|
Corriere della Sera, 5 aprile 2001
Attenti a come si parla di storiadi
Alexander Stille
La recente pubblicazione di una lettera scritta dal grande storico Arnaldo
Momigliano al ministro dell'istruzione fascista Giuseppe Bottai ha stimolato
una nuova tornata del dibattito sulla natura del fascismo e dell'antifascismo che,
sfortunatamente, come spesso accade in questi casi, ci dice molte più cose sulla politica
di oggi che sulla storia di quel periodo. In quest'ottica è particolarmente interessante
il recente articolo di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato su Sette, intitolato:
"Il Caso Momigliano insegna che la storia non è tutta bianca e nera". Galli
della Loggia mescola dati di fatto a gravi alterazioni della realtà che finiscono
per sostituire una caricatura storica con un'altra, ugualmente bianca e nera. I dati
oggettivi sono questi: nel novembre 1938, al tempo delle leggi razziali, Momigliano
scrisse a Bottai dichiarando la leale adesione, sua personale e della famiglia, alla causa
fascista per evitare di essere destituito dal suo incarico universitario. Momigliano
afferma di essersi arruolato nella milizia fascista al tempo dell'invasione dell'Etiopia e
che suo padre "ha ricoperto continuamente posti di fiducia nel PNF e in
organizzazioni collaterali e, come segretario politico del fascio di Caraglio durante
l'affare Matteotti, ha confermato la sua fedeltà al Regime", sua madre, infine,
"è decorata di medaglia di bronzo del Ministero della Guerra ed è stata segretaria
politica del fascio femminile di Caraglio per parecchi anni". Ecco la prima lezione
che ci offre il professor Galli della Loggia: "La lettera di Momigliano ci dice
inequivocabilmente che una famiglia di ebrei italiani poteva benissimo essere
integralmente e fervidamente fascista dalla nascita del movimento ed esserlo restata anche
dopo il concordato, dopo l'Etiopia, dopo la Spagna". Fin qui nessun problema, ma
neppure grandi rivelazioni: il fatto è talmente noto da
costituire poco più della "scoperta dell'acqua calda". Ma Galli della Loggia
parte da affermazioni ovvie per arrivare a conclusioni del tutto errate.
"Stando così le cose - confermate da molte testimonianze - dovrebbe essere
difficile, mi sembra, affermare oggi: a) che il fascismo sia stato fin dalle sue origini
una ideologia di tipo razzista antisemita; b) che pertanto gli ebrei italiani abbiano
rappresentato in quanto tali un gruppo almeno tendenzialmente ostile al regime. Eppure è
proprio ciò che si legge sempre più spesso in ricostruzioni di quel periodo che,
forzando indebitamente i fatti, retrodatando il razzismo fascista, adottato solo nel 1938,
per obbedire ad antistorici criteri di "correttezza politica" che esigono quadri
in bianco e nero". Galli della Loggia, non cita neppure un esempio del fenomeno che
denuncia, e ciò non sorprende perché in realtà è vero
esattamente il contrario. Negli ultimi quarant'anni qualunque analisi storica seria si è
ben guardata dal nascondere gli stretti legami esistenti tra ebrei italiani e fascismo,
anzi, ne dà abbondante evidenza. La Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo
pubblicata nel 1961, forse l'opera migliore di Renzo De Felice, riporta i fatti
fondamentali: cinque delle 119 persone presenti a Milano in Piazza San Sepolcro alla
fondazione del movimento fascista erano ebree. Circa 230 ebrei ricevettero come
onorificenza "il certificato della Marcia su Roma". Nel 1938,
all'approvazione delle leggi razziali, 10.000 ebrei, quasi un adulto su tre in una
comunità che contava in Italia circa 50.000 individui, erano membri del partito fascista.
