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Corriere della Sera, 19 luglio 2001
Da Longo a DAlema, lantica voglia di «movimento». Il
dialogo con gli studenti del 68, la rottura del 77: il tormentato rapporto del
Pcidi Paolo Franchi
Erano alcuni dirigenti di primissimo piano del movimento studentesco romano, che
il Pci lo contestavano, e aspramente, da sinistra. Un vertice segreto? Macché: lo stesso
Longo si affrettò a scriverne sul settimanale, per sottolineare come e perché, per
quanto aspre potessero essere le polemiche e le divergenze, quello degli studenti era un
movimento anticapitalistico, amico della classe operaia, e i comunisti non potevano,
appunto, che starci dentro. Non erano tempi in cui si potesse contestare il segretario
generale. Ma le parole di Longo provocarono un putiferio, anche perché mancavano poche
settimane alle elezioni politiche. Si entusiasmò la sinistra di Pietro Ingrao, si
sentirono confortati gli universitari
comunisti, prese la palla al balzo lancor giovane Achille Occhetto, che dirigeva la
propaganda elettorale. Protestò, invece, eccome, la destra del partito. E il più duro di
tutti fu Giorgio Amendola. Lenin alla mano, teorizzò, sempre su Rinascita , la
«necessità della lotta su due fronti»: contro l«opportunismo
socialdemocratico», ci mancherebbe, ma anche, e soprattutto, contro lestremismo
che, giurava Giorgione, restava «la malattia infantile del comunismo», un pericolo
mortale.
Le elezioni del 19 maggio diedero ragione a Longo. Il Pci andò avanti, non perse voti a
destra, ne guadagnò a sinistra, tutto allopposto dei cugini francesi, che invece
sul Maggio avevano sparato a zero, anche nel timore che la rivolta studentesca contagiasse
gli operai. In cambio lItalia si ebbe, nel bene e nel male, il più lungo
Sessantotto che il mondo abbia conosciuto. E comparvero pure nuovi movimenti, molto più
spurii, molto più contraddittori, che almeno allapparenza il Sessantotto degli
studenti e degli operai lo avevano in gran dispetto. Si poteva
cercare di «stare dentro» pure a quelli? A sinistra, soprattutto nella sinistra estrema,
cera chi pensava di sì.
I moti di Reggio Calabria, nonostante a guidarli fosse un capataz missino locale, Ciccio
Franco, parvero a Lotta Continua una buona premessa per incendiare tutto il Mezzogiorno:
nacque anche un settimanale, Mo che il tempo si avvicina . I comunisti no,
stabilirono che, nonostante gli indubbi consensi popolari, si trattava di movimenti
reazionari. A Reggio cè ancora chi ricorda Ingrao arringare poche centinaia di
militanti nel quartiere di Sbarre, difeso dai compagni della vigilanza in armi: e a
chiudere il capitolo della rivolta provvide una gigantesca manifestazione nazionale dei
metalmeccanici, che allepoca sembravano qualcosa di simile allo spirito del mondo a
cavallo.
Altri tempi. I comunisti facevano ancora i conti con quel che restava del Sessantotto e
già nella società italiana cerano, in incubazione, rotture nuove e largamente
impreviste. La più clamorosa si chiamò Settantasette, e si manifestò giusto un anno
dopo la più clamorosa avanzata elettorale comunista nella storia repubblicana, con il Pci
a metà del guado tra una trentennale opposizione e una prospettiva di ingresso al governo
considerata ormai imminente.
Tra il Pci e il Settantasette fu guerra mortale, anche, ma non soltanto, per via del
«partito armato» e del terrorismo diffuso: come scrisse Alberto Asor Rosa, a
fronteggiarsi erano addirittura «due società». Ma, anche dopo lesplosione della
guerra con la cacciata di Luciano Lama dalluniversità di Roma, non mancarono i
tentativi, se non proprio di «stare dentro» al movimento, quanto meno di non tagliare
tutti i ponti. E, curiosamente, il tentativo più importante lo fece Massimo DAlema,
da poco divenuto segretario della Federazione giovanile comunista, grazie pure
allapporto di Ferdinando Adornato, allepoca direttore del
settimanale della Fgci La città futura .
Altri tempi. «Stare dentro» al Sessantotto significò contribuire in misura determinante
a dare un segno politico, culturale, persino di costume ai decenni successivi, «stare
fuori» dal Settantasette, o più precisamente stargli contro, pure. Nessun rimpianto,
nessuna nostalgia.
Ma i contrasti che quello «stare dentro» e quello «stare fuori» suscitarono, seppure
in un partito retto secondo le regole del centralismo democratico, furono aspri e aperti.
Non ce la sentiremmo, in tutta onestà, di fare ragionamenti analoghi sulla decisione,
vagamente surreale, dei reggenti diessini di aderire alla contestazione al G8 e sulle
polemiche interne che a questa decisione hanno fatto seguito. Anche perché non abbiamo la
minima idea di quali siano la prospettiva strategica, la natura e lidentità di un
partito che, senza offrire alcuna ragionevole spiegazione in materia, si appella
dallopposizione ai suoi militanti perché contestino un appuntamento che, dal
governo, ha fortissimamente voluto. Non è vero che un
partito riformista non possa, pena la ricaduta nel massimalismo, confrontarsi criticamente
con la globalizzazione, con i conflitti che questa determina, con i movimenti, anche
antagonistici, che suscita: questo, anzi, è un suo dovere. Ma pensare di cavarsela
facendo il verso a questi movimenti, e immaginare di riuscire a trovare la via per
«starci dentro» come se niente fosse stato e niente fosse, magari nella speranza un
po patetica di recuperare in extremis qualche consenso, sembra il segno di una
leggerezza politica così insostenibile da fare anche un po
paura. Se fossero giorni buoni per scherzare, verrebbe persino da dire: ridateci il PCI.
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