|  | Corriere della Sera, 19 aprile 2001 
 FOIBE Quaranta giorni che non finiscono
 
 di Dario Fertilio
 
 I quaranta giorni che sconvolsero Trieste, nellormai lontano
    1945, non finiscono mai. Oltre a stabilire quanti furono gli italiani uccisi dai titini,
    prima e dopo loccupazione jugoslava della città, e quanti gli «infoibati»
    complessivi, in Venezia Giulia e in Istria, occorre rispondere a una domanda: fu pulizia
    etnica? E lecito usare una simile espressione, associata a Bosnia e Kosovo, per
    definire ciò che avvenne ai danni degli italiani? Ci fu una volontà preordinata di
    sradicare una cultura e un popolo? Dopo le indiscrezioni pubblicate nei giorni scorsi
    sulla commissione storica italo-slovena, oggi a Roma in un convegno si tenterà di offrireinterpretazioni pacate. Tuttavia la relazione introduttiva, affidata al professor
    Giampaolo Valdevit delluniversità di Trieste, non mancherà di suscitare nuove
    discussioni. «Non si trattò di pulizia etnica - sostiene Valdevit - ma piuttosto di una
    violenza di Stato». La differenza? «Non cera, da parte jugoslava, il progetto di
    cancellare la componente italiana: le si offriva piuttosto una presenza subalterna, con
    qualche concessione culturale». La tesi della «violenza di Stato» è corroborata,
    secondo Valdevit, da molti gesti compiuti in quei mesi: «Il rastrellamento dei fondi
    della Banca dItalia a Trieste, luccisione di finanzieri e carabinieri, il
    saccheggio degli archivi politici della questura a fini di ricatto, tutto questo prova
    come si volesse cancellare ciò che rappresentava lo Stato italiano, non il popolo».
    Giampaolo Valdevit ne trae una conclusione: «Lesodo degli italiani non fu il
    risultato di una pulizia etnica, piuttosto il riflesso di un drammatico cambiamento
    sociale: la comunità, ancora legata a condizioni culturali ed economiche tradizionali,
    vide irrompere nella vita di tutti i giorni la modernità, rappresentata dal potere
    statale comunista. E lesodo coincise con il rifiuto di quel mondo».
 Ma, quasi a sottolineare la distanza delle interpretazioni, e linconciliabilità
    delle passioni, proprio mentre si tiene il convegno romano viene diffuso un «libro
    bianco» di segno opposto. Vi campeggia il ritratto di Vasa Cubrilovic, serbo bosniaco
    nato nel 1897 a Bosanska Gradiska, coinvolto ancora minorenne nellassassinio di
    Sarajevo e per questo, dopo il 1918, trasformato in
 eroe nazionale della Jugoslavia monarchica.
 Nel manuale dellespansionismo serbo in chiave antialbanese, da lui scritto nel 1937,
    si troverebbe un agghiacciante precedente delle foibe. Lautrice del «Libro
    bianco», Antonietta Vascon, oggi è presidente del consiglio provinciale di Trieste e
    animatrice del comitato «Triestine per le libertà»: ma soprattutto fu profuga lei
    stessa dallIstria. Secondo la sua tesi, il manuale Cubrilovic per la pulizia etnica,
    concepito per gli albanesi negli anni Trenta, sarebbe stato utilizzato dopo il 1945 per
    gli italiani di Istria e Dalmazia, quando Cubrilovic diventò ministro di Tito. Del resto,
    sulla base dello stesso manuale, sarebbe stata avviata la politica antialbanese nel
    Kosovo.
 Antonietta Vascon rievoca anzitutto alcuni tratti della personalità di Cubrilovic e, a
    grandi linee, il suo piano originario: eliminare "scientificamente" letnia
    albanese che viveva in un triangolo geografico adiacente alla Serbia, con una base
    compresa fra le città di Debar-Rogozna e Ni. La strategia viene sintetizzata con
    una citazione: «La sol a maniera di allontanare gli etno-diversi è la forza brutale di
    un potere statale organizzato. Non rimane che una sola via, la loro deportazione in massa.
    Quando il potere dello Stato interviene nella lotta per la terra, non può avere successo
    che agendo brutalmente».
 Lideologo di quella pulizia etnica, ricorda la Vascon, coronò la carriera politica
    come ministro di Tito e restò fino alla morte, nel 91, consigliere di Milosevic.
    Fra le misure da lui consigliate per sbarazzarsi delle minoranze indesiderate:
    persecuzioni amministrative di polizia; disconoscimento dei vecchi titoli di proprietà;
    destituzioni degli impiegati privati e municipali; misure «pratiche ed efficaci» sul
    piano sanitario; persecuzione del clero; devastazione dei cimiteri. Tutte queste tecniche
    sarebbero state applicate, secondo la Vascon, «ai 350 mila italiani autoctoni
    dellIstria, di Fiume e della Dalmazia», ridotti ad appena 33 mila
 dopo la conclusione delloperazione di pulizia etnica.
 Un particolare le sembra più rivelatore di cento discorsi teorici: la distruzione dei
    muri e delle grosse cinte delle case. Il senso delloperazione, secondo il piano
    originario di Cubrilovic, doveva essere quello di intimidire ed esasperare i musulmani,
    osservanti delle surah del Corano, di fronte allesposizione delle loro donne a occhi
    indiscreti. Il fatto che la stessa operazione venne ripetuta ai danni degli istriani e dei
    dalmati, con tanto di abbattimento dei muri di orti e giardini per mano di squadre di
    fanatici, dimostrerebbe lapplicazione meccanica di quella teoria.
 Nel resto del «Libro bianco», la Vascon si rivolge alle autorità slovene e croate
    perché riparino alle colpe storiche della Jugoslavia, consentendo agli esuli italiani di
    recuperare i loro beni. Molti storici, tuttavia, la contestano. Per Fulvio Salimbeni, che
    ha partecipato fin dallinizio ai lavori della commissione italo-slovena, «del piano
    Cubrilovic si sarebbe cominciato a parlare soltanto nell81, e non ci sono prove che
    sia stato utilizzato, o addirittura conosciuto, dagli jugoslavi nel tragico periodo del
    43-45». Ancor più netto un altro storico, Joe Pirjevec: «La tesi della
    Vascon è una forzatura che può causare un grave danno ai rapporti fra Roma e Lubiana».
      E così, fra convegni, commissioni e libri bianchi, i quaranta dolorosi giorni di
    Trieste rischiano di non finire mai.
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