(Ne Il giardino dei Finzi-Contini, di Giorgio Bassani, il capofamiglia è ritratto come
sostenitore dei fascisti fino alle leggi razziali). Che fascisti ed ebrei convivessero in
armonia prima del 1938 era spiegato in pratica in ogni studio successivo, da Mussolini e
gli Ebrei di Meir Michaelis del 1978, a Gli italiani e l'olocausto di Susan Zuccotti del
1987. Nello stesso anno Vittorio Dan Segre narra in Memorie di un ebreo fortunato della
gioventù fascista di un ebreo italiano in seguito emigrato in Israele. Nel mio libro Uno
su mille: cinque famiglie ebraiche italiane durante il fascismo (1991), dedico ben novanta
pagine a descrivere la vita
di una famiglia ebrea fascista nel contesto di quell'epoca. Prima della comparsa di Hitler
sulla scena internazionale, l'associazione odierna tra fascismo ed antisemitismo non
faceva parte della cultura del tempo e, come risultato, il comportamento politico degli
ebrei italiani rispecchiava strettamente quello dei loro vicini di casa cristiani.
Nell'introduzione scrivo: "Non c'è ragione per cui gli ebrei si debbano collocare su
un piano superiore a chiunque altro; erano italiani come gli altri, affrontarono la stessa
realtà, furono preda delle stesse forze e passioni. Il loro comportamento sotto il
fascismo, come quello degli altri italiani, copre l'intera gamma delle possibilità, dallo
sciocco al saggio, dallo spregevole
all'eroico". Sinceramente è piuttosto sorprendente che uno storico apprezzato scriva
che la storiografia recente nasconde i legami tra fascismo ed ebrei. Dimostra di non
conoscere la letteratura e fa sorgere il dubbio di non avere interesse a correggere la
testimonianza storica ma di indulgere piuttosto nella solita "caccia
all'antifascista", diventata negli ultimi anni in Italia uno sport sempre più
popolare (come dimostra l'attenzione suscitata da lettere simili contenenti rivelazioni su
altri noti antifascisti come Norberto Bobbio e Alberto Moravia). La conclusione che
dovremmo trarne è che i cosiddetti antifascisti non erano meglio degli altri ma solo più
ipocriti, perché in genere hanno taciuto i loro momenti di
"accomodamento" al regime. Galli della Loggia, nell'ansia di screditare la
cultura antifascista, legge nella lettera di Momigliano più di quanto sia giustificato.
Non ho una particolare conoscenza della biografia personale e politica di Momigliano, non
intendo quindi esprimerne un giudizio, ma ho visto centinaia di lettere simili negli
archivi fascisti e so che si prestano a diverse interpretazioni. La lettura che ne fa
Galli della Loggia, come espressione diretta di fede fascista, è molto discutibile. Credo
che per comprendere il significato della lettera di Momigliano occorra una
conoscenza del contesto storico più approfondita di quella offerta da Galli della Loggia,
che contrappone il bianco al nero proprio come, secondo le sue accuse, fanno gli altri.
Non è esattamente vero che l'antisemitismo non era presente nella cultura fascista prima
del 1938 e che non esistevano ragioni particolari per cui gli ebrei dovessero essere
inclini all'antifascismo. In realtà ci fu sempre una certa tensione antisemita nel
fascismo, espressa dai leader del movimento, come Roberto Farinacci e da esponenti di
spicco della propaganda, come Telesio Interlandi, direttore de Il Tevere. Questa spinta
guadagnò importanza dopo il 1933 quando Hitler andò al potere in Germania e quando
Farinacci fece pressioni per un'alleanza con Hitler. Già nel 1934, ad esempio, Il Tevere
scriveva: "ricorderemo che il meglio dell'antifascismo è di razza ebraica: da Treves
a Modigliani, da Rosselli a Morgari, gli organizzatori del sovversivismo antifascista
furono e sono della "gente consacrata"". Le voci antisemite del regime
insistevano affinché gli ebrei italiani dessero dimostrazione di patriottismo e si
dissociassero dai sovversivi. Anche se Il Tevere esagerava il peso dell'elemento ebraico
dell'antifascismo italiano, quanto affermato conteneva un granello di verità. (Poiché
gli ebrei erano stati in origine liberati dalle truppe Napoleoniche che invasero l'Italia
nel 1797, e ottennero definitivamente l'eguaglianza dopo l'unificazione dello stato
italiano, molti ebrei italiani nutrivano simpatie liberali, giacobine unite ad un forte
