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Corriere della Sera, 4 aprile 2001
IL DOCUMENTO / Ecco il testo definitivo dellanalisi bilaterale
pronta da otto mesi ma bloccata alla Farnesina e al ministero degli Esteri di Lubiana
«Le stragi delle foibe furono violenza di Stato»
La relazione italo-slovena: le centinaia di esecuzioni frutto di un progetto politico
preordinatodi Francesco Alberti
MILANO - Vengono minuziosamente elencate le colpe del fascismo, accusato di aver
cercato di «snazionalizzare» le minoranze slovene e croate presenti nella Venezia Giulia
«con una politica repressiva assai brutale», il cui intento finale era quello «di
arrivare alla bonifica etnica» della regione. Ma altrettanto severo è il giudizio sulle
violenze compiute, dopo l8 settembre 1943 e la cacciata dei tedeschi dalla Venezia
Giulia, dai partigiani comunisti di Tito ai danni degli italiani: si parla di «molte
migliaia di arresti», si quantificano «in centinaia» le persone che trovarono la morte
nelle foibe (soltanto per quanto riguarda la Slovenia, Croazia esclusa), si ricordano «le
deportazioni di un gran numero di militari e civili nelle carceri e nei campi di prigionia
creati in Jugoslavia». E si ammette, per la prima volta da parte slovena, che quella dei
partigiani titini fu una «violenza di Stato». Viene, inoltre, ricostruito lesodo
degli italiani dallIstria nel dopoguerra, «oppressi da un regime di natura
totalitaria che impediva anche la libera espressione dellidentità nazionale». Sono
questi alcuni fra i passaggi più significativi della relazione ufficiale redatta - dopo
sette anni di lavoro - dalla commissione italo-slovena istituita dai rispettivi governi
per ricostruire la cruenta e controversa storia dei rapporti tra i due Paesi. Da otto mesi
inspiegabilmente fermo nei cassetti della Farnesina e del ministero degli Esteri di
Lubiana, il lavoro spazia dal 1880 al 1956 e - caso senza precedenti - è stato
sottoscritto - dopo contrasti anche accesi - da tutti i 14 storici (7 italiani e
altrettanti sloveni) che componevano la commissione. Le 31 pagine della relazione, delle
quali il Corriere è entrato in possesso, si articolano in quattro capitoli (1880-1918,
1918-1941, 1941-1945, 1945-1956).
VIOLENZA FASCISTA
Il Trattato di Rapallo, firmato nel 1920 tra il regno dItalia e quello dei Serbi,
Croati e Sloveni ebbe leffetto di un fiammifero sulla benzina. «Il Trattato - è
scritto nella relazione - accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto
abbondante dellarea ritenuta dagli sloveni come proprio "territorio
etnico"». La politica estera fascista fece il resto: «Nella Venezia Giulia vennero
progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate, le scuole
furono italianizzate, gli insegnanti licenziati o costretti ad emigrare, vennero posti
limiti allaccesso degli sloveni nei pubblici impieghi». Alleliminazione
politica delle
minoranze, si accompagnò da parte del regime mussoliniano unazione che «aveva
lintento di arrivare alla bonifica etnica della Venezia Giulia». In questo senso,
la commissione mista ricorda la repressione attuata nei confronti del clero, che
rappresentava un importante momento di sintesi della coscienza nazionale delle minoranze:
«Tappe fondamentali delladdomesticamento della Chiesa di confine furono la
rimozione dellarcivescovo di Gorizia, Francesco Borgia Sedej, e del vescovo di
Trieste, Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive
"romanizzatrici" del Vaticano», anche attraverso «labolizione
delluso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi».
ODIO ANTI ITALIANO
La prima conseguenza di «questo programma di distruzione integrale delle identità» fu
la fuga di gran parte delle minoranze dalla Venezia Giulia: «Secondo stime jugoslave
emigrarono 105 mila sloveni e croati». Ma soprattutto si consolidò, agli occhi di queste
minoranze, un fortissimo sentimento anti italiano, «lequivalenza tra Italia e
fascismo» che portò «la maggioranza degli sloveni al rifiuto di quasi tutto ciò che
appariva italiano». Come reazione, si radicalizzarono gli obiettivi delle organizzazioni
clandestine slovene che, verso la metà degli anni Trenta, «abbandonarono le
rivendicazioni di autonomia culturale nellambito dello Stato italiano per puntare
invece al distacco dallItalia dei territori considerati loro». Unazione che
trovò lappoggio del Partito comunista italiano. La risposta fascista fu pesante:
dopo loccupazione dei territori jugoslavi nel 41, il regime «fece leva sulla
violenza, con deportazioni nei campi istituiti in Italia (Arbe, Gonars, Renicci), il
sequestro di beni e lincendio di case».
