolazione che non poteva non incuriosirmi: dopo essere
stato da noi al secondo piano, saliva al terzo dallamministrazione e poi al quarto
da Secchia. Fu lo stesso Cigarini un giorno, a pranzo, a spiegarmi larcano: lui si
stava occupando di riciclare il bottino di Dongo trasformandolo in depositi e titoli
presso alcune banche svizzere, poi riutilizzabili in Italia».
Riutilizzabili come? Spese correnti, necessità logistiche e organizzative, ma soprattutto
investimenti immobiliari. Per esempio, lacquisto della sede di via delle Botteghe
Oscure a Roma, edificata dai costruttori Marchini, oppure, attraverso una tranche
destinata al Nord, di un palazzo nel centro di Milano, via San Pietro allOrto, che
oggi ospita il cinema «Arlecchino».
Mattoni su mattoni, sotto i quali resteranno idealmente sepolti i cadaveri caduti, tempo
prima, lungo lo spietato itinerario del «trafugatore». Un tragico elenco che si apre con
i nomi del partigiano Luigi Canali, «capitano Neri», capo di stato maggiore della
52esima Brigata Garibaldi, e della sua amante Giuseppina Tuissi, la partigiana «Gianna».
E poi di Giuseppe Frangi, Lina Chiappo, Michele Bianchi e la figlia Anna, lavvocato
Achille Cetti e la moglie Noemi, Alfredo Veronelli e il colonnello Di Domenico.
Tutti colpevoli di essersi messi di traverso o diventati testimoni scomodi.
Quasi tutti eliminati nello stesso modo: due rivoltellate a bruciapelo e giù nel lago.
Epilogo di una storia di avidità, ferocia, vendette e tradimento che ancora oggi
meriterebbe una luce riparatrice.
Per saperne di più: Massimo Caprara, «Quando le botteghe erano oscure» (Il Saggiatore,
1997) e, a cura di Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, «Pci, la storia dimenticata»
(Mondadori, 2001)
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