senso di patriottismo nei confronti dell'Italia). E' comunque inconfutabile che dopo
l'avvento al potere di Hitler tra gli ebrei italiani crebbero inquietudine e
disagio e in alcuni periodici fascisti comparvero con molta più frequenza espressioni
antisemite. Questo spinse alcuni ebrei verso attività antifasciste, da qui, in parte,
l'alto numero di ebrei - Carlo Levi, Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Mario Levi e Sion Segre
- che in questo periodo aderirono a Giustizia e Libertà. E' anche vero che molti ebrei
italiani rimasero fedeli al fascismo durante l'invasione dell'Etiopia e la guerra civile
spagnola, ma quando la retorica fascista si fece più bellicosa e più razzista
(inizialmente nei confronti degli africani) e i legami con Hitler si rafforzarono, tra
loro crebbe un'inquietudine che non portò però a più
contenute dichiarazioni di fedeltà al regime. Al contrario, molte comunità ebraiche
italiane si offrirono di donare i più preziosi oggetti liturgici delle loro sinagoghe
perché fossero fusi per dare oro alla patria durante la guerra d'Etiopia. Valutare la
sincerità di questi gesti però è molto difficile. La guerra d'Etiopia incrementò la
retorica fascista contro la Gran Bretagna e la cosiddetta "Internazionale
ebraica" che complottava contro l'Italia. La prodigalità della comunità ebraica
italiana in questo periodo riflette allo stesso modo inquietudine e patriottismo. La
partecipazione al cosiddetto "giorno della Fede", in cui le donne italiane
dovevano donare le loro vere nuziali alla patria fu, secondo il regime, quasi universale,
ma molte persone tennero a casa nascosti i loro anelli e ne donarono altri di scarso
valore. Così il fatto che Momigliano sostenga di essersi arruolato volontario nella
milizia al tempo della guerra d'Etiopia può significare tutto e niente. Concludere che la
lettera di Momigliano del novembre '38 - scritta in un momento in cui egli si trovava
improvvisamente retrocesso a cittadino di seconda classe - fosse sincera espressione di
veri sentimenti pro-fascisti appare molto discutibile. Quello che se ne può sicuramente
concludere è che il potere assoluto della dittatura fascista costrinse milioni di
italiani, dai grandi artisti e studiosi ai semplici lavoratori, ad atti umilianti di
servile sottomissione per salvaguardare il proprio lavoro, la propria famiglie e la
libertà personale. Forse preferiremmo che i nostri eroi politici e intellettuali si
fossero comportati con maggiore fermezza in quelle circostanze, ma ciò non significa
necessariamente che siano stati ipocriti a denunciare il regime dopo la guerra. La
vergogna e l'umiliazione vissute scrivendo lettere di questo
genere probabilmente non fecero che rafforzare il loro odio nei confronti di quel potere
arbitrario. Nonostante il significato della lettera sia molto incerto, Galli della Loggia
non resiste alla tentazione di usarla come prova dell'ipocrisia dell'intera cultura
antifascista. Sono stati centinaia gli antifascisti (Rosselli, Pertini, Gramsci, Foa ed
altri) che hanno sopportato lunghi anni di carcere e di esilio quando avrebbero potuto
tornare ad una vita tranquilla in Italia scrivendo lettere di pentimento. Il fatto che
alcuni non abbiano voluto o potuto opporre resistenza ha significato per la vita dei
singoli individui ed è rivelatore delle pressioni cui erano
sottoposti, ma non costituisce una ragione per liquidare un'intera classe di persone.
Galli della Loggia cade nella stessa "tentazione del moralismo pedagogico, dello
sdegno ammonitore" che rimprovera a Momigliano. Dietro la "caccia
all'antifascista" c'è un grande progetto di revisionismo storico, un desiderio di
distinguere tra il "fascismo buono" precedente al 1938, e "gli errori"
che portarono alle leggi razziali, all'alleanza con Hitler e al disastro della Seconda
guerra mondiale. Si tratta di una interpretazione rozza della storia offerta da Alleanza
nazionale che permette a coloro che hanno sostenuto il fascismo e il neofascismo di
mantenere un senso di continuità interna. Sfortunatamente dipende da una lettura o bianca
o nera della storia che non regge ad un esame ravvicinato. (Traduzione di Emilia Benghi)
|