TERRORE TITINO
L8 settembre 43 e il successivo ritiro dei tedeschi dalla Venezia Giulia
aprirono unaltra stagione di terrore. Il movimento partigiano di Tito scatenò
«unondata di violenza nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano»,
che portò «allarresto di molte migliaia di persone, in larga maggioranza italiane,
ma anche slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo»; a centinaia di
esecuzioni sommarie immediate nelle foibe; a deportazioni nelle carceri e nei campi di
prigionia (tra i quali va ricordato quello di Borovnica)». La commissione, su questo
punto, cerca di analizzare il contesto storico che portò a queste efferatezze: «Tali
avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e
appaiono essere il frutto di un progetto politico preordinato in cui
confluivano diverse spinte: leliminazione di soggetti legati al fascismo e
lepurazione preventiva di oppositori reali». Il tutto nasceva «da un movimento
rivoluzionario (quello titino, n.d.r. ) che si stava trasformando in regime, convertendo
quindi in violenza di Stato lanimosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri
partigiani».
DOPOGUERRA INCANDESCENTE
La fine della guerra e il Trattato di pace non placarono gli animi. Gli italiani
«salutarono con entusiasmo il ritorno allItalia di Trieste»», ma nello stesso
tempo «vissero come un evento traumatico la perdita dellIstria». A loro volta, gli
sloveni incassarono con gioia «il recupero del Carso e dellalto Isonzo», ma mal
digerirono «il mancato accoglimento delle loro rivendicazioni su Gorizia e Trieste».
Ciò determinò, nelle zone dove venne ripristinata dopo il 47
lamministrazione italiana, «atteggiamenti nazionalisti e di violenza contro gli
sloveni». Nella Venezia Giulia, divisa in due zone di occupazione, il contesto era
diverso. Mentre nella Zona A «il governo militare alleato costituiva soltanto
unautorità di occupazione»,
nella Zona B «il governo militare jugoslavo rappresentava al tempo stesso anche lo Stato
che rivendicava a sé larea in questione, e ciò ne condizionò lopera».
IL GRANDE ESODO
Dopo la rottura tra il movimento titino e il Cominform, «esplosero le tensioni» tra i
comunisti italiani e quelli jugoslavi. Numerosi esponenti del Pci, la maggior parte dei
quali erano accorsi in Jugoslavia attirati dal mito delledificazione del socialismo,
«subirono il carcere, la deportazione e lesilio». Nel 47 la situazione
peggiorò perché «le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato di occuparsi solo
dellamministrazione provvisoria della zona B, cercarono di forzare lannessione
con una politica di fatti compiuti». Tentarono di «costringere gli italiani ad aderire
alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dellintimidazione e della violenza». Un
disegno - affermano gli storici - dal quale traspare «palese lintento di liberarsi
degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere». Nello
stesso tempo, però, la commissione sostiene che «allo stato attuale delle
conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze - anche autorevoli da parte
jugoslava - sullesistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del governo
jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il
Cominform del 1948». Alla fine, si ammette comunque che «da parte jugoslava si vide con
crescente favore labbandono degli italiani della loro terra dorigine». Gli
scoppi di violenza che avvenirono durante le elezioni del 1950, e successivamente la crisi
triestina nel 53, fecero il resto. Il risultato fu lesodo dai territorio
istriani di migliaia di italiani: 27 mila «nelle aree oggi soggette alla sovranità
slovena», dai 200 ai 300 mila dalla Croazia. E qui la commissione accenna ad intenti di
pulizia etnica da parte slava: «La composizione etnica della Zona B subì rimaneggiamenti
anche a causa dellimmissione di jugoslavi in città
che erano state quasi esclusivamente italiane». La causa, per gli esperti, fu
«loppressione esercitata da un regime (quello jugoslavo, n.d.r. ), la cui natura
totalitaria impediva lespressione dellidentità nazionale». La fuga dei
nostri connazionali fu anche favorita «dallesistenza di uno Stato nazionale
italiano democratico e attiguo ai confini». Molti dei nostri furono presi dal timore di
«rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della cortina di ferro».
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